Colloquio con il fondatore di Ammazzateci tutti,
la più grande organizzazione giovanile
antimafia italiana
«È ridicolo vedere giovani operatori delle Forze dell’ordine che, invece di fare indagini in terre di mafia, sono mandati a fare servizio d’ordine negli stadi». Così, Aldo Pecora, presidente di “Ammazzateci tutti”. Polizia e Democrazia lo ha raggiunto per un’intervista.
Lei è cresciuto insieme ai ragazzi dell’organizzazione giovanile antimafia “E adesso ammazzateci tutti”. Qual è il compito più difficile quando parla di mafia o, più in generale, di organizzazioni criminali?
Il compito più difficile è far capire ai cittadini che anche se spesso le Istituzioni non sono degne della nostra fiducia, comunque rappresentano una prossimità, un qualcosa che deve essere utile al cittadino. Quando ero ragazzino, insieme ai miei amici, vedevamo le divise delle Forze dell’ordine come un’entità distante. P
arlare di lotta alla mafia e farlo al Sud vuol dire innanzitutto incollare di nuovo le maglie dello Stato con quelle dei cittadini. Per noi di Ammazzateci tutti fare antimafia significa appunto sapere che ci sono delle fasi: c’è la protesta, poi soprattutto la proposta, e la proposta la fai con le Istituzioni.
Nel suo blog campeggia la frase “Continuiamo a camminare in salita, ma oggi posso dire che ne valeva la pena”. Esporsi in maniera così netta contro un pericolo come la ‘Ndrangheta comporta problemi. Ha mai paura o pentimenti?
Ci sono dei momenti in cui pensi «chi me l’ha fatto fare», ma si tratta di una frazione di secondo perché poi pensi a tutto quello che hai fatto e sai che lo rifaresti. Certo, quando ho iniziato avevo diciannove anni e oggi ne ho ventisei. Se mi devo pentire di una cosa è di non avere vissuto in pieno una fase della mia vita che era forse la più importante perché veniva dopo quella dell’adolescenza.
Ha fatto di questa frase “Chi non s’indigna non vale niente”, un emblema. Nel contatto con gli altri giovani che tenta di coinvolgere, quanto è forte l’indignazione e quanto la paura?
Secondo me camminano di pari passo. Tu non puoi pensare di cambiare le cose se prima non t’indigni, perché vedi che ci sono situazioni di estremo disagio, di disaffezione nei confronti di una cosa bellissima come la speranza. Lo disse anche un prefetto qualche tempo fa quando andò via dalla Calabria: «I calabresi purtroppo stanno perdendo addirittura il coraggio di sperare».
T’indigni quando vedi che la giustizia italiana è lenta e ingiusta. T’indigni quando senti ancora parlare di un Sud che non riesce a mettersi in pari con il Nord Italia. E quando vedi queste cose non puoi avere paura di cambiarle.
Tanti i convegni sull’antimafia nelle scuole. I ragazzi conoscono i nomi di Falcone e Borsellino ma cosa resta nelle loro menti?
Ai nomi di Falcone e Borsellino aggiungerei quello di Antonino Scopelliti, ucciso nove anni prima di Falcone. Noi cerchiamo di informare i ragazzi, dopodiché ci aspettiamo che loro entrino in gioco in prima persona. Incontriamo in media tra i quattrocento e i cinquecento ragazzi in una scuola, ma è già un grande risultato coinvolgerne quattro, cinque, che a loro volta potranno formare dei gruppi di quaranta, cinquanta persone anche fuori delle aule.
Dopo l’uccisione di Melissa Bassi, i ragazzi di Brindisi esposero uno striscione che recitava lo stesso slogan che noi avevamo esposto a Locri nel 2005. Questo significa che tu semini qualcosa, anche dove meno te lo aspetti. L’importante è portare gli uomini e le donne delle Forze dell’ordine, insieme ai magistrati, nelle scuole, far vedere la normalità del loro lavoro, non l’eccezionalità. Dietro le divise ci sono delle persone, anche dei giovani che hanno fatto delle scelte e che possono diventare dei modelli per i ragazzi.
Senza fare l’avvocato del diavolo, come fa un giovane cittadino nel 2013 ad avere speranza nelle Istituzioni e a credere che qualcosa possa cambiare quando la classe politica, in generale, è minata da scandali e corruzione?
Ai ragazzi spesso dico: ognuno di voi scelga da che parte stare. La legalità è come la linea di un centrocampo immaginario: da una parte c’è chi vuole continuare a delinquere; dall’altra, invece, ci sono le persone che vogliono rimboccarsi le maniche e fare una scelta di vita, ossia quella della legalità. Non c’è da distinguere tra destra, sinistra e centro: sono tutti uguali. La soluzione deve essere l’impegno in tutta la classe dirigente e in tutta la società civile.
Qual è il suo punto di vista e il suo rapporto con le Forze dell’ordine? In Ammazzateci tutti ci sono dei loro rappresentanti?
Abbiamo un rapporto di stima e di collaborazione proficua, soprattutto nei territori non convenzionali. Al Sud, quando devi fare attività di sensibilizzazione, è normale che i principali interlocutori siano carabinieri e poliziotti. Al Nord, invece, si cerca di sviluppare dei percorsi di conoscenza. Con alcuni rappresentanti delle Forze dell’ordine capita che si diventi amici, anche se cerco sempre di tenere assolutamente distanti i rapporti personali da tutto il resto.
Negli ultimi due anni proprio le Forze dell’ordine sono state al centro di polemiche roventi per l’uso della violenza. Eppure, gli stessi sindacati di Polizia hanno a più riprese denunciato le ristrettezze economiche e i tagli agli organici cui devono far fronte. Qual è il suo pensiero?
Penso che lo stipendio di un poliziotto sia ridicolo se rapportato al rischio che corre nell’esercizio del proprio lavoro e al numero di ore in cui è impegnato. E’ ridicolo vedere giovani delle Forze dell’ordine che, invece di fare indagini in terre di mafia, per scoprire gli autori di atroci delitti, sono mandati a fare il servizio d’ordine negli stadi o i controlli di pattuglia per le strade. Di Filippo Raciti non se ne parla più: io sto dalla parte di Raciti, non da quella dei tifosi.
Un po’ diverso è il mio giudizio sui fatti del G8 di Genova. Penso infatti che in quell’occasione l’Italia non sia stata in grado di gestire un evento così complesso, quindi alla fine sono saltati i nervi da entrambe le parti. Mi dispiace che nell’episodio della scuola Diaz stiano pagando persone che forse meno di altre dovrebbero pagare. Mi riferisco in particolare a Francesco Gratteri, a mio avviso il miglior poliziotto antimafia che ci sia in Italia.
Come giudica l’iniziativa del ministro Cancellieri di inviare a Napoli, dopo i fatti di Scampia, l’Esercito? Può essere la soluzione?
Spesso, purtroppo, i militari sono impiegati a svolgere il lavoro della Protezione Civile. Trovo invece che i militari potrebbero essere molto più utili nei contingenti italiani all’estero. La militarizzazione di un territorio mi vede d’accordo a metà. In Calabria negli anni Novanta c’è stata una presenza capillare dell’Esercito, eppure la ’Ndrangheta è dilagata ugualmente.
Bisogna fare in modo che l’Esercito lavori importando in Italia il peacekeeping: questo significa che l’Esercito deve andare nelle zone sensibili a ristabilire l’ordine, nel frattempo le Istituzioni devono rendersi più democratiche e meno penetrabili dai poteri criminali, e l’Esercito può formare gli operatori delle Forze dell’ordine locali. Io credo nella formazione costante.
Secondo i dati diffusi da Ossigeno per L’informazione, nel 2011 sono stati più di trecento i giornalisti italiani che hanno subìto minacce o gravi intimidazioni a causa del loro lavoro. Pietro Grasso, ex Procuratore nazionale antimafia e oggi candidato Pd alle politiche, scrive nel suo ultimo libro Liberi tutti “Ancora oggi chi scrive di mafia è esposto a minacce”. Quali sono i principali ostacoli che ha dovuto affrontare nella ricerca della verità?
Molti giornalisti, è vero, sono esposti a minacce, ma c’è anche chi interpreta, sbagliando, il ruolo del giornalista in modo spettacolare, come se fosse un eroe. La più grande soddisfazione che tu puoi dare a chi ti minaccia è che poi questa notizia esca sui giornali, perché così si genera paura.
Quando sono stato invitato negli Stati Uniti ho potuto verificare proprio questo: l’assenza totale di enfatizzazione della notizia da parte dei media americani quando si parla di personaggi coinvolti in vicende di mafia o malaffare. In Italia purtroppo le varie inchieste hanno finito col mitizzare il male.
Che cosa pensa dell’opera e del contributo di Antonino Caponnetto? L’ha in qualche modo influenzata?
Ricordo quell’immagine di Caponnetto in lacrime, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, che dice: «E’ finito tutto». Invece non era finito niente perché lui stesso, poco tempo dopo, fu tra i protagonisti della primavera palermitana. Noi di Ammazzateci tutt” sentiamo di aver raccolto il suo testimone. Lui infatti girava per le scuole parlando ai ragazzi.
Non ho mai avuto l’onore di conoscerlo personalmente, però subito dopo le manifestazioni di Locri, ebbi l’occasione di incontrare Rosanna, la figlia del grande giudice Antonino Scopelliti, che Caponnetto giustamente ricordava come un martire, un eroe della Calabria, al pari di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Nel 2007 ha ideato Legalitalia, meeting nazionale su antimafia e politiche legalitarie, organizzato ogni anno con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. Come cittadino quanto sente vicine le Istituzioni?
Sento molto la vicinanza delle Istituzioni, però devo fare una critica: Legalitalia è un evento consolidato che tuttavia si tiene durante l’estate, per cui molti esponenti delle Istituzioni non vi partecipano perché sono in ferie: questo è sbagliato.
Si svolge a Reggio Calabria proprio nell’anniversario dell’uccisione del giudice Scopelliti. La mafia lo ha ucciso in agosto, non è andata in ferie. Ho quindi l’amaro in bocca quando sento che parecchie persone il giorno del suo anniversario rinunciano a partecipare all’evento.
Che idea si è fatto della lunga e accesa polemica che ha investito il presidente Napolitano in merito alla cosiddetta trattativa Stato-Mafia?
La presunta trattativa tra Stato e mafia, che a mio avviso tanto presunta non è, deve essere affrontata con risolutezza perché lo Stato deve poter riuscire a prendere un bisturi e asportare delle parti di se stesso che sono forse contaminate da un male incurabile.
Nel nostro Paese il Presidente della Repubblica è una figura di garanzia, e non è normale vedere striscioni e urla contro di lui. Napolitano in questo scontro è forse la prima vittima perché c’era da chiarire il ruolo avuto dall’allora ministro dell’Interno, Mancino.
E’ stato Mancino a tirare in ballo Napolitano e questi è rimasto coinvolto in un tritacarne.
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