Il 7 dicembre scorso emessa una sentenza storica a Mestre. In primo grado
inflitte più di venti condanne (per un totale di 215 anni di carcere)
alla “Gomorra veneta”: 20 anni di reclusione al boss della banda, Mario
Crisci, detto “il dottore”, e a due suoi vice, e pene severe (dai 17 ai 5 anni)
anche agli altri imputati. ‘Ndrangheta, camorra e Cosa nostra, favorite
anche dalla crisi economica e da professionisti e imprenditori disposti
a compromessi, tentano di colonizzare il Nordest.
Pierpaolo Romani (Avviso Pubblico): «Il Veneto è una terra che interessa
alle mafie. Qui ora, secondo i dati dell’Agenzia nazionale, si registrano
80 beni immobili e 4 aziende confiscate». Nel 2011, nella regione,
segnalati dalla Dia 42 casi di reati di riciclaggio. In aumento (del 9,4%)
le segnalazioni, da parte dell’Uif, delle operazioni finanziarie sospette.
Ecco le maggiori e più recenti inchieste in Veneto contro
i tentacoli della Piovra
In Veneto, sebbene siano finiti da un po’ i tempi della banda di Felice Maniero, la mala del Brenta, che dalla metà degli anni Settanta a metà degli anni Novanta terrorizzava con rapine, estorsioni e sequestri le province tra Venezia e Padova, la criminalità non è scomparsa. Semmai, ha cambiato volto e strategia. Qui oggi le mafie, che di certo non hanno raggiunto i livelli di alcune regioni meridionali dove uccidono e riescono a condizionare ampi settori pubblici, anche se non sparano dimostrano, con le loro infiltrazioni, di essere in grado di minacciare e, in alcuni casi, di intaccare il tessuto socioeconomico del territorio. Silenti e invisibili, per non creare allarme sociale, ma attive. Il Veneto, come altre regioni del Nord, è diventato terra di riciclaggio che le cosche utilizzano per far fruttare i propri guadagni illegali, maturati altrove, cercando di mimetizzarli con investimenti in attività commerciali e imprenditoriali. Nella sua strategia di delocalizzazione, la criminalità organizzata non tralascia nulla, dagli appalti alle speculazioni immobiliari, dagli affari nel settore dei rifiuti al traffico di stupefacenti, fino all’esplosione del fenomeno dell’usura praticata agli imprenditori sull’orlo del fallimento ed in cerca di finanziamenti. Favorite dalla crisi economica e da professionisti e imprenditori disponibili a compromessi, le mafie tentano di radicarsi nel Nordest. Un quadro inquietante che affiora chiaramente da inchieste della magistratura e degli organi di Polizia, relazioni semestrali della Dia (Direzione investigativa antimafia), sentenze e cronache giornalistiche.
«Il Veneto non è una terra di mafia, ma è una terra che interessa alle mafie», dichiara a Polizia e Democrazia il veneto Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, la rete degli Enti locali per la formazione civile contro le mafie. Romani, già consulente della Commissione parlamentare Antimafia, prosegue: «L’infiltrazione mafiosa in regione interessa, in particolare, il settore economico. I mercati più a rischio di permeabilità criminale, oggi anche a causa della grave crisi economico-finanziaria che ci attanaglia, sono quelli dell’edilizia, dei trasporti, del turismo, dello smaltimento dei rifiuti, della grande distribuzione, dei mercati ortofrutticoli, dell’intermediazione di manodopera, del gioco d’azzardo, della contraffazione delle merci. Il Veneto, essendo geograficamente situato in una posizione strategica, è anche una terra di transito di importanti partite di droga, armi e, dalla metà degli anni ’90, anche di esseri umani, sfruttati nel lavoro nero e nel mercato della prostituzione».
L’Ovest del Veneto è adoperato dalle cosche calabresi della ’Ndrangheta come “lavatrice” per i soldi provenienti dalla droga mentre la zona Est della regione è luogo dove la camorra esercita speculazioni ed usura. Quest’ultimo allarmante aspetto, in particolare, è emerso dall’operazione Serpe coordinata dalla Dda di Venezia: il 14 aprile 2011 la Dia di Padova ed i Carabinieri di Vicenza hanno arrestato una trentina di persone accusate a vario titolo di reati di usura, estorsione ed esercizio abusivo dell’attività di intermediazione finanziaria a danno di un centinaio di imprenditori del Veneto (Padova, Venezia, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo) e non solo. Si tratta di una delle inchieste di maggior rilievo dai tempi della mala del Brenta. Gli investigatori, infatti, fin dall’inizio sono apparsi convinti di aver disarticolato una propaggine del clan camorristico dei Casalesi. Le indagini hanno rivelato che il sodalizio criminoso sgominato si serviva della società finanziaria padovana “Aspide” per infiltrarsi nelle imprese in difficoltà del Nordest e rilevarle dopo aver prestato denaro ad usura. Piccoli e medi imprenditori in cerca di liquidità rimanevano poi strozzati dal tasso d’interesse annuo del 180% ed obbligati a cedere l’attività. Per chi tardava a pagare scattavano minacce con armi e violenze fisiche. Dietro a questo giro di usura, la mafia campana. «E’ stato estirpato un cancro mafioso dall’imprenditoria sana del Veneto», affermò subito il procuratore di Venezia, Luigi Delpino. Capo della banda è considerato Mario Crisci, 35 anni, napoletano, che dinanzi ai giudici, pur ammettendo di aver gestito «in maniera oculata e professionale un’attività delinquenziale», ha negato contatti con il boss camorrista Iovine e con il suo clan. Coinvolti anche insospettabili professionisti veneti. Per smascherare l’organizzazione, preziose si sono mostrate le intercettazioni telefoniche ed ambientali. Il processo alla cosiddetta “Gomorra del Nordest” si è celebrato con rito abbreviato a Mestre. Il magistrato Roberto Terzo, sostituto procuratore della Dda di Venezia, durante l’estate passata ha chiesto la condanna a 20 anni per il boss Crisci e per due suoi luogotenenti, i napoletani Antonio Parisi e Massimo Covino, e pene severe anche per gli altri 19 imputati. Le ha ottenute. Il 7 dicembre scorso, infatti, è arrivata la relativa sentenza di primo grado che ha premiato la linea della pubblica accusa. Sono state inflitte alla “Gomorra veneta” più di venti condanne per un totale di 215 anni di carcere (20 anni a Crisci, Parisi e Covino, e dai 17 ai 5 anni per i restanti componenti e fiancheggiatori della gang). Un verdetto storico, che documenta e punisce la presenza in Veneto di un’associazione di stampo mafioso e che dovrebbe indurre tutti, nel Nordest, a non abbassare la guardia su questo fenomeno.
All’inizio del 2012, invece, è stata confermata a Venezia in Corte d’Appello la condanna a 7 anni, per usura ed estorsione, comminata al napoletano Ciro Cardo, residente a Peschiera del Garda (Vr) e legato al clan camorristico Licciardi di Secondigliano (Na).
Nei primi mesi del 2011 la Procura di Padova ha fatto scattare le manette per due fratelli napoletani ed una serie di consulenti, commercialisti e prestanome, per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla procurata bancarotta fraudolenta attraverso operazioni economiche illecite volte a “svuotare” aziende in crisi. E’ l’operazione Manleva, l’inchiesta sulla holding “Gruppo Catapano” dietro la quale ci sarebbero i clan Gionta di Torre Annunziata (Na) e La Torre di Mondragone (Ce). Vittime del sodalizio una decina di imprese, perlopiù venete.
Secondo la Squadra Mobile di Venezia vi sarebbe stata sempre la camorra dei Casalesi, nel 2009, dietro una truffa milionaria agli istituti bancari, in territorio veneziano e trevigiano, ideata da un giovane funzionario di banca di Caorle (Ve) assieme ad un suo amico imprenditore. E anche questa vicenda denota che la mafia attecchisce più facilmente laddove trova disponibilità al compromesso da parte di professionisti locali.
Nella relazione della Dia riguardante il secondo semestre 2011 si legge: «In Veneto gli accertamenti effettuati dalla Dia (…) fanno ritenere che elementi della criminalità organizzata di origine siciliana abbiano stretto contatti con il mondo dell’imprenditoria veneta, specialmente nel settore delle energie rinnovabili, con il verosimile intento di cogliere opportunità di riciclaggio».
In tema di riciclaggio e movimenti finanziari sospetti, Pierpaolo Romani afferma: «Il numero dei reati di riciclaggio segnalati in Veneto dalla Dia per il 2011 è stato di 42 casi, pari ad una media di 3,5 denunce mensili e al 12% sul totale nazionale. Questo dato pone la nostra regione al nono posto a livello italiano e al quinto posto tra le regioni dell’Italia Settentrionale. Monitorando il numero delle operazioni finanziarie sospette segnalate dall’Ufficio informazione finanziaria della Banca d’Italia (Uif) per quanto riguarda il Veneto, si registra questo andamento: si è passati dalle 1.387 segnalazioni del 2010 alle 1.518 del 2011, registrando un aumento del 9,4%. A segnalare sono in particolare gli istituti bancari e gli uffici della Pubblica amministrazione. Mancano segnalazioni dal mondo delle libere professioni, secondo un trend che è anche nazionale».
Nell’aprile 2011, per quanto riguarda il business dei rifiuti, la Dia di Napoli e di Padova hanno sequestrato beni all’imprenditore padovano Franco Caccaro, ex titolare della Tpa di Santa Giustina in Colle (ditta padovana produttrice di macchine per la triturazione di rifiuti) ritenuto dagli investigatori il prestanome di Cipriano Chianese, proprietario della Resit, società che gestiva discariche a Giugliano (Ce). Chianese, detto “il re dei rifiuti”, è considerato legato al clan dei Casalesi e inventore del sistema delle ecomafie. L’estate scorsa Caccaro, la moglie Nicoletta Zuanon, e Chianese sono stati arrestati dalla Guardia di Finanza per bancarotta fraudolenta e frode fiscale.
Sul fronte del traffico di stupefacenti, nel giugno 2012 la Dda di Venezia ha emesso una ventina di provvedimenti restrittivi neutralizzando un’organizzazione italiana di trafficanti di cocaina attivi soprattutto in Veneto. Al vertice è risultato il figlio del braccio destro di Felice Maniero, l’ex boss della mala del Brenta. La cocaina veniva importata dalla Colombia e venduta ad un costo tra i 50 ed i 95 euro al grammo. L’operazione Persicus ha rivelato che la banda ricorreva ad elementi del clan dei Casalesi per recuperare il denaro delle partite non pagate. Il blitz ha richiesto l’intervento di 400 carabinieri nelle province di Padova, Venezia, Verona, Vicenza, Rovigo ma anche di Ravenna, Ferrara, Pisa e Brindisi. Sono stati sequestrati rilevanti quantità di cocaina, un arsenale di armi, 100mila euro in contanti e 4 auto di lusso. Il gruppo era soprannominato “banda dell’oratorio” perché lo spaccio si concentrava presso un circolo ricreativo di Padova vicino ad una chiesa. Le indagini sono durate due anni e hanno visto impegnati i Carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Padova e la Direzione centrale per i servizi Antidroga di Roma.
Sempre sul versante droga, nel gennaio 2011 i Carabinieri del Ros di Padova, con l’operazione Ring, hanno scoperto un’organizzazione calabrese che, rifornita da due albanesi, spacciava stupefacenti sulla sponda veronese del lago di Garda ma anche nelle province di Brescia e Milano per un giro d’affari di centinaia di migliaia di euro. Quindici gli arresti. Sequestrate cocaina e pastiglie di ecstasy. Si tratterebbe della proiezione veronese della cosca ’ndranghetista Anello-Fiumara di Filadelfia (Vibo Valentia). Nella disponibilità del gruppo c’erano anche delle armi. Nel rapporto della Dia relativo al primo semestre 2011 sta scritto che gli esiti dell’operazione Ring testimoniano «l’interesse delle cosche vibonesi nella gestione del traffico di stupefacenti». E’ trapelato, tra l’altro, che il presunto capo della banda veronese avrebbe incaricato un suo collaboratore di far sparire una pistola (una semiautomatica calibro 22) usata a Milano per un omicidio. L’arma, distrutta con un flessibile, è stata ripescata nel lago di Garda.
Nel giugno 2011, con l’operazione Panama contro il narcotraffico, la Procura di Reggio Calabria ha fatto arrestare 16 persone implicate in un traffico internazionale di droga diretto da affiliati alla cosca Piromalli-Molè di Gioia Tauro (Rc). Tra queste, anche tre calabresi residenti nella provincia di Verona. Nel 2010 la Dda ed i Carabinieri di Venezia, con l’operazione Newport, hanno bloccato un traffico internazionale di cocaina che dalla Colombia, attraverso la Spagna, giungeva in Veneto dove veniva spacciata in territorio veneziano, trevigiano e padovano: il commercio illegale era condotto da due imprenditori edili di Gela (Cl) residenti a Chioggia (Ve) che erano in contatto anche con membri del clan mafioso Madonia. E nel 2009 la Guardia di Finanza di Verona ha messo le manette a quattro veronesi per un traffico internazionale di stupefacenti che arrivava dal Nord Africa attraverso cosche crotonesi della ’Ndrangheta. Sempre nel 2009, la Polizia ha sequestrato nel veronese beni per centinaia di migliaia di euro a sei persone considerate affiliate alla cosca Cataldo di Locri (Rc), la quale trasportava con i tir le partite di cocaina in Veneto.
La Dia di Padova, nel luglio 2011, ha sottoposto a sequestro beni immobiliari per 3 milioni di euro riconducibili all’imprenditore edile calabrese Domenico Multari, detto “Gheddafi”, originario di Cutro (Crotone) ma residente in provincia di Verona. Multari, che ha già diversi precedenti penali, è ritenuto un aderente alla cosca della ’Ndrangheta calabrese Dragone. Nel luglio scorso, in continuazione di indagini coordinate dalla Dda di Venezia, gli è stato confiscato un ulteriore patrimonio immobiliare e mobiliare del valore commerciale di circa 500mila euro.
Quanti sono, nella regione, i beni confiscati alle mafie? «Secondo i dati dell’Agenzia nazionale che si occupa di beni sequestrati e confiscati, attualmente in Veneto si registrano 80 beni immobili e 4 aziende confiscate», risponde Pierpaolo Romani che aggiunge: «La provincia con il maggior numero di ricchezze sottratte a mafiosi e personaggi del mondo del crimine organizzato è quella di Venezia, con 35 beni, seguita da Verona con 25 e da Belluno con 4. A livello nazionale, il Veneto è la nona regione per numero di beni confiscati e la quarta a livello di regioni del Nord Italia».
Di recente si è appreso che nel 2010 a due imprese edili reggiane sarebbe stata revocata l’autorizzazione di subappalto di alcuni lavori del nuovo polo chirurgico dell’ospedale di Borgo Trento, a Verona, non appena venne conosciuta l’interdittiva antimafia della Prefettura di Reggio Emilia che le considerava in pericolo di infiltrazioni mafiose. Così come non si può dimenticare il tentativo di Cosa nostra, effettuato nel 2007, di affondare radici nel padovano e nel veneziano: il clan Lo Piccolo cercò di investire ingenti capitali (8 milioni di euro) in particolare in un progetto edilizio a Chioggia (Ve) che prevedeva la realizzazione di 80 appartamenti nell’area “ex Adria Docks”.
Nella primavera 2012 in Veneto ha suscitato polemiche l’arrivo a Padova, autorizzato dal Tribunale di Palermo, di Giuseppe Salvatore Riina, detto “Salvuccio”, figlio del boss corleonese “Totò”. Il sorvegliato speciale Riina junior, dopo aver scontato una pena di quasi 9 anni per associazione mafiosa, è stato ammesso al regime di affidamento ai servizi sociali nella città veneta, dove lavora presso una onlus, l’associazione “Noi famiglie contro l’emarginazione”. Si è acceso un dibattito sull’opportunità di tale trasferimento da Corleone.
La preoccupazione di molti non è infondata, visto che in passato la mala del Brenta si rafforzò proprio grazie alla presenza sul territorio di esponenti mafiosi, spesso mandati in Veneto con l’istituto del soggiorno obbligato, con i quali strinse accordi. E’ utile ricordare che il Veneto, nel corso degli anni, ha ospitato un gran numero di boss di primo piano: da Giuseppe Sirchia a Gaetano Fidanzati, da Antonino Duca a Salvatore “Totuccio” Contorno, da Giuseppe Piromalli ad Anna Mazza. La regione è anche il luogo scelto come rifugio da diversi latitanti, malavitosi o presunti tali. Nel 1992 a Longare (Vi) viene arrestato Giuseppe “Piddu” Madonia, braccio destro di “Totò” Riina. Nella serata di San Silvestro del 1993 i Carabinieri chiudono le manette ai polsi del boss camorrista Edoardo Contini: lo sorprendono in una villa di Cortina (Bl) mentre si stava apprestando a partecipare ai festeggiamenti per il veglione di Capodanno. Nel 1998 a Caorle (Ve) finisce la fuga del boss camorrista Costantino Sarno. Nel 2005 è arrestato a Portogruaro (Ve) Vincenzo Pernice, considerato il “tesoriere” del clan Licciardi. Anche altri personaggi, più di recente, sono caduti nella rete delle Forze dell’ordine. Nel 2010, a Mogliano Veneto (Tv), il catanese Vito Zappalà, ricercato da 11 anni, è acciuffato dalla Polizia mentre fa jogging. Sempre nel 2010, dietro le sbarre è accompagnato Antonio Barra, accusato dalla Dda di Napoli di essere il basista, a Treviso e a Venezia, del clan camorristico Moccia per truffe e riciclaggio. In manette finisce poi, nel 2011 a Torreglia (Pd), Cesare Longordo, ritenuto collegato alla cosca calabrese Longo di Polistena (Rc). Nella prima relazione semestrale della Dia del 2011 viene segnalato che l’arresto di Longordo e l’operazione Ring manifestano che in Veneto vi è “il latente rischio d’infiltrazione delle organizzazioni criminali calabresi”. Nel gennaio 2012 i Carabinieri catturano a Brugine (Pd) il latitante napoletano Nicola Imbriani, detto “Volpe”, considerato elemento di spicco del clan camorristico Polverino: secondo gli investigatori, Imbriani reinvestiva i soldi dell’organizzazione nell’edilizia privata. Nel marzo dell’anno scorso, a Preganziol (Tv), i Carabinieri del Ros traggono in arresto Valerio Salvatore Crivello, ritenuto esponente della ’Ndrangheta calabrese. Tutte presenze che confermano il pericolo di infiltrazioni mafiose in Veneto.
In questa regione conducono affari illeciti non solo le mafie autoctone tradizionali ma agiscono anche organizzazioni criminali allogene. Nelle relazioni della Dia, dove si sottolinea che il Triveneto costituisce una porta aperta sull’Oriente europeo, si indica infatti, ad esempio, che la criminalità albanese in queste zone commette soprattutto reati come il contrabbando, la tratta e l’immigrazione clandestina, e il traffico di narcotici (quest’ultimo confermato dall’operazione Disprezzo e dall’operazione Pizzo del diavolo). La criminalità romena, invece, sarebbe dedita più alla clonazione di carte di credito e ai delitti contro il patrimonio, come svela l’operazione Donne e Motori condotta dai Carabinieri di Belluno.
Di fronte a questa realtà, ogni cittadino è chiamato a vigilare e a collaborare con la giustizia per contrastare le mafie e difendere la legalità nel territorio. Pierpaolo Romani evidenzia: «Non bastano i magistrati e le Forze dell’ordine per sconfiggere le mafie. Il fenomeno mafioso esiste in Italia da centocinquant’anni, segno che si tratta anche di una questione che attiene la politica, l’economia, la società. I cittadini devono denunciare i reati che vedono compiersi, devono prestare attenzione a chi votano, e devono comprendere che rispettare le regole è conveniente per tutti. Una società in cui si apprezzano più i furbi e i criminali che gli onesti è una società che ruba il futuro ai suoi figli».
La politica e le istituzioni stanno cercando di correre ai ripari. Poco più di un anno fa, per contrastare la criminalità organizzata in tema di appalti pubblici, è stato siglato a Venezia, alla presenza del ministro dell’Interno, un protocollo di legalità tra le Prefetture venete, la Regione, l’Associazione regionale dei Comuni e l’Unione regionale delle Province del Veneto.
Il 19 dicembre scorso il Consiglio regionale del Veneto ha approvato all’unanimità una legge per la prevenzione del crimine organizzato e mafioso, della corruzione, e per la promozione della legalità. Primo firmatario e relatore in aula il veronese Roberto Fasoli, consigliere del Pd ed ex segretario generale della Cgil di Verona. Il provvedimento legislativo, promulgato il 28 dicembre, si è concretizzato grazie al contributo di tutte le forze politiche. Un confortante segnale di unità contro le mafie. Tale legge regionale antimafia, formata da 20 articoli, introduce varie misure. Tra queste: il codice di autoregolamentazione in materia di legalità e trasparenza per i consiglieri regionali, azioni sul fronte formativo ed educativo con il coinvolgimento di scuole ed enti locali, protocolli di intesa e accordi di collaborazione con organi statali ed enti pubblici, il lancio della “Stazione Unica Appaltante” (Sua) per la trasparenza nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. La legge (n. 48) istituisce, inoltre, un Osservatorio per il contrasto alla criminalità organizzata e mafiosa, la giornata regionale (il 21 marzo) in memoria delle vittime della criminalità ed il “Premio legalità e sicurezza” destinato agli operatori della sicurezza che, nell’anno, si sono distinti nella lotta a mafie, contraffazione, truffe ed usura.
FOTO: Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di “Avviso Pubblico”
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