Ci sono 2500 persone in media ogni anno
che finiscono in carcere senza aver commesso
alcun reato. Sono le vittime di ingiusta
detenzione o errori giudiziari, drammi privati,
silenziosi, che raramente trovano spazio
sulle pagine dei giornali. Errori che,
nella maggior parte dei casi, non vengono
risarciti, e che pure costano allo Stato quanto
una legge finanziaria
Indagini superficiali e approssimative, scambi di persona, a volte basta anche solo una targa, fatalmente simile a quella dell'auto incriminata. E si finisce in galera, per poi essere prosciolti, magari dopo anni di calvari giudiziari, perché riconosciuti innocenti. Storie di ordinaria ingiustizia, di cui nessuno parla, ma che in Italia coinvolgono migliaia di persone ogni anno e che costano allo Stato quanto una manovra.
Sono i casi di ingiusta detenzione e di errori giudiziari che - calcola un rapporto Eurispes - hanno colpito come un'epidemia almeno 4 milioni di italiani negli ultimi 50 anni. "Un numero che fa paura" dice l'avvocato Gabriele Magno, presidente di "Articolo 643", unica associazione di professionisti in Italia nata per tutelare le vittime della giustizia che sbaglia. "Ma – ci tiene a precisare Magno - bisogna distinguere tra ingiuste detenzioni, che contano annualmente circa 2500 casi, ed errori giudiziari che si fermano appena a poche decine".
La casistica è varia, spesso sconcertante per l'assurdità delle situazioni che sfiorano il paradosso e che spezzano le esistenze di
intere famiglie senza trovare alla fine adeguata riparazione. Tutti ricordiamo quanto accadde a Enzo Tortora o a Walter Chiari, perché personaggi noti al grande pubblico, protagonisti di vicende giudiziarie emblematiche entrate nella memoria collettiva del Paese. Ma ci sono altre storie, forse più clamorose, che meritano di essere raccontate. Come quella di Domenico Morrone, un semplice pescatore tarantino, arrestato nel 1991 con l’accusa di aver ucciso due minorenni. Oltre 15 anni di carcere, sette gradi di giudizio e un processo di revisione conclusosi nel 2008 con un’ordinanza della Corte d’Appello di Lecce che ha ratificato un risarcimento di 4 milioni e mezzo di danni: in pratica 300 mila euro per ogni anno di ingiusta detenzione. Ma la revisione del processo è un mezzo di impugnazione straordinario che viene esperito raramente, con altrettanto rari risarcimenti milionari. Casi entrati in letteratura, come quello di Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto di avere un'auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all'errore giudiziario c'era il problema di ingiusta detenzione: 5 anni e mezzo nel suo caso, per cui è stato riconosciuto il risarcimento record di 4,6 milioni di euro che ne hanno fatto un vero e proprio precedente perché per la prima volta, accanto al danno morale, biologico ed economico, è stato riconosciuto anche quello esistenziale.
Quanto alle ingiuste detenzioni in realtà la legge non prevede alcun risarcimento, ma solo un indennizzo il cui tetto massimo è fissato a 516 mila euro. Inoltre, mentre la revisione del processo può essere richiesta in ogni tempo, addirittura anche dagli eredi, per quanto riguarda l'indennizzo a seguito di ingiusta detenzione il codice di procedura penale concede solo due anni di tempo dalla scarcerazione, pena l'inammissibilità della domanda. Un lasso di tempo troppo stretto perché chi abbia subìto uno choc così forte possa riaversi dal trauma e intraprendere questo tipo di percorso. "E' evidente – denuncia ancora Magno - che la custodia cautelare preventiva da noi è una misura largamente abusata per indurre l'indagato a collaborare, esercitando su una persona in grosse difficoltà, una pressione psicologica paragonabile alla tortura". Anche perché, sarà un caso, il limite di due anni coincide con il periodo entro il quale si prescrive l'errore del magistrato. Motivo per cui l'Associazione ha da tempo pronta nel cassetto una proposta di legge tesa ad abrogare ogni paletto temporale, che fungerebbe da deterrente all'abuso di carcerazione preventiva. Senza contare che la maggior parte delle richieste viene rigettata con motivazioni a dir poco kafkiane che decretano la colpa grave, quando non il dolo, della vittima rea di aver quindi contribuito volontariamente alla sua ingiusta detenzione. Un corto circuito giudiziario che vede due sentenze cozzare l'una con l'altra: da una parte l'assoluzione da tutti i capi di imputazione perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, dall'altra il diniego all'indennizzo del danno subito dal soggetto, che la galera se la sarebbe in qualche modo cercata.
Si tratta evidentemente di un problema di ordine squisitamente pratico per evitare il collasso economico di un sistema già pesantemente gravato dai costi onerosi dei processi lumaca e da nove milioni e mezzo di cause arretrate, tra civile e penale, che la giustizia italiana proprio non riesce a smaltire. Una realtà che pesa enormemente nelle tasche dell'amministrazione pubblica, come ha confermato il Guardasigilli uscente, Paola Severino, nella relazione sullo stato della giustizia in Italia presentata alla Camera lo scorso gennaio, secondo la quale solo nel 2011 lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. Dati alla mano, i conti sono presto fatti: se tutte le richieste di indennizzo economico fossero accolte dovremmo sborsare 150 milioni di euro l'anno, una cifra insostenibile, senza calcolare che ogni detenuto costa alle casse pubbliche 235 euro al giorno.
All'orizzonte, in materia, si profila un altro caso da manuale anche perché legato a una ferita ancora tragicamente aperta tra le pieghe della storia, a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica. Nell'ottobre 2011 la Corte d'Appello di Catania ha disposto la sospensione della pena e l'immediata scarcerazione di 8 uomini condannati all'ergastolo per la strage di via D'Amelio, in cui il 19 luglio 1992 persero la vita il giudice Borsellino e 5 uomini della sua scorta. Sentenza emessa dalla stessa Corte che ha invece ritenuto inammissibile la richiesta di revisione dei processi Borsellino e Borsellino bis.
Uomini finiti dietro le sbarre con la più infamante delle accuse, strage con l'aggravante di terrorismo, liberati dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. Un abbaglio eclatante che, secondo alcune stime, potrebbe costare allo Stato circa 10 milioni di euro.
Ma gli svarioni non hanno solo conseguenze a breve termine sulla vita delle persone che restano incastrate tra le maglie della giustizia italiana. E spesso i corresponsabili di tanto dolori sono gli organi di stampa, giornali e tv pronti a sbattere il mostro in prima pagina, salvo poi dimenticare di dare, con altrettanta enfasi, la notizia di un proscioglimento. I danni procurati dalla indebita pressione mediatica sono infatti un altro punto fondamentale nell'agenda dell'Associazione retta da Magno che porta avanti da anni la battaglia lungo il doppio binario, e della tutela giuridica, e contro la diffamazione a mezzo stampa. Altra proposta: creare una sorta di automatismo per agevolare il reingresso nel mondo del lavoro, come ad esempio quote riservate nelle graduatorie dei concorsi pubblici, alle vittime di malagiustizia.
FOTO: Enzo Tortora, vittima di un clamoroso errore giudiziario
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