È ormai noto a tutti che prima degli anni Novanta il sistema previdenziale italiano e la facilità di ottenere un posto di lavoro nella Pubblica amministrazione costituivano una sorta di eldorado.
Anteriormente ad alcune radicali riforme, infatti, molte categorie di lavoratori con appena quindici anni di contributi e con un’età anagrafica estremamente contenuta riuscivano, senza alcuna difficoltà, ad ottenere un signor trattamento di quiescenza. Se poi, con un’età anagrafica di appena 35/40 anni i molti fortunati si godevano questa lauta pensione, ovviamente a carico della collettività per altri 45 anni e, nel contempo, si curavano un’altra attività professionale o svolgevano un altro lavoro, magari in nero, questo non importava a nessuno.
Negli anni Quaranta il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio aveva rivendicato una legge che garantisse i diritti fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori, affermando che la Costituzione dovesse entrare nelle fabbriche e negli uffici. Ovviamente, prima che questa rivendicazione potesse realmente concretizzarsi trascorsero più di vent’anni.
Con i conflitti sociali del ’69 vennero conquistati sul campo diritti individuali e collettivi quali: tutela della salute, assemblee retribuite, diritto di contrattazione. Sull’onda di quella vittoria, nel maggio del ’70, il Parlamento approvava lo Statuto dei lavoratori. Una legge che non solo garantiva i fondamentali diritti sindacali, ma tutelava nei luoghi di lavoro tutta una serie di libertà e diritti fondamentali sanciti dalla carta Costituzionale.
Negli anni successivi, però, iniziarono le larghe intese tra i partiti politici. Queste logiche diedero contemporaneamente inizio ad un processo che gettava le basi per creare la falsa illusione che la Pubblica amministrazione potesse dare ampie soddisfazioni alle aspettative di coloro che ambivano ad un posto di lavoro fisso e duraturo. La Pubblica amministrazione, quindi, come un contenitore senza fondo, un calmiere sociale da utilizzare soprattutto ad uso e consumo dei potenti di turno. Questa falsa rappresentazione della realtà e la negazione di un principio fondamentale, che doveva essere quello di dare lavoro in base alle reali esigenze ed alla sostenibilità finanziaria da porre a carico della collettività, diedero vita all’illusione che quella valle dell’eden potesse durare per sempre.
Fino a quel momento dunque, un approccio culturale alle tematiche sociali e del lavoro estremamente distorte ed un sistema previdenziale probabilmente unico al mondo. Sistema, sorretto da un lato dalle migliaia e migliaia di continue assunzioni nella Pubblica amministrazione dall’altro, invece, sostenuto da quella visione delirante che ne ipotizzava una lunga e stabile sostenibilità.
Le logiche, quindi, che prevalsero in quegli anni furono sostanzialmente due: la prima attribuiva alle migliaia di giovani che venivano assunti, l’onere di dover pagare per i prossimi cinquant’anni le pensioni ai più vecchi ai quali, in un momento storico post-bellico e di rinascita dell’economia, qualcuno stava per conferire un titolo di “privilegiato storico”, la seconda scaricava sulla collettività un impegno finanziario insostenibile senza precedenti (quello che poi ha contribuito notevolmente a creare l’attuale debito pubblico).
Logiche che diedero la più ampia soddisfazione agli appetiti di molti, fino agli inizi degli anni Novanta, ma che iniziarono poi a manifestare la loro drammaticità negli anni a seguire, fino a raggiungere, ai giorni d’oggi, l’epilogo più nefasto con l’acuirsi della crisi economico-finanziaria che ha interessato le più grandi potenze europee e mondiali.
E quando l’economia si contrae anche le tutele nel mondo del lavoro regrediscono e coloro che detengono il potere economico e sociale fanno del tutto per riportare i lavoratori allo status quo ante.
La riforma Dini, avvenuta nel 1995, da un lato pose un freno ad un sistema pensionistico che si mostrava visibilmente prodigo e già manifestava i primi danni economici e sociali ma dall’altro, però, gettò le ulteriori basi che avrebbero portato con sé, negli anni successivi, ulteriori gravi forme di danno economico e di sperequazione sociale per i lavoratori.
Le citate innovazioni, invero, sancirono che tutti i lavoranti che avevano meno di 18 anni alla data convenzionale del 31 dicembre 1995 transitassero nel sistema misto (retri-contributivo) mentre i nuovi assunti a far data dal 1° gennaio 1996 transitassero dal sistema di calcolo retributivo a quello contributivo.
In altre parole, fino ad allora il metodo retributivo prevedeva, all’atto della quiescenza, un sistema di calcolo per erogare il trattamento pensionistico che si basava, nella maggior parte dei casi, sulle ultime cinque mensilità ricevute dal lavoratore consentendogli, di fatto, di percepire una pensione uguale, se non addirittura superiore, allo stipendio percepito durante il rapporto di lavoro.
Le maggiori penalizzazioni, pertanto, insite in queste norme, emanate per garantire la sostenibilità economica dei conti pubblici, furono scaricate, ancora una volta, sui lavoratori più giovani.
La perdita economica, tra lo stipendio ed il trattamento di pensione, derivante dal nuovo metodo di calcolo, si sarebbe dovuta colmare con l’avvio del secondo pilastro del sistema pensionistico italiano, la cosiddetta previdenza complementare, alla quale ogni singolo lavoratore avrebbe potuto aderire volontariamente. In pratica, il dipendente avrebbe trasferito al fondo prescelto tutto o parte del proprio TFR, una quota volontaria mensile generalmente di pari importo a quella versata dal datore di lavoro che, con il proprio apporto, avrebbe contribuito a costruire il futuro pensionistico dei propri collaboratori.
Per una serie di circostanze, però, ma soprattutto per la mancanza di risorse, l’avvio della previdenza complementare partì a singhiozzo e solo per alcuni settori privati. I dipendenti dello Stato e degli Enti locali, infatti, hanno visto la creazione dei loro fondi solo da poco tempo, mentre per alcuni settori vitali dello Stato, ad esempio i dipendenti dei Comparti Difesa e Sicurezza, dopo i numerosi tentativi fatti dalle organizzazioni sindacali e dai Co.Ce.R. e le promesse puntualmente disattese da parte della classe politica, ormai si è persa ogni speranza.
E’ evidente che gli anni persi a causa del mancato avvio della previdenza complementare, non potranno essere più recuperati, con la naturale conseguenza che coloro che andranno in pensione a partire dai prossimi 8/10 anni si vedranno contrarre notevolmente il trattamento di pensione. Le peggiori penalizzazioni le subiranno coloro che sono stati assunti a decorrere dal 1° gennaio ’96.
A nulla sono valsi i ripetuti tentativi, fatti nel corso degli anni, dalle organizzazioni sindacali confederali e dalle organizzazioni sindacali e dai Co.Ce.R. deI Comparti Difesa e Sicurezza, per costringere i governi ad avviare la previdenza complementare nei tempi previsti, né tantomeno a nulla o poco sono serviti i ricorsi giurisdizionali intrapresi da numerosi dipendenti.
Una grave inadempienza, quindi, della classe politica dirigente, che si rifletterà drammaticamente nel corso degli anni sul futuro di milioni di lavoratori.
E poi, oltre il danno la beffa. Con il decreto Monti, infatti, cosiddetta norma ”salva Italia”, si è continuato nella stessa direzione, poiché si stabilisce che la stragrande maggioranza dei lavoratori dovrà accumulare 42 anni di contributi e andare in pensione non prima dei 66/67 anni e qualora decidessero comunque di richiedere il pensionamento prima dei 62 anni subirebbero una forte penalizzazione. Si scarica, quindi, ancora una volta su queste fasce sociali l’onere di accollarsi il risanamento dei conti pubblici.
Nel fronte delle tutele, infatti, da un lato si é sferrato l’ennesimo attacco all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, con la scusa che la sua rivisitazione produrrà posti di lavoro ed investimenti da parte di capitali italiani ed esteri, dall’altro si riforma l’istituto dell’indennità di mobilità e di disoccupazione sostituendoli con il nuovo ammortizzatore sociale Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego), già considerato in molti casi di gran lunga penalizzante.
Era evidente la necessità di rivedere le norme che regolano i rapporti di lavoro, ma questo sarebbe dovuto avvenire con una riforma strutturale concordata con le parti sociali che avrebbe, finalmente, dovuto ammodernare organicamente il mondo del lavoro. Come mai nessuno ha puntato i piedi sui migliaia e migliaia di contratti stipulati dalle Università o da altri Enti che mantengono nel precariato laureati, anche con elevata professionalità, per dieci/quindici anni e senza alcun diritto, nemmeno quello di ammalarsi? Ed ancora, come mai nessuno si strappa i capelli per coloro che dopo i quarant’anni vengono licenziati o accedono alla mobilità e non riescono più a reinserirsi nel mondo del lavoro?
Per quanto concerne il mondo militare, da anni le rappresentanze rivendicano il sindacato o le associazioni professionali di categoria e per tutta risposta viene varata per loro una mini riforma che è un’aberrazione giuridica e che indebolisce ulteriormente la rappresentatività. Probabilmente una norma pensata dal legislatore con finalità positive ma che di fatto, a causa delle complesse dinamiche parlamentari e delle abili alchimie di qualcuno, visti anche i tempi ristretti per la sua entrata in vigore, si potrebbe rivelare disastrosa.
La questione più drammatica è che oggi molti lavoratori ancora non hanno la percezione di quello che sta accadendo e quale sarà il loro futuro dopo lo stravolgimento in atto delle tutele, degli ammortizzatori sociali e quando andranno in pensione.
E’ evidente che la nostra società va riformata profondamente, è ormai un processo indispensabile; un rinnovamento che fra le tante altre cose dovrà assolutamente contemplare anche la scelta coraggiosa di rivedere i rapporti di lavoro, stanare i fannulloni, perseguire gli assenteisti cronici, far funzionare meglio la Pubblica amministrazione, ma non potrà certo essere accettata una strategia di caccia alle streghe o finti rinnovamenti finalizzati esclusivamente a colpire i diritti dei lavoratori facendoli passare per privilegi.
La morale della favola é che i potenti vogliono semplicemente essere liberi di sfruttare il lavoro ed i lavoratori come e più di prima, senza i diritti che precedentemente il lavoro deteneva, ovviamente dopo averli conquistati con anni di lotte e di rivendicazioni.
E questo non potrà essere permesso dalle parti sociali, né dai lavoratori di ogni settore che, in ogni caso, non dovranno mai dimenticare di essere coesi e vicino ai propri rappresentanti sindacali, ma dovranno anche ricordarsi che per esigere i loro diritti dovranno adempiere onestamente, giorno dopo giorno, ai loro doveri.
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