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Settembre-Ottobre/2011 - Pubblicazioni
Emergenza immigrazione
Il nostro Stato è forte con i deboli e debole con i forti
di a cura di Michele Turazza

Pagine 17-19




Paolo Borgna, procuratore aggiunto a Torino, nel suo ultimo
libro “Clandestinità e altri errori di destra e sinistra”, sostiene
che le politiche attuate nel nostro Paese sembrano non essere
né governate, né ragionate, perché mancando un’adeguata
conoscenza del fenomeno, gli attori politici sono incapaci
di pensare una seria programmazione di un sistema
normativo troppo frequentemente modificato


«Governare l’accoglienza di forti flussi migratori, assicurando ai cittadini la certezza che essi non scardineranno le fondamentali regole di convivenza, è il vero orizzonte della nostra democrazia. Intorno a questa idea e pensando alle diverse possibili concrete soluzioni, dimenticando le contrapposizioni ideologiche, dovremmo finalmente ragionare». Le politiche sull’immigrazione del nostro Paese sembrano non essere né governate, né ragionate. Non sono governate perché, mancando un’adeguata conoscenza del fenomeno dell’immigrazione, gli attori politici sono incapaci di pensare a serie politiche di programmazione. Basandosi invece sull’emergenza legata a qualche grave fatto di cronaca, il sistema normativo, (troppo) frequentemente modificato negli ultimi anni, si presenta lacunoso, oscuro: è un «sistema disordinato», a tratti irrazionale: nient’affatto ragionato.

Dottor Borgna, leggendo il suo libro sembra di capire che l’attuale normativa sull’immigrazione sia stata studiata per selezionare gli ingressi “al contrario”: strada spianata per i delinquenti e defatigante corsa ad ostacoli (senza nemmeno la certezza di poter giungere al traguardo del permesso di soggiorno) per coloro che vogliono entrare per lavorare. Come siamo giunti a questa situazione?
Il risultato è effettivamente questo: siamo uno Stato forte con i deboli e debole con i forti. Che mostra la faccia feroce con tutti; ma quella faccia è una tigre di carta. E, come sempre succede in questi casi, a farsi intimidire sono soltanto i più deboli e gli onesti. La nostra normativa sull’immigrazione – quella che regola gli ingressi nel territorio italiano e sanziona chi è irregolarmente presente nel nostro Paese – è una selva di grida manzoniane: tanto severe quanto inefficaci. E sappiamo che, quando uno Stato non è in grado di fare applicare le regole che proclama, a rimetterci sono i deboli, che saranno schiacciati e calpestati dai forti e prepotenti.
Non è, questo, un risultato voluto. Ancor peggio: è un risultato subito, in quanto non previsto per carenza di intelligenza politica.

Quali sono le ‘colpe’, rispettivamente, della destra e della sinistra (citate anche nel titolo del suo libro)?
Nella prima parte del libro mi soffermo a lungo su questo punto: spiegando la mia tesi con il racconto di storie vere. Sinistra e destra hanno entrambe commesso, sull’immigrazione, errori ideologici: opposti, ma speculari.
Come ho scritto nel libro, per anni la cultura di sinistra ha negato che esistessero peculiarità di una criminalità di strada legata a frange minoritarie, ma molto vistose del fenomeno migratorio. Manifestando una sorta di senso di colpa nell’affrontare i problemi della sicurezza: come se l’avventurarsi su questi terreni fosse una concessione alla demagogia della destra. Una concessione necessaria ma forzata: come se si dovesse cedere un po’ su quel fronte, accettare un qualche compromesso, per evitare che tra i ceti popolari dilagasse il consenso al populismo di destra.
L’atteggiamento culturale andava invece ribaltato: la sicurezza non doveva essere, per la sinistra, un tema imposto da altri, ma una propria scelta di priorità, indissolubilmente connessa alla questione dell’accoglienza. Garantire maggiore sicurezza non significa soltanto andare incontro alle richieste dei ceti più deboli, maggiormente esposti ai piccoli crimini di strada. Significa soprattutto creare le condizioni, le fondamenta, i pilastri per una politica di ampia inclusione e di accoglienza.
D’altro canto la cultura e la politica della destra hanno avuto la capacità di captare ed ascoltare le paure ed il malcontento di soggetti deboli, vittime spesso misconosciute della criminalità straniera. Ma a queste paure, evocate e sventolate come un vessillo, sono state offerte ricette illusorie: che non solo non hanno risolto il problema, ma hanno negato diritti a chi invece li avrebbe meritati.
La penalizzazione della condotta di irregolarità – con la creazione di un reato, l’art. 10 bis del T.U. sull’immigrazione, che ogni operatore del settore sa benissimo non potere avere alcun efficacia – è l’esempio più eclatante, il manifesto ideologico di questa politica di grida manzoniane: tanto severe quanto inefficaci; capace soltanto di spaventare l’irregolare onesto, che lavora, che vorrebbe regolarizzarsi ma non ci riesce a causa del nostro meccanismo infernale di concessione dei permessi di soggiorno per scopo di lavoro.

Quali sono le cause dell’incapacità della nostra classe politica (di destra e di sinistra) di affrontare compiutamente e seriamente la questione immigrazione, a prescindere da sterili scontri ideologici?
C’è, a monte di tutto, un deficit di intelligenza politica. L’incapacità di pensare, con grandezza ideale e sguardo strategico, a come governare un evento epocale come quello dei grandi flussi migratori che a partire dai primi anni ’90 hanno investito l’Europa occidentale. Si è preferito usare questo fenomeno per fare propaganda. Varando, di volta in volta, normative stiracchiate, scoordinate, non organiche; soprattutto, inefficaci.

La normativa vigente crea non poche difficoltà allo straniero che voglia venire a lavorare nel nostro Paese: quale iter deve seguire al fine di ottenere un regolare titolo di soggiorno?
Conosciamo il calvario di chi vuole assumere, regolarmente, una persona straniera che badi alle cure di un anziano familiare. Rispettando la legge, una volta che il periodico ‘decreto flussi’ abbia stabilito la ‘quota’ di persone ammesse in Italia da un certo Paese, si dovrebbe individuare un lavoratore (che si trova all’estero e, dunque, non si conosce); lo si dovrebbe chiamare e quindi attendere che quella persona riceva, dal nostro Consolato nel suo Paese, il visto di ingresso. Ma se l’attesa dura anni – come spesso accade - cosa avviene nel frattempo? Chi ha bisogno di assumere un lavoratore, si rivolge a chi già si trova in Italia: ad una persona che ha già avuto modo di conoscere e di cui si fida. È un meccanismo infernale: che inesorabilmente crea illegalità, spinge quella persona ad entrare o rimanere clandestinamente in Italia, a lavorare in modo onesto ma formalmente irregolare.
Qui si tocca con mano l’errore di fondo di tutto il nostro sistema: quello che fa nascere e fa da traino a tutti gli altri errori; fare finta che la domanda e l’offerta di lavoro si possano incontrare all’estero, mentre tutti sappiamo bene che la domanda di lavoro incontra l’offerta nel luogo in cui il rapporto di lavoro deve stabilirsi. È una finzione esiziale. È come se, in una lunga fila di bottoni di una tonaca, si sbagliasse ad infilare la prima asola: ci si troverà, al fondo, con un bottone di troppo. Per rimettere a posto l’intera bottoniera, bisognerà ripartire dalla prima asola.

In cosa consiste il processo di «clandestinizzazione» di un immigrato regolarmente soggiornante?
È la conseguenza di quanto dicevo prima. Se un cittadino straniero è venuto in Italia con un visto della durata di tre mesi per motivi turistici e, durante questi tre mesi, trova qui un onesto lavoro, tenderà ad accettare quel lavoro e a rimanere in Italia. Ma, trascorsi tre mesi, sarà irregolare, un ‘clandestino’. Passibile non solo di espulsione ma anche di un processo penale.

Nel 2009, entrare e rimanere in Italia senza permesso di soggiorno è diventato un reato che prevede, in caso di condanna, la sanzione accessoria dell’espulsione. Considerando i problemi della giustizia e la cronica carenza di personale delle Forze di polizia, è un sistema che funziona? In altre parole, le espulsioni sono effettivamente eseguite o restano sulla carta?
Soltanto a Torino ogni anno si celebrano circa mille processi per il reato di clandestinità. La sanzione prevista per questo reato – poche migliaia di euro di ammenda – non è certo tale da spaventare i delinquenti incalliti. Ma il lavoratore onesto ancorché ‘irregolare’ – che ha cercato in tutti i modi di ‘regolarizzarsi’, senza riuscirci – si vedrà coinvolto in un processo penale, che lo schiaccia crudelmente sullo stesso piano di uno spacciatore o di un rapinatore. È questo appiattimento di tutti (la badante e il rapinatore) sull’immagine demonizzante della ‘clandestinità’ l’aspetto più iniquo e feroce della nostra legislazione. Si dirà: ma altri Stati prevedono il reato di clandestinità. Vero. Ma qualcuno è in grado di citare un altro Stato in cui, come accade in Italia e come racconto nel libro, molte domande presentate sulla base del ‘decreto flussi’ del dicembre 2007 da datori di lavoro che chiedevano di assumere stranieri pronti a recarsi nel nostro Paese, hanno avuto risposta con oltre due anni di ritardo?

Quanto incidono, in termini di risorse e tempi, i procedimenti penali contro gli irregolari sul totale dei processi? E sulla popolazione carceraria?
Ormai – dopo la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 28 aprile 2011 e il successivo D.L. del giugno scorso – non si finisce più in carcere per il semplice fatto di essere irregolari (cosa che prima accadeva, in base all’art. 14 del D.L.vo n. 286/98, qualora lo straniero irregolare avesse disobbedito all’ordine del questore di lasciare l’Italia entro cinque giorni). Ma la sanzione esclusivamente pecuniaria è del tutto irrilevante, come dicevo prima.
L’unica strada che ci consentirebbe di discernere tra ‘onesti’ e ‘delinquenti’ è quella di attrezzarci, normativamente e sul piano organizzativo, per espellere realmente i ‘delinquenti’. Nel mio libro fornisco esempi, tratti dalla realtà, che ci dicono che spesso oggi avviene proprio il contrario; e cerco di formulare alcune proposte su cosa si potrebbe fare per rendere effettive (e non solo scritte sulla carta) le espulsioni di coloro che hanno commesso gravi reati (come scippi, rapine, spaccio ed altro).

Ritiene che l’obbligo del rilevamento delle impronte digitali al momento del rilascio del permesso di soggiorno possa aiutare ad identificare in modo certo una persona?
Ne sono convinto. E lo voglio spiegare rievocando un piccolo episodio che racconto nel libro. Nel 1999 una suora della Caritas diocesana si presentò da me scandalizzata. Il giorno prima, presso una sede del Comune, era stata organizzata una festicciola per le ragazze che avevano lasciato la strada della prostituzione denunciando i propri sfruttatori. La suora vi aveva accompagnato alcune giovani nigeriane, assistite dalla Caritas. Una di loro, girando tra gli invitati, si trovò di fronte la maman che aveva denunciato; nei cui confronti, grazie alla denuncia, era stata emessa un’ordinanza di custodia in carcere. Dunque, quella donna era latitante: ufficialmente ricercata su tutto il territorio nazionale dalla Polizia italiana. Non solo: risultò che pochi giorni prima alla maman era stato rinnovato il permesso di soggiorno dalla stessa questura che la stava cercando.
Come era stato possibile? Molto semplice: la maman era conosciuta con un certo nome, da lei stessa rilasciato in vari controlli di Polizia nel corso dei quali, ovviamente, non aveva mai esibito il suo passaporto. A quel nome era stata emessa l’ordinanza cautelare e con quel nome veniva ricercata. Sennonché, in occasione del rilascio e dei periodici rinnovi del permesso di soggiorno – e soltanto in tali occasioni – la maman produceva il suo passaporto, con le vere generalità. Ogni volta che, in passato, era stata controllata in strada, senza passaporto, la donna era stata portata in questura e qui la Polizia le aveva diligentemente preso le impronte digitali. Dunque, la sua identità fisica era accertata e sicura: ciò avrebbe impedito che, qualora fosse stata rintracciata, la Polizia potesse commettere un errore, catturando una persona sbagliata. Ma, prima del 2002, al rilascio del permesso di soggiorno le impronte non venivano prese. E dunque, in quella sede, la maman risultava incensurata, priva di pendenze giudiziarie; insomma: pulita. Senza impronte, non c’era nessuna possibilità di comparare il passato della donna che chiedeva il permesso di soggiorno con quello delle persone ricercate e che abitualmente dichiaravano generalità false. Accadeva così che una persona latitante potesse ottenere il permesso di soggiornare in Italia dalla stessa questura che la stava cercando come latitante.
Dal 2002 tutto ciò non è più possibile, grazie ad una modifica del T.U. sull’immigrazione. Eppure, quando quella riforma fu annunciata, una buona parte della cultura di sinistra insorse, denunciando quella legge come liberticida e discriminatoria. Perché – come qualcuno disse allora – «le impronte digitali si devono prendere ai delinquenti, non ai migranti che lavorano». Ecco un altro esempio di ideologismo, di astrattezza nell’affrontare i problemi sociali, di incapacità di ascolto di quegli strati sociali che si vorrebbe rappresentare. In realtà, quella legge denunciata come «liberticida» ha introdotto un po’ più di libertà per le vittime deboli di reati gravi, come la ragazza sfruttata da quella maman.

Come possono essere coniugate le esigenze di sicurezza ed il rispetto delle regole con politiche di accoglienza, soprattutto verso quei disperati che fuggono da zone in guerra? In altre parole, come conciliare legalità e solidarietà?
C’è un solo modo per contrastare l’immigrazione irregolare: favorire l’immigrazione regolare; darle regole precise, procedure snelle. Non è un compito semplice. Ogni sistema presenta delle controindicazioni. Ma l’attuale sistema dei ‘flussi’ predefiniti ha più difetti che pregi. Va superato. Bisogna prosciugare l’area della clandestinità. E, contemporaneamente, colpire in modo più serio e selettivo la criminalità legata all’immigrazione. Abbandonare l’idea – irrealizzabile e foriera di ingiustizie – di espellere e punire tutti gli stranieri che spesso sono costretti ad una irregolarità non voluta. Ma concentrarsi sulla repressione dei delitti e sulla espulsione – effettiva e non solo cartacea – dei loro autori.


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Dalla biografia di Galante Garrone
alla difesa degli avvocati

Paolo Borgna, magistrato dal 1981, è Procuratore aggiunto di Torino dove coordina il gruppo di lavoro sulla sicurezza urbana. Per anni si è occupato di tratta degli esseri umani. Autore di vari saggi sulla giustizia, ha pubblicato per Laterza Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore (2008) e, con Marcello Maddalena, Il giudice e i suoi limiti (2003); Il giudice e il principe. Magistratura e potere politico in Italia e in Europa (Donzelli, 1997). Biografo di Alessandro Galante Garrone, ha raccontato la vita dell’illustre giurista e storico, esponente del Partito d’Azione, nel volume Un Paese migliore (Laterza, 2006). Clandestinità, e altri errori di destra e sinistra (Editori Laterza, 2011, p.106).

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