Elio Matarazzo ha scritto un volume in cui distilla
la sua lunga esperienza di producer televisivo
ma anche di docente. Al suo interno vi si trova non solo
la descrizione dettagliata dei numerosi e consistenti
cambiamenti nel modo di fare programmi per il piccolo schermo
ma anche preziosi consigli per chi vi vuole lavorare
Quando ho cominciato a insegnare radio e televisione, nell’ormai lontano 1995, i libri sui media elettronici semplicemente non c’erano. Si parlava di “comunicazione di massa” e la radio e la tv erano confuse in mezzo a libri, giornali e film. Quasi che la tv fosse un mestiere che s’impara solo con l’apprendistato, senza bisogno di particolari nozioni ma solo di cultura generale, capacità di relazioni e spirito di sacrificio.
A questa lacuna può porre rimedio il nuovo volume di Elio Matarazzo (“Il bello della diretta”, Mondadori), che vi distilla dentro una lunga esperienza di producer televisivo e una più recente ma intensa prova di docente. Il modello di televisione che egli delinea è, in trasparenza, la Rai: il grande broadcaster nazionale pubblico con i suoi centri di produzione, le importanti professionalità interne, un continuo controllo qualitativo (e non solo) sul prodotto fino al suo “collaudo”. Tuttavia le routine produttive che Matarazzo descrive sono largamente applicabili anche a Mediaset e, in misura minore, a La7 e altre emittenti, anche se molto meno a Sky.
La televisione è profondamente cambiata, non solo rispetto ai tempi ormai arcaici del monopolio, sia della cosiddetta “neotelevisione” che sta per compiere i quarant’anni e non è più quella degli ’80 e ’90 del Novecento: cioè l’epoca su cui sono basati molti dei testi sulla tv oggi disponibili. Questi cambiamenti sono di varia importanza e natura. Le narrative seriali di finzione hanno assunto una complessità e un’imponenza produttiva senza precedenti, costituendo ormai un sistema a vasi comunicanti con il cinema e sviluppandosi in maniera crossmediale, interagendo a vari livelli con la visione non lineare, con la rete, con il fandom. Non procedo oltre perché questo è il campo più studiato, probabilmente per la vicinanza alla finzione cinematografica, ivi compresa una certa circolazione di talenti, maestranze e studiosi. Meno studiata è la fattura del prodotto televisivo “non fiction”. Se esso incorpora ormai elementi di finzione, sul piano produttivo le differenze non potrebbero essere maggiori: c’è una centralità dello studio, attorno a cui vengono montati segmenti ed elementi diversi (interviste, servizi, talk, game, collegamenti esterni, pubblico in studio, ospiti) secondo una formula a cui lavorano congiuntamente producer e autori, insieme al regista, allo scenografo, al datore di luci. Una volta che la scenografia è fatta e la formula stabilita, si apre una vera e propria “farm”, una temporanea fabbrica dell’intrattenimento in cui producer, autori e regista si confrontano con corpo redazionale di addetti ai testi, al casting, all’organizzazione dei collegamenti e delle uscite esterne, interfacciandosi con inviati, giornalisti, videomaker. Intanto c’è chi monta il sito web, cura il rapporto con il pubblico, s’interfaccia con i social network, crea fandom, pensa ai numeri verdi e agli Sms, mentre l’ufficio stampa parte con il suo lavoro di promozione del programma, di ospitate dei suoi protagonisti in altre trasmissioni, di finestre da aprire in altre, di conferenze stampa, di eventi e (magari) di raduni di supporter.
Questa farm spesso occupa un certo numero di stanze (e, temporaneamente, uno studio) in una più grande fabbrica televisiva (un centro di produzione) così come il programma sta dentro una rete che a sua volta sta dentro un network. Burocrazie complesse, sensibilità delicate, conflitti di competenze e di corporazioni che qualcuno (il delegato alla produzione, il producer) dovrà cercare di mediare, addolcire, e comunque portare fuori dal lavoro creativo e produttivo che ne risulterebbe inquinato. Altra soluzione, estrema, quella di fare del conflitto con il network un elemento dello spettacolo: perseguibile solo se si ha fra le mani un grande showman (Celentano, Benigni, Santoro) e per brevi periodi. Un caso del tutto particolare, quasi surreale.
Ormai la produzione “in casa” è un caso particolare. L’ideazione dei programmi è quasi tutta trasformata nell’adattamento di format internazionali. Spesso le società che li vendono sono poi quelle che li produrranno, magari pescando nelle competenze tecniche (e perfino negli studi) del committente. Penso a “Che tempo che fa”, programma Rai prodotto da Endemol negli studi milanesi della Rai. Anche quando non c’è di mezzo un format, la soluzione della produzione esterna, in appalto, in outsourcing, è sempre più diffusa, per molti motivi: alcuni nobili, altri meno. Lavorare con un produttore è molto diverso che lavorare per una grande azienda; può essere molto meglio o molto peggio: dipende da chi è il produttore. L’importante è che il produttore, che è quasi sempre un pesce più piccolo del network per cui lavora (meglio se sono più di uno), non ha un’organizzazione del lavoro così parcellare (e sindacalizzata) come nel network.
Come sottolinea spesso Matarazzo, se s’intende entrare in questo mondo ci vuole molta flessibilità, grande spirito d’iniziativa, la capacità di saper fare una cosa bene e almeno un’altra abbastanza bene e naturalmente quella di inventarsi competenze e idee anche in campi non vicinissimi alle proprie qualità principali se il mercato lo richiede in quel momento.
Spazio in tv ce n’è solo per chi si dà da fare e per chi porta idee nuove, che sono la merce più rara, la droga più forte. Un giovane (che conosce gli altri giovani, ormai merce rara e preziosa nel pubblico tv) è una manna dal cielo, se sa portare concetti freschi ed è dotato di quella cultura che, per motivi generazionali, i vecchi non hanno potuto avere. Fino al 1980-90 studiare la tv all’università era letteralmente impossibile.
Il giovane porterà le sue idee in un mondo in cui non ci sono più solo canali generalisti e nemmeno la dialettica generalisti-tematici e nazionale-locale. Col digitale terrestre e l’avvento dei canali mini-generalisti siamo di fronte a una via di mezzo che si chiama lifestyle, che non è Rai Due ma nemmeno Discovery.
* Professore Ordinario al DAMS
dell’Università Roma Tre
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