“Ciliegie in autunno”, l’ultimo noir di Andrea Ribezzi
sotto le spoglie di genere, è un libro che porta
il lettore a scoprire una vicenda spesso rimossa: l’avventura
umana e ideologica di quegli italiani che credevano in un comunismo
che coniugasse la libertà con la giustizia, l’amore con la fede politica
e si ritrovarono in un lager
Le ciliegie non maturano in autunno, ma in estate. E allora è senz’altro una metafora il titolo del romanzo di Andrea Ribezzi.
‘Ciliegie in autunno’ è insieme il terzo e il primo libro di questo scrittore di noir con la passione per la storia e un’evidente passato professionale che aiuta spesso, anche se non sempre, gli scrittori di gialli. Il terzo, perché esce dopo le due avventure del suo commissario eponimo (‘Sette fine – La prima indagine dell’ispettore Ravera’ e ‘Eredità blindate. L’ispettore Ravera indaga’, Ibiskos Editrice); il primo perché scritto in anni precedenti «rimasto chiuso in un cassetto». L’ambientazione è la medesima in cui si muove anche il commissario, Trieste e dintorni, la trama contempla pure un’indagine, per quanto sui generis, e vi è anche una sorta di investigatore, oltre a poliziotti veri e servizi italiani e stranieri, ma i protagonisti del libro sono due: la storia e le donne.
La storia, perché le avventure del protagonista, Marco Stibel, coprono non solo un buon arco temporale della sua vita, ma perché si va indietro nel tempo, prima della Seconda Guerra e negli subito successivi, e si va avanti, presagendo un futuro che noi conosciamo come passato ma che nel libro è una sorta di terribile profezia, poiché si parla di vicende ancora da venire e che sono poi quelle della disgregazione della Jugoslavia con i bagni di sangue, guerre e genocidi che abbiamo quasi dimenticato, noi che in Friuli non stiamo e non viviamo.
Le donne, perché la crescita umana e morale, se non politica, insomma civile di Marco Stibel, è indissolubilmente legata e segnata da diversi personaggi femminili, tra loro molto differenti.
Marco inizia a crescere molto presto. Diventa adulto a 11 anni quando la madre, adultera, lascia non solo il marito ma anche i due figli. Sente che quello di sua madre non è un tradimento ma l’impossibilità di avere a che fare con un uomo triste e arrabbiato quale è il padre di Marco, a sua volta vittima di un’altra donna, la madre, nonna di Marco. E piano piano alla madre si riavvicina fino a quando la madre non lo tradirà davvero. Seguono anni adolescenziali con una puntata ai margini del terrorismo, forse l’unica parentesi poco risolta e in fin dei conti inutile perché se la Storia segna le storie di tutti e le loro vite, queste vicende così dolorose all’epoca in cui si svolsero quei fatti, oggi sembrano non tenere il passo con la Storia con la S maiuscola. In cerca di se stesso e del suo futuro Marco incappa per caso in un omicidio, cercando di capire il quale, gli capiterà di andare e venire con il confine e oltre confine, rischiando la vita ma soprattutto di perdersi e di perdere il senso delle cose. E qui arrivano altre donne. Una sorta di madre-nonna che lentamente comincia a fidarsi di lui, per quanto spaventata dalla sua giovane età e dalla sua molta impulsività, la figlia di questa – che poi in realtà è figlia del fratello - l’amica della figlia che sul finale diventa anche la fidanzata di Marco.
A un certo punto si ha la sensazione che il protagonista abbia a che fare con un passato che è più grande di lui. Certo arriva a capire che le illusioni e le ideologie, quelle così forti che spinsero molti italiani a emigrare in Jugoslavia per rincorrere e inverare il sogno socialista di Tito, sono tutte illusorie perché dietro gli ideali ci sono gli uomini e quello che poteva sembrare un mondo giusto, si può trasformare anche nell’inferno concentrazionario della ormai tristemente famosa isola di Goli Otok.
E allora che cosa trae il protagonista del romanzo di Ribezzi da tutto ciò che gli accade? Che cosa lascia al lettore la parola fine? Ribezzi è molto bravo nel non giudicare i fatti storici, nel non far vedere, se le ha, le sue preferenze. Una cosa quasi chiaramente la dice. Di solito le generazioni, per contrasto o perché si sentono defraudate, si alternano i valori. Non per niente la figlia dell’emigrato, dichiara la sua fede fascista, senza forse rendersi conto che anche Tito era un dittatore.
Insomma a Ribezzi interessa dire che il mondo e le persone che ci vivono, non sono bianche o nere. Le sfumature sono parecchie, anche se le passioni forti. Così forti da cercare vendetta. Ma la vendetta che cerca l’uomo che ha creduto e che finisce assassinato e sul quale Marco indaga era per la storia o per se stesso?
Né per la storia, né per se stesso.
Se Ribezzi non avesse inserito un epilogo di poche pagine che porta il protagonista avanti negli anni e padre, avremmo anche potuto credere che è bene ciò che finisce bene e che una sorta di pace con se stessi e il mondo si può fare. Ma da quell’epilogo capiamo che l’uomo è solo e che non vi sono donne che porgono ciliegie in autunno. Qualora ci fossero muoiono anzitempo travolte dalla storia e dal loro amore. E le femmine che girano intorno non reggono il passo e non placano le ansie degli uomini.
Lo capisce Marco, capendo l’amore di quel migrante che cercava la Storia e aveva trovato l’amore quando si reca in uno sperduto cimitero del Montenegro. Rende omaggio a una donna che non ha conosciuto e che sente essere l’unica che avrebbe potuto amare di un amore totale e intenso, ricambiato.
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