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Marzo-Aprile/2013 - Editoriale
direttore@poliziaedemocrazia.it
Fine pena mai
di Giada Valdannini

Il 25 settembre 2005 moriva Federico
Aldrovandi, dopo un controllo di polizia.
Per la sua morte sono stati condannati in via definitiva
quattro poliziotti: tre dei quali - Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri – sono
attualmente nella casa circondariale di
Ferrara, mentre per la quarta – Monica
Segatto – sono stati disposti gli arresti domiciliari.
In loro sostegno, il Coisp è sceso in piazza, proprio sotto gli uffici di Patrizia
Moretti, la madre del giovane ferrarese ucciso


Non è questione di pietà. Ma di rispetto. Per una sentenza, un’istituzione, una famiglia intera. Una famiglia spezzata da un lutto devastante come la perdita di un figlio. E’ della vicenda Aldrovandi che parliamo, della morte di un ragazzo e di tre uomini delle Forze dell’ordine in carcere. Tre persone che – assieme alla collega, ora ai domiciliari – sono state condannate per “eccesso colposo in omicidio colposo”. Storie che non vorremmo più leggere e soprattutto di cui pesa tornare a raccontare. Tanto più in una rivista come questa che - della rappresentanza sindacale e di un comparto, quello della Polizia – ha fatto un baluardo. Eppure la rappresentanza è materia scivolosa. Rappresenta chi, con coraggio, nell’81 con la Riforma, è riuscito a guadagnarsi un diritto per altre categorie già assodato; ma trasforma facilmente un esiguo numero di manifestanti in emblema di tutta la Polizia di Stato. Come per il Coisp, a Ferrara, in occasione della discutibile manifestazione a sostegno dei colleghi in carcere, sotto agli uffici comunali dove lavora Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi. A poco sono valsi gli inviti del sindaco, Tiziano Tagliani, a evitare provocazioni: non un passo indietro, e la signora Moretti, per tutta risposta, è stata costretta a scendere mostrando la foto del figlio all’obitorio. Fine pena mai. Una ferita sempre aperta: impossibile da sanare, tanto più se a far saltare l’esile sutura sono episodi come questo. Nonostante ciò – e non colpisce, conoscendo la lucidità degli Aldrovandi – l’unica a non perdere il controllo è stata proprio la madre di Federico che, di fronte all’ennesima dichiarazione di falso - relativamente alla foto del figlio in una pozza di sangue - ha deciso semplicemente di querelare chi ha detto di ignorare che i suoi uffici fossero lì ma si è comunque ben guardato dal cambiare aria, una volta avvisato. Di fatto, venendo meno al rispetto di una sentenza; di un’istituzione; di una famiglia intera.
E poi, se il raduno non voleva essere provocatorio, perché organizzarlo sotto la sede del Comune piuttosto che davanti al Tribunale? A negare i domiciliari a tre dei quattro poliziotti – questo il motivo della solidarietà dei manifestanti – è stato il magistrato di sorveglianza di Bologna non il sindaco di Ferrara; e lo ha fatto scrivendo: “mancanza di comprensione per la gravità della condotta; “cultura della violenza, tanto più grave ed inescusabile, in quanto da parte di appartenenti alla Polizia di Stato”.
E ancora una volta, risalire la china, dopo Genova e i casi Cucchi, Uva, Aldrovandi - solo per citarne alcuni – è difficile. Fortuna, però, che persone come Patrizia Moretti abbiano ancora la voglia di distinguere: «Questa - riferendosi all’episodio di Ferrara - non è la Polizia» e poi, mostrando a La Repubblica una lettera che arriva da Trieste, leggere: “Sono R.T., uno dei poliziotti che già nel 1974 si batteva per la smilitarizzazione. Il gruppo di Ferrara – io rifiuto di chiamarli colleghi – ha calpestato i valori di noi poliziotti democratici”.
Ora, pur ignorando a chi appartenga quella sigla, sappiamo per certo come, attorno a questa rivista, gravitino e abbiano gravitato lavoratori in divisa che la pensano alla stessa maniera e che non dimenticano di aver giurato sulla Costituzione. Persone che, in questo mese di trentadue anni fa, salutarono la Riforma come l’inizio di un cammino. Non la fine.
E tanto più oggi, manca la parola di un capo della Polizia. Per ora, giusto il monito del ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, che ha parlato di «Episodio grave, da stigmatizzare, ma nessun provvedimento – anche se, ha aggiunto la titolare del dicastero - Resta un giudizio morale assolutamente negativo». A un mese dalla scomparsa di Antonio Manganelli è il caso di ricordare che seppe chiedere scusa, all’indomani della sentenza penale, alla famiglia del giovane ferrarese ucciso. Una famiglia che, da qui a un anno, dovrà presumibilmente fare i conti con la reimmissione in servizio dei poliziotti condannati – per il reato colposo, infatti, non è prevista radiazione. Non sta a noi, quindi, sindacare sull’opportunità o meno di un loro ritorno alle Volanti, ma consentiteci di riprendere le conclusioni di Manganelli nella lettera indirizzata a Patrizia Moretti: «Che l’errore dei singoli non inquini la fiducia verso l'istituzione che questi rappresentano».

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