Un’insurrezione quasi sincronizzata che ha coinvolto molti istituti di pena, da Milano a Roma, da Modena a Palermo, da Padova a Parma, da Foggia a Lecce e Matera. 22 carceri italiane in rivolta, più di dieci morti per overdose da psicofarmaci o soffocamento. Da anni non accadeva nulla del genere nel sistema penitenziario italiano. Dalla metà degli anni Ottanta e dalla riforma della legge Gozzini (che vieta una pena detentiva in violazione dei diritti umani e introduce alcune possibilità per ridurre le restrizioni personali a cui è sottoposto un detenuto) la popolazione carceraria ha sempre trovato il modo per far sentire la propria voce e per affermare i propri diritti. Era possibile evitare quanto accaduto? E’ stato commesso qualche errore dal ministro della giustizia? Come si esce da questa situazione?
La parola a Stefano Anastasia…
Come era facile prevedere, l’emergenza del coronavirus ha squadernato tutti i problemi delle carceri italiane: dal sovraffollamento alle condizioni igieniche, dalla rigidità nell’accesso alle alternative al carcere alla disperazione di una popolazione detenuta senza prospettive di effettivo reinserimento sociale. Questa volta la protesta non è individuale, né silenziosa, non si consuma nel silenzio della propria stanza o attaccati a una bomboletta. Siamo tornati alle occupazioni delle sezioni e dei tetti, come negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, con in più questo tragico risvolto delle morti in infermeria, apparentemente per abuso di farmaci e stupefacenti, spie di una sofferenza e di una dipendenza che il carcere non placa e non guarisce.
Per fortuna, nel momento in cui scriviamo, non ci sono ancora notizie di aggressioni e violenze fisiche, né da parte dei detenuti, né – in maniera reattiva – da parte del personale. Va dato merito ai dirigenti amministrativi e di polizia intervenuti sul campo di aver gestito situazioni difficili evitando che degenerassero, con buona pace dei profeti di violenza che, per fortuna, non rivestono più responsabilità di Governo.
Ciò detto i problemi squadernati dalla protesta sono sotto gli occhi di tutti, amplificati dall’emergenza del coronavirus. L’Amministrazione penitenziaria ha proceduto a tentoni e in maniera contraddittoria, senza dare chiare indicazioni alla periferia e al personale, che spesso ha dovuto inventarsi misure di prevenzione caso per caso. Che senso ha sospendere i colloqui dei detenuti con i familiari se il personale operante in sezione, o comunque a diretto contatto con i detenuti non è provvisto di mascherina idonea a schermare la diffusione del virus? A che serve l’autocertificazione di non avere sintomi se neanche la temperatura viene misurata all’ingresso in carcere? Così siamo partiti, senza vera prevenzione, e allora è comprensibile che i detenuti abbiano potuto ritenere la sospensione dei colloqui con i familiari non una misura di tutela della loro salute, ma una forma di discriminazione nei loro confronti.
Ma il coronavirus ci ha detto che il sistema penitenziario così com’è non regge: troppi detenuti, personale in sofferenza, assistenza sanitaria insufficiente. Mentre scriviamo non sappiamo dell’evoluzione della situazione epidemiologica nelle carceri, ma se – come è realistico che sia – il virus avesse attecchito anche in uno, due, dieci o venti istituti penitenziari, come sarà stato possibile gestire le decine, centinaia, migliaia di casi di isolamento sanitario necessari, per le persone positive e per quelle che fossero entrate in contatto con loro? Difficile immaginarlo nelle nostre carceri sovraffollate. Anche questo è un rischio di un sistema in perenne emergenza, che quando poi se ne aggiunge una dall’esterno il tutto non regga più. E allora la richiesta di diminuire e contenere la popolazione detenuta non è solo la rivendicazione strumentale di alcune centinaia di detenuti che sperano di approfittare della situazione per guadagnarsi anzitempo la libertà, ma una ragionevole proposta per risolvere l’emergenza di oggi e quella strutturale, riportando il carcere a quella extrema ratio della sanzione penale, per i reati più gravi e per i detenuti più pericolosi, su cui la qualità professionale degli operatori penitenziari può esercitarsi nel modo migliore. Ancora non sappiamo se Governo e Parlamento, sotto l’urgenza dell’emergenza, avranno il coraggio e la lucidità per dare la necessaria sterzata al nostro sistema penitenziario, ma sappiamo che di questo c’è bisogno, per il benessere dei detenuti, dei loro familiari, del personale e della comunità esterna, che ha solo da guadagnare da un carcere finalmente capace di adempiere alla propria funzione costituzionale.
Stefano Anastasìa*
*Garante delle persone private della libertà delle Regioni Lazio e Umbria. Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà
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