La fatica di gestire bilanci familiari in rosso;
l’umiliazione di chi chiude bottega per non
riaprire: le tante ragioni che spingono a dire
basta! Anche a costo della vita
La cronaca, negli ultimi anni, ci ha messo di fronte a ripetuti casi di suicidio di persone che, a causa della crisi economica, avevano perso il lavoro, il reddito, l’impresa, la propria abitazione, di pensionati che non riuscivano più a far fronte al mutuo, all’affitto, alle bollette o semplicemente che non riuscivano a pagare il conto al supermercato. Per l’opinione pubblica è impressionante e sempre più intollerabile il numero dei suicidi registrati soprattutto tra gli imprenditori ed i pensionati messi in ginocchio dalla crisi economica. Ogni imprenditore che si suicida testimonia il racconto del tramonto di quel ceto medio considerato solo fino a qualche anno fa la spina dorsale dell’economia del nostro Paese. Lo studio di questi casi, ampiamente documentati dei mass media, ha permesso di evidenziare che non si tratta di una povertà già perdurante e persistente nel tempo che fa scivolare nella disperazione piccoli imprenditori, impiegati, commercianti, pensionati, ma la discesa inesorabile da una condizione agiata o semi-agiata ad una situazione di improvvisa indigenza. Una famiglia povera è preparata alla crisi, alle ristrettezze, ai sacrifici ed alle rinunce che ciò comporta. Una famiglia che per anni ha goduto di una crescita economica, di un tenore di vita sempre più gratificante e che improvvisamente si trova a fare i conti con l’assenza o l’insufficienza di un reddito non è assolutamente in grado di gestire lo stato di crisi economica ed ecco che tale difficoltà, tale disagio e malessere trova una dignitosa via d’uscita nel gesto estremo del suicidio. La crisi economica ha messo molte famiglie di fronte alla dura realtà del disagio sociale, del disonore, del non sapere come trovare una soluzione alle richieste dei figli di continuare a studiare, di continuare a fare sport, di continuare a frequentare i luoghi di aggregazione con i propri amici. Per chi non è psicologicamente preparato alla rinuncia ed al cambio di vita che questo comporta, la difficoltà ad affrontare il quotidiano è enorme ed alla fine la mente non trova altra scelta se non quella del darsi la morte. Il loro ragionamento è semplice, è lineare: se non riesco più a vivere una vita per come sono abituato allora tanto vale rinunciare ad una sopravvivenza intollerabile e non più dignitosa, e darsi la morte.
Tuttavia non è solo la congiuntura economica la causa di tutti i mali che hanno messo in ginocchio imprese, pensionati ed intere famiglie. C’è anche un terreno fertile di base che è rappresentato dalla situazione di stallo politico e sociale che l’Italia sta vivendo da alcuni decenni. Lo stallo politico e sociale e la relativa impossibilità a progettare, da parte della classe dirigente e della classe politica, un cambiamento, una inversione di tendenza ed una ripresa dell’economia, è stata vissuta dalla popolazione del nostro Paese come un aggravante fattore contingente che toglie la prospettiva di un futuro, di una via d’uscita, di una rinascita ed un ritorno alle precedenti condizioni economiche. La crisi economica non ha trovato nella classe politica adeguate risposte in termini di contrasto e prospettive di concreti interventi per rilanciare il nostro sistema e andare quindi incontro alle crescenti difficoltà di una sempre più ampia parte di cittadini.
In questo deprimente contesto sociale ed economico, il suicidio ha rappresentato per molti la scelta ultima, dettata dalla profonda sofferenza di un fallimento personale e della mancanza di una valida prospettiva futura. In molti casi, la voluta risonanza del gesto estremo, la plateale visibilità della morte ha rappresentato un’estrema richiesta di attenzione, un ultimo grido di disperazione.
Gli ultimi fatti di cronaca, come quelli accaduti davanti a Palazzo Chigi, domenica 28 aprile, il giorno di insediamento del nuovo governo guidato da Enrico Letta, lanciano invece degli inquietanti segnali che ci fanno presagire di essere entrati in una nuova fase di disagio e di protesta. Una fase in cui il gesto eclatante di rabbia e di protesta non è più l’autoprivazione del bene più grande quale è la vita, ma la manifestazione di un rancore profondo nei confronti di coloro i quali vengono ritenuti responsabili del serpeggiante disagio economico e sociale: le Istituzioni e la politica. Ancora più grave sembra essere la crescente convinzione nella pubblica opinione che un atto criminale possa trovare nella società civile, stremata ed arrabbiata, una qualche giustificazione sociale. Da più parti è stata ascoltata l’opinione che “è giusto punire” coloro che vengono indicati come i responsabili della situazione che stiamo vivendo: i rappresentanti della classe politica.
La difficile, e per certi versi atroce domanda, che dovremmo porci è: se ad essere colpiti quel giorno, davanti a palazzo Chigi, non fossero stati i tutori dell’ordine, così largamente amati dagli italiani, ma dei parlamentari, sarebbe stato così forte lo sdegno? E quanti, di certo non pubblicamente, ma in cuor loro, avrebbero provato una sottile soddisfazione? Ne sono la prova alcuni incredibili commenti, di persone comuni, rimbalzati sul web e scritti appunto da chi in qualche modo suggeriva che sarebbe stato meglio colpire direttamente i parlamentari.
Che sia stato pianificato lucidamente o si tratti del gesto isolato di una persona instabile, chi ha aperto il fuoco contro i Carabinieri davanti a Palazzo Chigi ha probabilmente ed erroneamente pensato di potersi ergere ad “eroe” con un gesto plateale, in un clima di odio e di risentimento verso la classe politica che non riesce ad attenuarsi. Ciò che deve invece tenere viva l’attenzione è la possibilità che si inneschi un effetto imitazione e che, quindi, questo non rimanga un fenomeno isolato. La politica, d’altro canto, non dovrebbe tentare di spostare l’attenzione puntando il dito contro chi fa da cassa di risonanza alla protesta sociale, come il Movimento di Beppe Grillo, sarebbe un grave errore e vorrebbe dire non riconoscere, ancora una volta, le proprie responsabilità e in qualche modo alimentare ancora di più il fenomeno.
Tornando all’analisi dei casi di suicidio connessi con la crisi economica si rimarca il dato statistico che negli ultimi quattro anni sono aumentati di circa il 30% i suicidi dovuti a motivazioni economiche, mentre comunque restano più o meno invariati i numeri totali dei suicidi in Paesi come il nostro. Vale a dire che nell’ambito di una percentuale totale di suicidi che resta più o meno sempre la stessa, pur registrando un lieve incremento, la quota dei suicidi correlati alla crisi economica è in sensibile incremento, mentre i suicidi, dovuti ad altre motivazioni, estranee alla crisi economica, sono tendenzialmente stabili.
Questi dati sono stati annunciati da Walter Ricciardi, direttore dell'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle regioni italiane, a margine della presentazione del Rapporto Osservasalute 2012, avvenuta presso l’Università Cattolica di Roma. Dai dati presentati si rimarca inoltre che gli italiani si fanno sempre più aiutare dai farmaci antidepressivi e che, a causa dell’incremento delle sindromi depressive reattive al disagio sociale ed economico, continua ad aumentare il rischio suicidi. Vale a dire che ciò che è accaduto finora non solo non è destinato ad arrestarsi, ma che in futuro continuerà a crescere.
I dati inoltre che emergono dal citato Rapporto Osservasalute 2012, stimano che il consumo di farmaci contro la depressione è quadruplicato in dieci anni, passando da 8,18 (dosi giornaliere ogni mille abitanti) del 2000 a 36,1 del 2011. Secondo tale rapporto all’incremento della prescrizione è complice anche la "facilità di utilizzo" di questo tipo di medicinali, spesso prescritti anche "in caso di depressione lieve". Tuttavia il dato più interessante del rapporto resta il tasso dei suicidi, in lento ma progressivo aumento negli ultimi anni. Nel biennio 2008-2009 si é attestato ad un tasso di 7,23 casi per 100.000 cittadini residenti dai 15 anni in su (nel 2009 se ne sono registrati 3.870 contro i 3.607 del 2006). Secondo i commentatori questo è un dato che può essere un segno, oltre che di incremento del tasso della patologia psichiatrica di tipo depressivo, anche del crescente disagio sociale. Si legge infatti nel Rapporto che "va monitorato con attenzione anche al fine di prevedere un rafforzamento delle attività preventive e della presa in carico sanitaria e sociale di soggetti a rischio". L'incremento registrato negli anni più recenti, osserva il Rapporto, si deve pressoché esclusivamente a un aumento dei suicidi tra gli uomini (in particolare nella fascia d’età che va dai 25 ai 69 anni) per i quali il tasso è passato da 11,70 suicidi (per 100.000) nel 2006 e nel 2007 a 11,90 suicidi (per 100.000) nel 2008 e 12,20 sucidi (per 100.000) nel 2009. A togliersi la vita è un uomo nel 77% dei casi (il tasso di mortalità è pari a 12,05 per 100.000 per gli uomini e a 3,12 per le donne).
Le statistiche epidemiologiche riportano inoltre che nel 2012 i suicidi totali imputabili a ragioni di carattere economico e finanziario erano stati 89 e che nel primo trimestre del 2013 sono già arrivati a quota 32, ossia circa il 40% in più di quelli registrati l’anno scorso nello stesso periodo. Si tratta di una vera e propria recrudescenza che segnala una fase quanto mai acuta di difficoltà, in palese antitesi rispetto a chi ritiene che saremmo già in una situazione di fuoriuscita dalla crisi. Una recrudescenza che tra l’altro si è fatta evidente soprattutto nell’ultimo mese di marzo 2013 quando ben 16 tra imprenditori e lavoratori si sono tolti la vita al ritmo impressionante di 2 al giorno. L’oppressione dei debiti, il baratro del fallimento o la perdita di un’occupazione sembrano essere particolarmente insopportabili per i soggetti che vanno dai 45 ai 54 anni. Ed è proprio in questa fascia di età che si registrano i maggiori suicidi, con un’incidenza specifica del 34,4%. A seguire quella dai 35 ai 44 anni, con il 32,1%. Tra essi la maggioranza è rappresentata da lavoratori disoccupati. Sono stati ben 16, il triplo rispetto ai primi tre mesi del 2012, quelli che hanno scelto l’estremo gesto sopraffatti dalle difficoltà economiche dovute alla perdita del lavoro. Sono stati invece 14 gli imprenditori spinti al suicido dal rischio di insolvenza e fallimento. Particolare significativo è quello riguardante la modalità scelta per togliersi la vita: 13 di essi, cioè la maggioranza, ha scelto la modalità dell’impiccagione. Solo in 4 casi invece è stato registrato l’uso di un’arma da fuoco. Per quanto riguarda poi l’area del Paese più colpita dalla tragedia dei suicidi di imprenditori, in testa si conferma il Nord, e in particolare la regione del Veneto, che con 8 decessi guida questa triste classifica. Nel dettaglio, nelle regioni settentrionali in questi primi tre mesi del 2013 sono stati 29 gli imprenditori che si sono tolti la vita, poi a seguire il Sud con 6, il Centro con 5 e le Isole con 2. E a fronte di chi riesce purtroppo a portare a compimento il proposito di togliersi la vita, ci sono invece una serie di casi in cui l’estremo gesto, fortunatamente, non riesce e resta solo un tentativo di togliersi la vita. Il numero tuttavia dei tentati suicidi è anch’esso in preoccupante aumento. Sono stati ben 11 i casi registrati nel primo trimestre del 2013, di cui otto nel solo mese di marzo.
Insomma, quello che è stato registrato finora è equiparabile ad una strage: tra disoccupati, imprenditori e lavoratori autonomi che si sono tolti la vita, si registra una media di due al giorno. Lo dice anche l'Eures, nel suo recente secondo rapporto sui suicidi. Già nel 2010 sono stati 362 i disoccupati suicidi, contro i 357 dell'anno precedente che già rappresentavano una forte impennata rispetto ai 270 suicidi accertati in media del triennio precedente (rispettivamente 275, 270 e 260 nel 2006, 2007 e 2008), confermando la correlazione tra rischio di suicidio e integrazione nel tessuto sociale, evidenziando come molto alto risulti il rischio correlato all'impatto della crisi. Entrando nel dettaglio dello studio dell’Eures si legge che nel 2010 si contano 192 vittime tra i lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) e 144 tra gli imprenditori e i liberi professionisti (sono state 151 nel 2009), costituite in oltre il 90% dei casi da uomini, confermando come tutte le variabili legate a fattori materiali presentino indici di mascolinità superiori a quello già elevato rilevato in termini generali. Tra i disoccupati la crescita riguarda principalmente coloro che hanno perduto il lavoro (272 suicidi nel 2009 e 288 nel 2010, a fronte dei circa 200 degli anni precedenti), mentre meno marcato appare l'incremento tra quanti sono alla ricerca della prima occupazione (85 vittime nel 2009 e 74 nel 2010, a fronte delle 67 in media nel triennio precedente). Non appare quindi fuori luogo sottolineare, afferma l'Eures, come nel 2010 la disoccupazione abbia colpito la popolazione della fascia 45-64 anni più di altre, con un +12,6% (+13,3% nella fascia 45-54 anni e +10,5% in quella 55-64 anni), a fronte di una crescita complessiva dell'8,1%. Ed è proprio in questa fascia che si concentra il problema dei cosiddetti “esodati”. Si pensi che le stime più ottimistiche parlano di circa 65.000 lavoratori, mentre c'è chi stima pessimisticamente circa 350.000 individui, con le conseguenze che si possono immaginare. Dai dati presentati risulta inoltre consistente, tra il 2008 e il 2010, anche l'aumento dei suicidi tra gli over 64 (+6,6%), nella fascia 18-24 (+6,5) e, in misura inferiore, in quella 25-44 anni (+2,3%). Più in generale si conferma la correlazione diretta tra età e propensione al suicidio, con un indice pari a 8,5 suicidi ogni 100mila abitanti tra gli over 64, a 6,6 nella fascia 45-64 anni, a 4,6 in quella 25-44, a 2,6 nella fascia 18-24 ed a 0,2 tra i minori. Tra le fasce della vulnerabilità, ormai al centro dell'analisi sociologica e dell'osservazione empirica, sono i separati e i divorziati (entrati a pieno titolo tra i “nuovi poveri”), a registrare l'indice di rischio suicidario più alto tra tutti i gruppi osservati. Nel 2010 si contano infatti 33,8 suicidi ogni 100mila abitanti separati o divorziati (66,7 tra gli uomini a fronte di 11,8 tra le donne), seguiti dai vedovi (8,6, che sale a 35,5 tra gli uomini a fronte di 3,6 tra le donne) e, con ampio scarto, dai coniugati (4,2, che sale a 6,7 tra gli uomini a fronte di 1,6 tra le donne) e da celibi e nubili (4,1).
Tale dinamica sembra legarsi in primo luogo alla maggiore tendenza al suicidio dei soggetti che si trovano ad affrontare la vita da soli, ma anche alle forti difficoltà economiche che possono colpire gli uomini separati e divorziati, in presenza di sentenze che impongono condizioni materiali (assegnazione della casa coniugale, assegno di mantenimento) superiori alle loro effettive possibilità. Il rischio suicidario è poi alto tra gli stranieri, riporta ancora l'Eures. Negli ultimi 5 anni i suicidi tra gli stranieri sono aumentati del 31,3% (da 201 nel 2006 a 264 nel 2010) e la loro incidenza è passata dal 6,6% all'8,7%, risultando l'indice di rischio suicidario (ogni 100mila abitanti) superiore a quello registrato tra gli italiani (pari, rispettivamente, nel 2010, a 6 tra i primi a fronte di 5 tra i secondi).
(cannavicci@iol.it)
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La crisi che uccide: i dati di due studi
La crisi che uccide è la conclusione di un lavoro epidemiologico di due ricercatori, uno britannico e uno americano, che hanno recentemente pubblicato uno studio sugli effetti della crisi economica in Europa e negli Usa. Secondo un economista dell’Università di Oxford, David Stuckler, e un medico epidemiologo dell’Università di Stanford, Sanjay Basu, alla crisi economica sarebbero imputabili, dal 2009 ad oggi, oltre 10mila suicidi e un milione di casi di depressione. Inoltre, a causa dello stop alle politiche preventive in Grecia, nel Paese ellenico, dal 2011 a oggi, le infezioni da Hiv sono aumentate del 200% e, per la prima volta dopo decenni, è ricomparsa la malaria. Allo stesso modo, in Europa e negli Stati Uniti, l’aumento della disoccupazione unito al taglio alle campagne sociali ha visto l’abuso di droghe da parte dei giovani aumentare del 50%. A causa della crisi economica inoltre cinque milioni di americani hanno perso in questi ultimi anni l’assistenza sanitaria e oltre 10mila famiglie, nel Regno Unito, sono diventate ufficialmente senza fissa dimora.
L’agenzia di notizie Reuters ha dedicato un lungo speciale alla ricerca, che è arrivata anche sul tavolo del governo del Regno Unito guidato dal conservatore David Cameron. Fonti governative hanno cercato di minimizzarne la portata, ma da parte di Stuckler e Basu sono arrivate le conferme dei loro risultati. “Anche perché – ha detto Basu – quello che emerge è che un peggioramento della salute collettiva non è un’immediata conseguenza della crisi economica, ma spesso è il frutto di una precisa scelta politica da parte di chi ci governa”. Come a dire, a volte la crisi può anche far bene alla salute, ma se la crisi viene affrontata con l’austerity, le cose peggiorano.
I due ricercatori, infatti, hanno citato un altro studio, pubblicato dall’Università di Madrid, che a Cuba, dopo la fine dell’influenza sovietica e del relativo contributo economico che arrivava dalla Russia, la popolazione dimagrì e fu anche a rischio di denutrizione. Ebbene, ricordano Stuckler e Basu, l’Università di Madrid ha fatto notare come una diminuzione del peso, in media, di 5 chili a persona abbia portato a un abbattimento del diabete, delle malattie cardiache e coronariche. “A volte, quindi, essere poveri fa bene alla salute”, la conclusione dei due.
Tuttavia in Grecia, con il taglio delle spese di prevenzione, non ha fatto altro che far aumentare in modo esponenziale l’incidenza dell’Hiv, mentre la mancanza di denaro per le disinfestazioni da insetti, ha persino fatto tornare la malaria. Infine, lo studio ha messo in luce anche come la depressione “generalizzata” abbia portato a un aumento di uso e abuso di alcool e sostanze stupefacenti.
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