Il suo pensiero, pur nascendo da una precisa
situazione storica, ci è ancora molto
utile. Dai Quaderni emerge un concetto
chiaro: che nessuna conquista è definitiva
e che ogni fenomeno politico può convertirsi
nel suo contrario, magari mantenendo
immutata l’esteriorità
Nei movimenti politici sorti in momenti di grandi trasformazioni (si pensi alle rivoluzioni di fine Settecento o all’età del Risorgimento o alla Prima guerra mondiale) è accaduto che i leaders politici fossero anche teorici della politica o senz’altro pensatori politici. In Cuoco, Mazzini, Gioberti, Cattaneo – per fare solo qualche esempio – azione pratica, politica, e riflessione teorica si alimentano a vicenda. Anche la crisi epocale che segnò la conclusione della Prima guerra mondiale produsse una analoga fioritura, forse ancor più della stessa crisi di fine secolo, che aveva offerto materia al pensiero cosiddetto «elitista», giustamente severo nei confronti delle illusioni democratiche inficiate in radice dalla degenerazione del parlamentarismo. Le rivoluzioni sociali propagatesi a catena nel triennio 1917-1920 parvero, a loro volta, portare conferma dell’intuizione già di Marx dell’avvento del socialismo e della imminente fine del predominio del capitale. La contemporanea scomparsa poi dei quattro imperi – zarista, austro-ungarico, tedesco e turco – così come la rinascita della Cina come repubblica – sembravano confermare e ribadire, per tutta l’umanità, l’ingresso in una età nuova. Non sorprende perciò che grandi menti si siano impegnate nello sforzo di comprendere lo sviluppo storico in atto attraverso una riflessione al tempo stesso teorica, storica, politica. Keynes, Rathenau, Lenin, Gramsci hanno investito, per diverse strade e con diverso intento, la loro intelligenza nello sforzo di comprendere la trasformazione in atto.
Diremo qui di Gramsci (1891-1937). Nel giro di pochi anni egli vide sia la conferma – per breve ora – dell’ipotesi che l’esperienza di una democrazia di tipo nuovo («consiliare», capillarmente diffusa, e non parlamentaristica) fosse il fenomeno vincente, esportabile anche fuori dalla Russia (estate 1920: occupazione delle fabbriche nel Nord Italia), sia la sconfitta di quella previsione, sia la vittoria di un’altra ‘rivoluzione’, quella fascista, capace – ben più del neonato e concorrente movimento comunista – di conquistare un vasto consenso interclassista e di coniugare il patteggiamento con la Corona e l’alta borghesia (terrorizzata dal comunismo) con l’assunzione di istanze popolari e nazionalistiche.
Sconfitto nella lotta politica, eletto deputato nell’aprile 1924, sostenitore inascoltato della trasformazione dell’Aventino in anti-parlamento (onde costringere Mussolini alle dimissioni dopo il delitto Matteotti), arrestato illegalmente l’8 novembre 1926, condannato dal «Tribunale speciale per la difesa dello Stato» il 4 giugno 1928 a vent’anni di detenzione, Gramsci avvia una fase di pensiero del tutto nuova e libera da contingenti vincoli di quotidianità politica: essa è racchiusa nei «Quaderni del carcere» (34 Quaderni di complicata struttura, composti tra il 1929 ed il 1935).
Il suo tema diventa, a quel punto, perché il fascismo ha vinto e come la storia d’Italia, se adeguatamente scandagliata, spieghi tale esito. Il suo lavoro analitico ha prodotto concetti e categorie che oggi adoperiamo senza essere sempre consapevoli della loro provenienza. Non è un’indagine statica bensì in continuo aggiornamento, sviluppatasi negli anni: anni che non mancarono di apportare novità macroscopiche quali la torsione autoritaria della rivoluzione russa e la vittoria del nazionalsocialismo in Germania. Da questo magma incandescente, Gramsci seppe trarre diagnosi e concetti calzanti e fecondi: la critica spietata e lucida dell’apparente democrazia dei sistemi parlamentari-elettivi, la scoperta della funzione direttiva esercitata da forze decisive ma non esplicitamente politiche, la perdurante presa del «cesarismo» nei più diversi sistemi politici, il ruolo degli intellettuali nel processo di egemonia di cui si rendono protagonisti i ceti dominanti (quale che sia la forma politico-istituzionale), l’effetto passivizzante sulle masse dei regimi carismatico-messianici. A ben vedere, tutto questo strumentario pur nascendo da una precisa situazione storica, ci è ancora molto utile, dopo quasi un secolo, per il fatto stesso della continuità di lunga durata, propria dei meccanismi politici, e per la gradualità (per non dire lentezza) negli spostamenti di egemonia nella lotta tra le classi. Né può tacersi che la principale scoperta, forse non dichiarata ma ben presente, nel pensiero affidato ai Quaderni, è che la storia non marcia unicamente “in avanti” ed anzi può arretrare, può fare marcia indietro, la percezione che nessuna conquista è definitiva e che ogni fenomeno politico può convertirsi nel suo contrario magari serbando immutata l’esteriorità.
Una notazione non trascurabile infine deve riguardare il linguaggio. Gramsci non usa, nei Quaderni, il gergo politico della sua parte, ma la lingua della scienza e della filosofia del Novecento italiano trasformandola in un linguaggio totalmente originale e cristallino che resiste magnificamente all’usura del tempo: soprattutto perché vuol essere un linguaggio di verità.
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