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Gennaio-Febbraio/2013 - Interviste
Criminalità organizzata
Obiettivo Falcone
di a cura di Michele Turazza

Intervista al dottor Luca Tescaroli,
Sostituto Procuratore della Repubblica
di Roma, in ricordo del giudice
assassinato a Capaci il 23 maggio del ’92


«Oggi come allora si assiste a una nuova intossicazione dell’informazione, questa volta in una prospettiva più ampia, per delegittimare la magistratura nel suo complesso. L’informazione obbediente è stata canalizzata verso attacchi servili nei confronti di coloro che, nel pieno adempimento del loro dovere, erano proiettati a individuare responsabilità politicamente troppo scomode (così come aveva fatto Giovanni Falcone) ed è divenuta cassa di risonanza di florilegi di mendacità, quali: la finalità politica dell’azione dei magistrati che, avendo puntato il dito sui rapporti tra mafia, politica e imprenditoria, sono stati accusati di aver raccolto compiacenti dichiarazioni di collaboratori di giustizia; l’esercizio di azioni penali sulla base di prove costituite esclusivamente dalle parole dei pentiti e da incerti riscontri; l’aver processato vittime politiche, come l’on. Salvo Lima, anziché i responsabili dei delitti. Tutto ciò se è in linea con il nostro poco invidiabile passato, non fa onore alla nostra democrazia» [Luca Tescaroli, Obiettivo Falcone. Dall’Addaura a Capaci misteri e storia di un delitto annunciato, Rubbettino, 2011, pp. 318, 15 euro].
A vent’anni dal vile attentato che costò la vita a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, abbiamo incontrato Luca Tescaroli che, da giovanissimo pubblico ministero, ha sostenuto l’accusa nei processi per la strage di Capaci e dell’Addaura. In “Obiettivo Falcone”, che riporta una sintesi ragionata delle sue requisitorie, Tescaroli ripercorre gli eventi di quel tragico periodo della storia repubblicana, rivolgendosi in particolare ai giovani che «hanno il diritto di conoscere cosa accadde, in maniera nuda e cruda, attraverso la ricostruzione delle testimonianze e degli esiti dei processi, che hanno il pregio di allontanare il desiderio di riscrivere il nostro passato o di oscurarlo per compiacere le esigenze di questa o di quella fazione politica» (dall’Introduzione).

Dottor Tescaroli, come è maturata la decisione di diventare magistrato?
L’interesse per la professione di magistrato fu in me stimolato da alcuni fatti drammatici: l’uccisione, il 10 settembre 1988, in Sicilia, del dottor Alberto Giacomelli e, due settimane dopo, del giudice Antonino Saetta. Ricordo che ero seduto alla mia piccola scrivania, intento a ultimare la mia tesi di laurea in diritto penale quando appresi che quello stesso giorno era stato assassinato in contrada Locogrande, a quindici chilometri da Trapani, un magistrato inerme, in pensione, il dottor Alberto Giacomelli. Rimasi attonito e incredulo, come mi accadde il 24 settembre successivo, quando appresi dell’assassinio del dottor Saetta e del figlio disabile Stefano. Non accettavo, non era tollerabile che funzionari dello Stato potessero morire così, abbandonati a se stessi. Da quegli eventi cominciò a maturare in me il proposito di fornire un contributo al ripristino della legalità. Pensai che, se quello slancio idealistico fosse stato condiviso, le cose sarebbero potute cambiare.

Qual è stato il suo primo incarico?
Dopo il periodo di tirocinio negli uffici giudiziari di Venezia, che trascorsi quasi completamente con l’allora sostituto procuratore Antonio Fojadelli, iniziai a svolgere l’incarico di sostituto procuratore alla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Prima di scegliere la sede di Caltanissetta, vidi morire un altro magistrato, sempre in Sicilia: Rosario Livatino. Accadde il 21 settembre 1990.

Ha avuto modo, e in quale occasione, di conoscere personalmente il giudice Falcone?
Avevo da pochi mesi iniziato il mio tirocinio, all’età di 26 anni, quando Antonio Fojadelli, che avevo già imparato a stimare, mi disse di farmi trovare, nel primo pomeriggio, nel suo ufficio a Rialto, dove avrebbe incontrato un collega palermitano, di cui non mi fece il nome. Ricordo bene quella giornata. Nella breve pausa pranzo mangiai qualcosa in un bar dinanzi all’ingresso principale del tribunale, dove campeggia una piccola statua della dea Minerva, che imbraccia i simboli della giustizia: la bilancia con due piatti e la spada. Feci una breve passeggiata fino alla sommità del ponte, da dove si può apprezzare una splendida visuale della città e, dopo poco, mi recai in ufficio. Ero seduto in una piccola scrivania adiacente a quella del dottor Fojadelli, intento a predisporre una richiesta di applicazione di una misura di prevenzione, quando vidi entrare un uomo di mezza età in giacca e cravatta, con i baffi e i capelli brizzolati. Mostrava di avere molta confidenza con Fojadelli, che me lo presentò. Era Giovanni Falcone. Quel magistrato, per tanti di noi era già un punto di riferimento, mi guardò fisso negli occhi per un istante, poi mi sorrise cordialmente, stringendomi la mano. L’incontro con Falcone fu per me una piacevole sorpresa, un’occasione in cui fui emozionato; ero davvero onorato di conoscere quel magistrato coraggioso, quel paladino dell’antimafia. Avevo seguito le sue imprese giudiziarie attraverso la stampa, che in quegli anni si era a lungo soffermata su di lui e sulle vicende professionali. Proprio in quei giorni stavo leggendo un libro scritto qualche anno prima da Corrado Stajano: “L’atto d’accusa dei giudici di Palermo”, il quale conteneva la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio che aveva generato il primo maxiprocesso a Cosa nostra, scritta da Falcone e dai colleghi del pool antimafia di Palermo, guidato da Antonio Caponnetto. Falcone parlava lentamente, mostrando di soppesare le parole. Si trattava di una persona carismatica, riservata, con grande capacità di collegare i fatti, una persona dalla statura intellettuale non comune. Prima di congedarsi, mi chiese se già avessi scelto la sede e quale funzione mi sarebbe piaciuto svolgere. Gli risposi che avevo da poco iniziato l’uditorato, ma che avrei voluto lavorare in Sicilia per cercare di dare un contributo al contrasto del crimine mafioso. Poi, mi chiese cosa stessi scrivendo. Gli mostrai la minuta che stavo preparando, dicendogli che stavo provando a predisporre una richiesta di misure di prevenzione. Ancora una volta mi sorrise, mi disse che avrei dovuto imparare quel tipo di atto, perché era importante, e mi augurò buona fortuna. Ricordo bene quell’ultimo sguardo.

Lodato e ricordato da tutti una volta morto, mentre era in vita Falcone non godeva della stessa considerazione: alcuni lo accusavano di protagonismo, altri di dare troppo credito ai “pentiti”. Molti colleghi gli voltarono le spalle in più occasioni. Perché?
Da vivo, Falcone è stato temuto, odiato, invidiato e calunniato. Le miserie umane si intrecciano con l’azione di coloro che erano portatori di interessi tesi a conservare il sistema mafioso. È stato un rivoluzionario, che con le sue idee e la sua azione giudiziaria ha rotto un “equilibrio politico-mafioso-finanziario-imprenditoriale”, quando andavano di moda i magistrati troppo prudenti e timorosi.

Quali furono le sue intuizioni investigative che gli consentirono di conoscere e assestare duri colpi al fenomeno mafioso?
Falcone indirizzò tutte le sue energie per neutralizzare l’azione di Cosa nostra, capì e fece capire che l’organizzazione mafiosa è gestita da un unico centro direzionale, capace di attuare strategie, e aprì il varco sul perverso intreccio politico-imprenditoriale-mafioso indagando sul sistema di potere democristiano della Sicilia, facendo arrestare l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, i grandi esattori di Salemi, i cugini Nino e Ignazio Salvo, e con le investigazioni nei confronti dei fratelli costruttori catanesi, Carmelo e Pasquale Costanzo. La sua arma: la professionalità nell’investigazione, basata sull’uso attento delle indicazioni fornite dai collaboratori di giustizia. Fornì, nella veste di Direttore Generale degli Affari Penali, l’input per il varo di normative straordinariamente efficaci nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa, che negli anni successivi hanno consentito di raggiungere straordinari risultati, così dimostrando come vi possa essere spazio nei rapporti tra politica e giurisdizione per un dialogo costruttivo.

Lei è stato Pubblico ministero nei processi per il fallito attentato dell’Addaura e per la strage di Capaci. Andiamo con ordine. E’ stata fatta, a oggi, piena luce sui fatti dell’Addaura e in particolare su quelle che lo stesso Falcone chiamava “menti raffinatissime”?
Nel volume dal titolo “Obiettivo Falcone. Dall’Addaura a Capaci misteri e storia di un delitto annunciato”, edito da Rubbettino, ho cercato di spiegarlo.
La porzione di verità emersa e accertata con sentenze passate in giudicato è sicuramente molto significativa, tuttavia è connotata da zone d’ombra e lascia aperti ancora molti interrogativi, scaturenti dalla strategia criminale destabilizzante nella quale il fallito attentato si inserì. Una strategia che si mosse correlativamente a una raffinata attività d’intossicazione dell’informazione (le lettere del “corvo”, con la ridda di accuse calunniose nei confronti di Falcone, De Gennaro e altri di aver utilizzato Salvatore Contorno come killer di Stato e le false notizie della presenza di Tommaso Buscetta in Palermo e del suo incontro con il barone Antonino D’Onufrio), che irrompe nella corsa di Giovanni Falcone alla carica di procuratore aggiunto alla procura della Repubblica di Palermo. Secondo uno schema collaudato nei delitti di mafia, anche la vittima principale dell’attentato dell’Addaura era stata oggetto di un’attività di delegittimazione, così com’era già accaduto per l’omicidio di Boris Giuliano (in relazione al quale veniva insinuato che si fosse appropriato di parte dei narco-dollari trafficati dalla Sicilia e gli Stati Uniti d’America, rinvenuti in una valigia trovata a Punta Raisi), del colonnello Giuseppe Russo (con riferimento al quale si era diffusa la voce che avesse torturato un arrestato di mafia).
Le risultanze delle indagini che curai progressivamente mi sollevarono interrogativi. Nel corso del 1998, ritenni di avviare un nuovo procedimento per cercare di dare una risposta ai tanti, troppi, quesiti che non mi erano chiari. Mi occupai di tali investigazioni sino al giorno in cui lasciai la procura della Repubblica di Caltanissetta, il 29 ottobre del 2000. Le risposte a quei quesiti nascondevano verità inquietanti che avrebbero potuto portare a individuare ulteriori responsabilità a livello ideativo e deliberativo nell’attentato dell’Addaura.

In quale contesto fu presa la decisione di uccidere Falcone, il 23 maggio di vent’anni fa?
L’assassinio di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo, Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, maturò nel quadro di un disegno cospirativo: fare la guerra allo Stato per piegarlo e indurlo a trattare. Un progetto criminale sintetizzato da Salvatore Riina, secondo le indicazioni del collaboratore Filippo Malvagna, con la frase, che vale un ragionamento politico: «bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace», avviato il 12 marzo 1992 - quando erano già state definitivamente deluse le aspettative di aggiustamento del maxiprocesso, istruito da Falcone e dai suoi colleghi del pool - con l’assassinio di Salvo Lima, che ha impattato nel cosiddetto ingorgo istituzionale, caratterizzato dallo scioglimento delle Camere, dalle dimissioni del Presidente della Repubblica, dalla campagna politica proiettata sulle nuove elezioni politiche, fissate il 5 aprile 1992, e dalla nomina del nuovo Presidente della Repubblica. L’obiettivo progressivamente è stato attuato, solo in parte, nell’arco di un biennio - con l’eliminazione di acerrimi nemici (quali Falcone e Borsellino), di rappresentanti delle istituzioni ritenuti, prima, amici, poi, colpevoli di tradimento verso Cosa nostra (quali Salvo Lima e Ignazio Salvo) e con attentati capaci di generare paura e disorientamento nella collettività (come quelli nei confronti del patrimonio storico, artistico, monumentale delle città di Firenze, Roma e Milano) - nel quadro di trattative tra uomini dello Stato e vertici mafiosi, proiettate a condizionare persino le scelte della compagine governativa. La barbara ferocia dei corleonesi, concretizzatasi il 23 maggio 1992, cambiò per sempre la storia del nostro Paese.

Quali condanne definitive vi sono state per la strage di Capaci?
I nomi di coloro che parteciparono all’azione militare non potranno mai essere dimenticati dalla storia criminale di questo Paese: Salvatore Biondino; Raffaele, Domenico e Calogero Ganci; Salvatore Cancemi; Giovanbattista Ferrante; Giovanni Brusca, tristemente noto come colui che azionò il telecomando il 23 maggio 1992; Mario Santo Di Matteo; Antonino Gioé; Gioacchino La Barbera; l’artificiere esperto di esplosivo Pietro Rampolla; Antonino Troia; capo della famiglia mafiosa di Capaci, nel cui ambito territoriale ricadeva l’attentato, Giovanni Battaglia; Leoluca Bagarella; Salvatore Biondo e Antonio Galliano. Costoro contribuirono, con diversità di ruoli, alla scelta dei luoghi, all’individuazione dei supporti logistici, alla fornitura dei congegni elettronici (detonatori, telecomandi e riceventi), alla loro predisposizione, messa a punto e verifica di funzionalità, alla predisposizione della frazione di carica, al caricamento del condotto sottopassante l’autostrada, all’effettuazione delle prove di velocità in contrada Rebottone, prima, e sull’autostrada, poi, al mantenimento dei contatti con Riina e al controllo dello spostamento dell’autovettura in dotazione a Falcone a Palermo.
I fornitori dell’esplosivo furono Giuseppe Graviano e Giuseppe Agrigento, quest’ultimo condannato solo in relazione alla detenzione e al porto dell'esplosivo.
Si sono resi necessari sedici anni e due pronunce della Corte di Cassazione (il 30 maggio 2002 e il 18 settembre 2008) per consolidare gli sforzi investigativi volti a dare un nome, un volto e dei perché alla strage di Capaci. Ventinove ergastoli e nove pesanti pene detentive rappresentano un risultato straordinario, soprattutto, per il nostro Paese dove le stragi rimangono molto spesso avvolte nel mistero. È stato indubbiamente il modo migliore dello Stato di riaffermare, nel pieno rispetto delle garanzie degli imputati, il proprio primato sul crimine mafioso che storicamente ha avuto nell’impunità una delle proprie certezze.
Quel 23 maggio Cosa nostra sferrava il più aberrante degli attacchi nei confronti di rappresentanti delle Istituzioni. Veniva colpito, senza pietà il «nemico numero uno della mafia», Giovanni Falcone; magistrato di indiscussa dirittura morale e di straordinarie capacità intellettive, coraggioso e di grande rigore, Falcone aveva dedicato le sue migliori energie professionali prima nell’ufficio bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo e, poi, a partire dal 1991, in veste di Direttore Generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, per debellare la piaga endemica del crimine organizzato che affliggeva, e purtroppo affligge ancora, la Sicilia e non solo. Falcone era così assunto a simbolo e a punto di riferimento dei colleghi e degli appartenenti alle Forze dell’ordine, che, come lui, hanno profuso e continuano a dare, con grande spirito di quotidiana abnegazione, il loro massimo impegno nella lotta alla mafia.

A che punto sono le indagini sui “mandanti esterni”, da lei iniziate prima di lasciare la procura nissena nel 2000?
Mi deve consentire di non rispondere sul punto. Vi sono magistrati impegnati, che nella procura della Repubblica di Caltanissetta, guidata dal dottor Sergio Lari, stanno cercando di fare quanto necessario per cercare di dare un volto ai cosiddetti “committenti esterni” a Cosa nostra.

E’ corretto parlare di “trattativa” tra parte dei vertici dello Stato e la mafia e quali soggetti coinvolse?
Vi sono sentenze passate in giudicato che statuiscono l’esistenza di trattative. Io credo che bisogna ancora capire perché, mentre molti nelle Istituzioni, e io fra questi, stavano cercando di fare del loro meglio per dare un volto ai responsabili delle stragi, correlativamente altri uomini dello Stato non hanno esitato ad avvicinare quegli stessi mafiosi che avevano voluto la morte di Falcone e Borsellino e dei loro agenti di scorta, in nome della ragion di Stato. Il punto nevralgico è capire come mai vi sia stata una convergenza d’interessi tra esponenti delle Istituzioni e boss mafiosi del calibro di Riina e Provenzano al punto da dialogare a distanza tramite intermediari e come questo ibrido connubio si possa correlare con l’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, avvenuta a 57 giorni di distanza dalla strage di Capaci.
Se piuttosto evidente è stata la spinta ad agire di Cosa nostra, più difficile da decifrare risulta quella di Paolo Bellini - che interagì direttamente con il mafioso di Altofonte Antonino Gioé, trovato morto nel carcere di Rebibbia il 29 luglio del 1993, il giorno dopo le stragi di Milano e Roma - e degli ufficiali del Ros - che iniziarono a dialogare con Vito Ciancimino, quale interfaccia dei capi del sodalizio mafioso - e, soprattutto, individuare i terminali sul versante istituzionale e comprendere se, nel corso del tempo, fossero mutati.

L’urgenza di eliminare Borsellino fu dovuta alla sua contrarietà alla trattativa, una volta venutone a conoscenza?
La trattativa continua a generare preoccupazione e timori all’interno dei palazzi del potere. In epoca recente, i singolari silenzi di uomini dello Stato sono stati rotti. Liliana Ferraro ha ricordato di aver informato, all’aeroporto di Bari, Paolo Borsellino dei contatti istaurati con Vito Ciancimino da parte del Ros e della ricerca da parte di esponenti di tale struttura di una sponda politica. Forse quella sponda è stata trovata, in un primo momento, nella classe politica di governo ormai morente, che temeva di subire nuovi lutti e aveva l’esigenza di proteggersi. Non si dimentichi che, dopo Salvo Lima, era stato messo in cantiere l’uccisione di Calogero Mannino, di Sebastiano Purpura, di Claudio Martelli, di Salvo Andò e che i vertici mafiosi avevano in animo di colpire Giulio Andreotti, e che, secondo il racconto di Giovanni Brusca, la strage di Capaci mirava, sia pure incidentalmente, a estromettere Andreotti dalla corsa al Quirinale.
Vi sono, però, dei dati di fatto sui quali si deve riflettere. In una circolare diramata alle prefetture, ancor prima della strage di Capaci, si segnalava il rischio di attentati, rischio avvalorato da informazioni raccolte da appartenenti ai Servizi Segreti. Il ministro pro tempore degli Interni, Vincenzo Scotti (sostituito dall’on. Nicola Mancino, prima della strage di via Mariano d’Amelio) ha riferito che, dopo l’omicidio Lima, vennero acquisiti segnali di imminenti campagne destabilizzanti, tese a colpire altri politici.
Dunque, in seno alle Istituzioni, qualcuno sin da allora sapeva molte cose. È necessario capire quale fosse stata la reale fonte di conoscenza che aveva indotto a segnalare il rischio. Il progetto di colpire i politici, una volta ucciso Lima, venne abbandonato e Cosa nostra cominciò a uccidere i magistrati. Si è provato, attraverso i processi celebrati, che i vertici dell’organizzazione mafiosa ricevettero un segnale istituzionale che, nella loro prospettiva, suonava come una conferma che la loro attività stragistica fosse idonea a raggiungere l’obiettivo di aprire nuovi canali relazionali, capaci di individuare altri referenti istituzionali. Pur avendo manifestato la volontà di rendere dichiarazioni alla procura di Caltanissetta, dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino non venne sentito prima di essere assassinato, perdendo così un’occasione preziosa per sapere se il magistrato fosse stato informato della trattativa in corso e quale fu la sua reazione.
È vero che i mafiosi Brusca e Cancemi, divenuti collaboratori di giustizia, hanno indicato i terminali della trattativa e che hanno riferito le loro verità a distanza di tempo, ma gli uomini dello Stato, che avrebbero dovuto prodigarsi per annientare i mafiosi, hanno mostrato singolari silenzi ancor più duraturi, che hanno fatto seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino; taluno manifesta amnesie non ancora rimosse, che non possono considerarsi prive di valore.

Nel suo libro scrive che oggi, mentre il potere militare della mafia appare ridotto, «si è estesa e rafforzata la politica malata e la componente economico-affaristica»: ritiene che si siano ampliate le cosiddette “zone grigie”? In altre parole, cosa si è fatto in questi anni, e cosa resta ancora da fare, per contrastare la corruzione dilagante, terreno fertile su cui le mafie attecchiscono e si rafforzano?
Per debellare Cosa nostra si devono recidere i legami che i mafiosi intrattengono con appartenenti al mondo politico, imprenditoriale, finanziario e con esponenti delle Istituzioni. Con quel tipo di complicità una mera congrega di criminali può diventare un anti-sistema capace di porre in essere attacchi frontali nei confronti del potere legittimamente costituito. Questa è una convinzione che ho maturato in molti anni di lavoro. Sul finire dell’autunno del 1992, un preclaro collega, con atteggiamento professorale, ebbe a dirmi «Caro Luca, vedi, noi non possiamo pensare di sconfiggere la mafia. Bisogna contrastarla sino a trovare un punto d’equilibrio». L’autorevolezza della fonte, coniugata alla mancanza di esperienza specifica, mi indussero a soppesare quelle parole e a verificarle nel quotidiano operare. Ben presto cominciai a essere pervaso dal dubbio sulla bontà di quella affermazione fino a ritenerla del tutto non condivisibile. Invero, rimarco che proprio le aderenze, le complicità occulte e le collusioni all’interno delle Istituzioni, hanno consentito a molte organizzazioni criminali e, fra queste, senz’altro Cosa nostra, di radicarsi, di ramificarsi e di diffondere nell’immaginario collettivo quella patina d’invincibilità che per molto tempo le ha circondate.
La figura di creazione giurisprudenziale del concorso esterno nel reato di associazione di stampo mafioso rappresenta uno degli strumenti più efficaci che l’ordinamento vigente offre per poter arginare il fenomeno della collusione e della corruttela dei Pubblici Amministratori e degli appartenenti alle Istituzioni.

Torniamo alla sua attività di magistrato. A che età ha iniziato a occuparsi di mafia e come è cambiata la sua vita da allora?
Ho cominciato sin da quando ero uditore giudiziario, a 26 anni, seguendo quanto stava facendo il magistrato al quale ero affidato e di cui ho già fatto menzione, Antonio Fojadelli, che, all’epoca, si occupava della cosiddetta mafia del Brenta. E, poi, ho proseguito quando mi sono recato a Caltanissetta, nel 1992. La mia vita e quella dei miei familiari è mutata, a seguito del mio impegno professionale. Ho dovuto convivere con l’idea di poter essere ucciso. Con la mia fidanzata sono stato vittima di un tentato omicidio. Io e miei familiari abbiamo ricevuto numerose minacce. Io e mia moglie abbiamo dovuto convivere con le ansie e le preoccupazioni delle famiglie di origine. Non avevamo neanche trent’anni e avremmo voluto solo vivere una vita libera da condizionamenti e serena, ma abbiamo voluto accettare le limitazioni e le restrizioni – che ovviamente derivano dalla presenza di agenti di scorta. A loro va tutta la mia gratitudine, ma per fare bene il loro lavoro, hanno dovuto invadere la nostra intimità.
Ancora oggi vivo con la scorta. Sono stato delegittimato e diffamato con vari articoli di giornali e nel corso di trasmissioni televisive, rispettivamente, scritti e condotti da giornalisti politicamente orientati, vicine a persone oggetto di indagini. A tutto questo si aggiungono ritmi di lavoro massacranti, ai limiti estremi della resistenza fisica e mentale. Ma tutto questo deve essere accettato.

Oggi rifarebbe questa scelta?
Me lo sono chiesto molte volte, soprattutto nei momenti di difficoltà, che non sono stati pochi. Me lo ha chiesto anche mia moglie Carolina, che, purtroppo, ha dovuto subire varie conseguenze negative per la scelta che ho effettuato.

La risposta?
Mi sono risposto e le ho risposto: sì, vale sempre la pena contrastare l’illegalità.

Un consiglio a un giovane che vuole diventare magistrato.
È importante credere in se stessi e non accettare compromessi, soprattutto sulle limitazioni della legalità. Informatevi, perché non si può consentire la rimozione. Chi dimentica il proprio passato è condannato a riviverlo.

[L'intervista completa a Luca Tescaroli è contenuta nel libro "Dialoghi sulla Costituzione", Effepi Libri editore, 2013 - www.effepilibri.it]
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Per saperne di più

«I magistrati vogliono una squadra speciale per condurre una guerra senza tregua contro la mafia. Questa visione è supportata da Giovanni Falcone, il pacato pubblico ministero quarantanovenne che ha condotto la maggior parte delle indagini di mafia negli ultimi anni. Il signor Falcone era la forza dietro il “maxiprocesso” di mafia che ha portato a 338 condanne lo scorso dicembre ed è stato proclamato un trionfo nazionale» (R. Suro, Anti-Mafia Effort Stumbles in Italy, in “The New York Times”, 7 agosto 1988). Nonostante la considerazione di cui godeva fuori dai confini nazionali, nel nostro Paese Giovanni Falcone fu spesso attaccato, insultato, accusato di protagonismo. Quella raccontata nel volume di Maria Falcone, sorella del magistrato, e Francesca Barra è la storia di un uomo solo, che ha portato avanti una battaglia senza un convinto sostegno delle Istituzioni. La sua tenacia ed il suo intuito investigativo gli consentirono di raggiungere notevoli traguardi nella lotta al crimine mafioso. A vent’anni dalla strage di Capaci le autrici ripercorrono la vita di Giovanni, mantenendone viva la memoria sia in coloro che vissero quei tragici momenti nel 1992 sia nei giovani, che hanno deciso di conoscere la sua storia e di non dimenticare.

Maria Falcone con Francesca Barra
Giovanni Falcone. Un eroe solo
Rizzoli, 2012, pagg. 210, 17,50 euro
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Luca Tescaroli, attualmente sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, è inserito nel gruppo antiterrorismo e nel gruppo “reati contro l’economia”. Ha svolto e svolge indagini e processi sui fatti più rilevanti di criminalità organizzata verificatisi nel nostro Paese. Ha seguito, fra l’altro, i procedimenti relativi alla strage di Capaci, al fallito attentato dell’Addaura, all’omicidio del banchiere Roberto Calvi, all’associazione a delinquere capeggiata da Gianfranco Lande (noto alle cronache come “Madoff dei Parioli”), all’associazione terroristico-eversiva denominata “Per il Comunismo Brigate Rosse”. Tra i suoi libri: Perché fu ucciso Giovanni Falcone (2001) e I misteri dell’Addaura… ma fu solo Cosa nostra? (2001), editi da Rubbettino; Le voci dell’oblio (2005, Di Girolamo editore); Colletti sporchi (con Ferruccio Pinotti, 2008, Bur-Rizzoli).

FOTO: Il Sostituto Procuratore Luca Tescaroli

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