Le persone che si tolgono la vita a causa di difficoltà
economiche aumentano. Maggiore, però, è anche
l’attenzione dei media nei confronti di un fenomeno
che è ancora sotto la lente d’ingrandimento di numerosi
studiosi. I dati sono spesso contraddittori e dimostrano
che il binomio crisi-suicidi non è così lineare come sembra
Nicola Rutigliano aveva comunicato la sua decisione con una telefonata al 112. A bordo della sua Seat Altea grigia ha guidato fino a Triggiano, in provincia di Bari, e si è fermato davanti alla caserma dei Carabinieri. Poi, seduto nella sua auto, ha puntato la pistola di ordinanza alla tempia e ha premuto il grilletto. In un biglietto scritto qualche ora prima aveva raccontato delle difficoltà economiche che stava affrontando in quel periodo, dei numerosi debiti ai quali si era aggiunta una cartella di Equitalia arrivata un paio di mesi prima.
Nicola Rutigliano, separato, con un figlio, era un agente di Polizia di 43 anni che lavorava negli uffici amministrativi del commissariato San Nicola di Bari Vecchia. I colleghi lo ricordano come un uomo tranquillo e riservato, ma dagli accertamenti investigativi di Polizia e Carabinieri emerge il ritratto di un uomo tormentato dai problemi economici, a tal punto da decidere di togliersi la vita.
Nelle Forze dell'ordine il suicidio è un fenomeno tragicamente diffuso, anche se poco dibattuto. Quella dei tutori dell’ordine è una professione dura, con regole molto rigide, compiti di grande responsabilità, che li porta lontano dalle loro case e dagli affetti familiari.
Nicola Rutigliano le sue motivazioni (o almeno parte di esse) ha provato a scriverle su un foglietto, in cui ha raccontato la resa di chi non riesce più a far fronte ai debiti accumulati. La sua storia è quella di tante altre persone che negli ultimi anni si sono trovate in una strada chiusa, perdendo il lavoro o non avendo più la forza di uscire dalle difficoltà economiche, decidendo, alla fine, di togliersi la vita.
È bene sottolineare che la connessione tra suicidio e crisi economica è un fenomeno ancora in fase di studio. I dati a disposizione non sono sufficienti per stabilire se le difficoltà economiche che sta attraversando il nostro Paese siano la causa di una nuova epidemia di suicidi.
Possiamo però partire dai numeri che si hanno a disposizione per fare alcune considerazioni. Secondo il laboratorio di ricerca socio-economica della Link Campus University, i suicidi imputabili a ragioni di tipo economico e finanziario nel 2012 sono stati 89. Nel primo trimestre del 2013 si è già arrivati a quota 32, circa il 40% in più dei casi rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
È bene però usare molta cautela nel considerare il binomio crisi-suicidi, almeno per due motivi. Il primo è che i dati resi disponibili dagli istituti di ricerca sono sostanzialmente fermi al 2009, non offrendo spunti di riflessione definitivi sull'impatto della crisi in Italia e in Europa in generale. Il secondo è che molti dei dati a disposizione complicano non poco la lettura del fenomeno. L'indagine dell'Istituto Eures "Il suicidio in Italia al tempo della crisi", ad esempio, mette in evidenza dei dati contrastanti. Se dal 2007 al 2010 il numero dei suicidi in senso assoluto è aumentato (+58,7%), è anche vero che nel 1995 se ne registravano più che nel 2010.
Nell'ampio quadro delle informazioni fornite da questo studio, ci sono però numerosi dati che fanno riflettere. Innanzitutto, dall'andamento decrescente che si registra dal 2003, si passa ad un notevole incremento di casi nel 2009-2010. Come ha sottolineato Walter Ricciardi, direttore dell'Osservatorio Nazionale sulla salute nelle Regioni italiane, questo dato coincide con l'andamento della crisi economica che nel nostro Paese è definitivamente esplosa a partire dal 2009, anno in cui i suicidi sono stati 3.870 contro i 3.607 del 2006.
Altro dato interessante del rapporto Eures emerge da un'analisi territoriale del fenomeno. L'area più colpita del Paese risulta il Nord-Est, dove nel 2010 si rilevano 1.628 suicidi, pari al 53,4% del totale. A livello regionale il triste primato spetta alla Lombardia, subito seguita da Veneto ed Emilia Romagna. Questa caratterizzazione geografica sembrerebbe testimoniare l'impatto della crisi su uno dei maggiori distretti imprenditoriali del Paese.
Scorrendo le tabelle della ricerca colpisce anche un'altra percentuale: in circa 8 casi su 10 è un uomo che si toglie la vita, confermando la connotazione fortemente maschile di questo fenomeno. Anche in questo caso è possibile azzardare un collegamento tra il gesto estremo e la situazione occupazionale, riconoscendo la centralità del lavoro nella definizione identitaria e nell’attribuzione di status e di ruolo sociale per la componente maschile della popolazione. Lo stesso sembrerebbe non valere per la popolazione femminile, nella quale l’incidenza del fenomeno suicidario rimane piuttosto contenuto, addirittura in lieve decremento tra le donne disoccupate.
A questo dato si lega anche quello della maggior ricorrenza di suicidi tra i separati/divorziati, che nel 2010 hanno raggiunto il picco degli ultimi 30 anni, pari al 12,5%. Tale dinamica sembra legarsi da un lato alla maggiore predisposizione al suicidio dei soggetti che si trovano ad affrontare la vita sociale da soli (come già dimostrato da Durkheim, autore del primo grande lavoro della sociologia empirica, Il Suicidio, 1897) e, dall'altro, dalle forti difficoltà economiche che colpiscono in particolare gli uomini separati e divorziati, talvolta costretti a sostenere spese superiori alle loro effettive possibilità economiche (non a caso i padri separati costituiscono i “nuovi poveri”).
I dati Eures, inoltre, individuano categorie che sembrano più esposte all'impatto della crisi e al rischio di commettere un suicidio: si tratta dei disoccupati, degli imprenditori e degli esodati."Considerando l'indice di rischio specifico, ovvero il numero di suicidi ogni 100mila abitanti nella medesima condizione", si legge nelle pagine dell'indagine diretta da Fabio Piacenti, "sono i disoccupati a presentare l'indice più alto (17,2%), seguiti da imprenditori e liberi professionisti (10%)". Con notevole scarto seguono i lavoratori in proprio (5,6%) e gli inattivi, cioè studenti, casalinghe e pensionati (4,8%), meno soggetti alle fluttuazioni del mercato, elemento che sembrerebbe confermare un legame tra condizione occupazionale e rischio suicidiario. Altro dato interessante è l'aumento dei suicidi nella fascia 45-65 anni (+16,8% dal 2008 al 2010), età che include gli esodati, il cui numero ufficiale è ancora incerto.
Lo scenario che emerge da questo studio, però, è tutt'altro che lineare. Come si legge nel documento, "la spiegazione del suicidio è un obiettivo complesso, legato alla presenza di diverse concause". Anche laddove l’autore di un suicidio ne espliciti le ragioni, ad esempio attraverso una lettera, una registrazione o altro, queste ne costituiscono soltanto la dimensione assertiva consapevole, lasciando dunque ampio spazio a ipotesi interpretative a più ampio raggio.
Inoltre, non bisogna dimenticare che il suicidio economico non è che un tassello di un più ampio mosaico: dal 2006 al 2010, tra i maggiori moventi al primo posto appare la malattia (74,8%), seguita da motivi affettivi (16,3%), economici (8,1%) e d'onore (0,8%).
A complicare l'analisi, poi, ci sono i dati che emergono dal confronto con gli altri Stati europei: in Germania, dove la situazione economica è decisamente più florida che in Italia, il numero dei suicidi è quasi il doppio rispetto al nostro Paese e in Finlandia, dove la qualità della vita è infinitamente più alta, i suicidi sono quattro volte superiori a quelli che si contano in Italia. Nella Grecia martoriata dalla crisi, i suicidi sono poco più della metà rispetto a quelli italiani. Sembra paradossale, ma il Paese con la situazione economica più drammatica d'Europa è anche quello con il minor numero di suicidi.
Altre ricerche attribuiscono le ragioni del suicidio più che alla crisi economica, alle misure di austerità adottate dall'Unione Europea. E’ il caso dello studio “The body of economic: why austerity kills” condotto da David Stuckler, economista dell'università di Oxford, e da Sanjay Basu, medico di Stanford. In 240 pagine i due ricercatori arrivano alla conclusione che il contenimento della spesa pubblica non solo aumenta l'incidenza dei suicidi, ma anche il numero dei depressi e dei malati in generale. A causa dello stop alle politiche preventive, ad esempio, in Grecia le infezioni da Hiv sono aumentate del 200%. Allo stesso modo, in Europa e negli Stati Uniti l'aumento della disoccupazione e i tagli alle campagne sociali hanno contribuito ad un aumento del 50% nell'abuso di droghe da parte dei giovani. In America cinque milioni di persone hanno perso la copertura sanitaria e nel Regno Unito circa 10mila famiglie sono diventate ufficialmente senza fissa dimora. I due studiosi, accusati da più parti di allarmismo, hanno chiarito che il peggioramento delle nostre condizioni di vita non è una diretta conseguenza della crisi economica, ma il frutto di precise scelte politiche attuate dai governi occidentali.
Rifacendosi ad una ricerca dell'Università di Madrid, Stuckler e Basu affermano che la crisi a volte può addirittura far bene alla salute, ricordando l'esempio di Cuba dove, dopo la fine dell'influenza sovietica e del relativo contributo economico che arrivava dalla Russia, la popolazione fu esposta al rischio di denutrizione. Paradossalmente, però, la diminuzione del peso, una media di 5kg a persona, portò ad un abbattimento del diabete, delle malattie cardiache e coronariche. Insomma, è vero che i soldi sono pochi, ma andrebbero usati meglio, suggeriscono i due ricercatori, perché soprattutto nei periodi di crisi bisogna salvaguardare la salute collettiva.
In effetti questa considerazione sembra sposarsi con i dati del Rapporto Osservasalute, secondo il quale gli italiani ricorrono ad un uso sempre più massiccio di antidepressivi (in 10 anni le dosi giornaliere sono quadruplicate). Tra le dipendenze che incalzano in questo periodo c'è un altro "nemico", il gioco d'azzardo, fenomeno che in Italia interessa circa 800mila persone.
I dati esaminati fin qui, tuttavia, non sono sufficienti per parlare di un'ondata anomala di suicidi per crisi. Nella percezione di una nuova emergenza non bisogna sottovalutare il ruolo dei media. È interessante dare un'occhiata alla timeline pubblicata da “ilfattoquotidiano.it”: se tra il 2006 e il 2010 si trovano poche tracce dei 1.164 disoccupati che si sono tolti la vita, le notizie dei suicidi per crisi comparsi sulla stampa nei primi sei mesi del 2012 sono più di 120. È innegabile che l'attenzione dei media sia aumentata vertiginosamente, talvolta riunendo all'interno della stessa lettura sociopolitica tutti i suicidi per apparente difficoltà economica. Come già detto, il suicidio è un fenomeno difficile da ricondurre ad una sola causa, soprattutto perché spesso si hanno pochi elementi a disposizione per capirne i moventi. La cassa di risonanza mediatica, inoltre, rischia di scatenare il cosiddetto effetto Werther dell'emulazione. Come spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli, "studi epidemiologici internazionali dimostrano con certezza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, inducono altri suicidi, innescando un pericoloso effetto domino".
Bisogna scongiurare, inoltre, la possibilità di trovare nella crisi assassina un alibi di ferro, per scaricare sull'immagine di uno Stato noncurante che lascia morire i suoi cittadini il senso di fallimento che si prova nei periodi di difficoltà economica e tollerare anche gli atti più insensati.
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