Da alcune settimane in Italia si discute di prescrizione. Del resto dal primo gennaio 2020 è entrata in vigore la riforma della giustizia fortemente voluta dal ministro pentastellato Alfonso Bonafede, il quale vanta, nel suo curriculum, di far parte degli “amici di Beppe Grillo”.
Che la giustizia italiana sia spesso lenta e talvolta anche inefficiente non lo abbiamo scoperto stamattina e quindi non è certo una novità. Lo sentiamo dire e ripetere da alcuni decenni. Nonostante i continui richiami della Commissione Europea i tempi per risolvere contenziosi in tribunale aumentano. È stato calcolato che nel 2016 ci volevano 514 giorni per ottenere una sentenza di primo grado. Nel 2017 ce ne sono voluti 548, circa un anno e mezzo. Nessuno in Europa deve attendere tutto questo tempo per una sentenza di primo grado. Per avere una sentenza di secondo grado ci vogliono 843 giorni, oltre due anni. Per arrivare ad una sentenza di terzo grado, quella definitiva, ci vogliono 1299 giorni, cioè tre anni, tre anni e mezzo per l’esattezza. Questi sono i dati raccolti dalla relazione annuale di valutazione sulla giustizia della Commissione Europea. Solo Cipro, Malta e Portogallo hanno fatto peggio dell’Italia. Il presidente dell’ANM, l’Associazione Nazionale Magistrati, Luca Poniz, ha detto, direttamente dal congresso dell’organismo a cui appartiene, svoltosi a Genova alcune settimane fa, che la riforma da sola rischia di produrre squilibri: “…La riforma della prescrizione, svincolata dall’insieme di riforme strutturali necessarie, come da noi contestualmente richiesto, ed inserita incidentalmente nel testo della legge Spazzacorrotti, rischia di produrre squilibri complessivi…”.
La prescrizione è un istituto che concerne gli effetti giuridici del trascorrere del tempo. Ha valenza sia in campo civile che penale. Nel diritto civile indica quel fenomeno che porta all’estinzione di un diritto soggettivo non esercitato dal titolare per un periodo di tempo indicato dalla legge (ad esempio non è più possibile incassare un rimborso). La ratio di tale istituto è individuabile nell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici.
Nel diritto penale determina l’estinzione di un reato a seguito del trascorrere di tempo (ad esempio non viene più punito un furto o un atto di violenza). Sotto il profilo sostanziale, l’istituto riflette sia lo scemare dell’interesse dello Stato a punire la relativa condotta, sia la necessità di un processo di reinserimento sociale del reo, a seguito del decorso del tempo. Sotto il profilo processuale, l’istituto è volto a tutelare la parte dalla difficoltà, via via crescente nel tempo, a reperire le prove a supporto della propria tesi difensiva.
A questo punto però, forse, è il caso di porsi qualche domanda: dal momento che abbiamo sentito affermare più volte pubblicamente dai promotori di questa riforma che gli effetti della cosiddetta “sospensione” della prescrizione si vedranno fra 3 o 4 anni, viene da chiedersi in base a quale ragionamento si stabilisce questo limite temporale? E perché proprio 3 o 4 anni e non 5 o 6? È azzardato sostenere che un imputato abbia diritto ad essere giudicato entro e non oltre un certo periodo di tempo? È lecito ritenere che si sia partiti dal concetto sbagliato secondo cui la durata eccessiva dei processi sia colpa degli avvocati?
Ha detto Giovanni Maria Flick, giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale: “Non vedo di cosa si possa essere orgogliosi…è come affrontare il problema cambiando il cane dalla coda e non dalla testa. Bisogna tener presente che ci sono due momenti: l’oblìo, più tempo passa dal reato che si commette più c’è la possibilità che nasca l’oblìo, cioè la dimenticanza, il venir meno dell’allarme sociale, il cambiamento della persona, la difficoltà di trovare le prove. E in questo caso dopo un certo periodo di tempo il reato si estingue. È la legge a stabilire quanto tempo ci vuole per l’oblìo e quali reati non possono essere dimenticati e sono imprescrittibili. Quando il reato viene scoperto e si mette in movimento l’accertamento per la responsabilità l’oblìo non può più esistere, lo Stato se ne sta occupando, e qui scatta un altro principio: quello della ragionevole durata del processo previsto dalla Costituzione. Il processo per giudicare quel reato deve chiudersi entro un certo periodo di tempo…”.
Francesco Neri
direttore@poliziaedemocrazia.it
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