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Dicembre/2012 - Contributi
Suicidi in Polizia
di Mario Peruzzini - Segr. gen. prov. Siulp Forlì-Cesena

Recentemente due giovani Carabinieri hanno posto fine alla loro esistenza all’interno delle caserme di Santa Sofia e Forlì. Tali vicende, avvenute a breve distanza di tempo, hanno turbato ogni operatore delle Forze di Polizia, richiamando alla memoria altri colleghi che, sempre all’interno dei luoghi di lavoro, hanno compiuto questo gesto estremo. Aldilà delle analisi soggettive di vissuti diversi, un filo comune accompagna questi eventi: un lavoro particolare ed un ambiente di lavoro divenuto anche il rifugio della speranza, quella di trovare una mano amica che fosse in grado di risollevarli. Non possiamo cancellare questo messaggio, dobbiamo farci carico anche degli effetti collaterali che un “lavoro particolare” può produrre, lo stress che ognuno di noi, in ogni momento, purtroppo, accumula.
Marco Ravaioli è un poliziotto di quartiere, delegato del Siulp di questa provincia, dottore e tirocinante psicologo, ha espresso il suo pensiero su queste vicende.
Solo quest’anno l’Amministrazione ha pensato di inserire nell’ambito dell’aggiornamento professionale il tema dello stress da lavoro correlato, quando le organizzazioni sindacali, già da diversi anni, sollecitavano interventi avviando anche iniziative autonome in tante province dove, ancora oggi, manca una figura professionale della Polizia di Stato.
___________________
La notte della cometa

In certe circostanze le parole sono superflue e inadeguate per esprimere ciò che si prova. Forse, solo il silenzio, l’ascolto e la vicinanza sono la forma di comunicazione più appropriata per esprimere il profondo rammarico che la recente morte di due persone, due Carabinieri in servizio nella provincia di Forlì, ha provocato in tutti noi. Il pensiero corre anche ad altri recenti lutti; un viaggio di dolore e sconforto che passa per la Questura di Ravenna, dalla Guardia di Finanza dell’Aeroporto di Forlì e dalla Polizia di Frontiera dell’Aeroporto di Rimini. Che il nostro spirito giunga a tutti coloro che ci hanno lasciato e, in nome dell’organizzazione sindacale che in queste parole rappresento, intendo esprimere con grande rispetto un sincero cordoglio alle famiglie vittime loro malgrado di così tragici eventi. Una volta tanto non si vuole parlare di freddi numeri e statistiche che poco ci dicono dell’uomo.
Ciò che segue non sarà uno scritto asettico ed esclusivamente critico, altresì, le parole e i concetti sono mossi da un sincero amore e un’Ammirazione essenziale per le persone che animate da un sincero spirito di servizio, mettono se stesse e la propria vita a servizio della collettività. Va ricordato che un poliziotto prima di tutto è un uomo, non una macchina per scovare i malviventi, e, come ogni altro individuo, anche chi indossa l’uniforme ha delle fragilità e può essere “in crisi”. Ma la specificità di cui un operatore di Polizia deve essere portatore sano, gli impone un’aggravante di non poco conto, ossia, essere sempre una persona integra e imperturbabile capace di sostenere ogni tipo di problematica gli si ponga. Tuttavia, non è sufficiente evocare la “specificità” spesso attribuita strategicamente agli appartenenti alle Forze dell’ordine per risolvere certe problematiche di natura psicologica. Girarsi dall’altra parte o semplicemente ignorare un problema, non risolve. Possiamo negare, ma così facendo, si rischia di disumanizzare l’individuo avvicinandoci pericolosamente a ciò che il senso comune reputa “folle”. L’essere umano si caratterizza per la sua spiccata socialità e per una raffinata intelligenza che lo differenzia da tutte le altre specie viventi sul pianeta. Ciò nondimeno, anche le emozioni, le paure e l’affettività sono parte integrante della vita. Purtroppo, il clima di genere, ovvero, la cultura informale nelle Forze dell’ordine, veicola l’idea stereotipata connotata dal cliché mascolino, dove il poliziotto è descritto come duro, distaccato, difensore della logica della giustizia, autonomo e oggettivo. La professione del poliziotto è considerata un lavoro che può essere svolto solo da un uomo armato che combatte il crimine e i criminali.
Questo genere di cultura “naive”, all’interno degli ambienti di lavoro, scoraggia la libera espressione delle emozioni, ovvero, mostrare distacco e controllo nei confronti del proprio vissuto emotivo è una componente importante dell’identità dei poliziotti e costituisce anche un’aspettativa sociale molto diffusa nei loro confronti. Così, l’autorità esercitata, dipende dal controllo sulle emozioni, non manifestando i propri sentimenti e mostrandosi forti nei confronti di situazioni difficili. Un poliziotto non può certamente essere una persona fragile o emotivamente instabile, questo sarebbe visto come un segno di debolezza e come un’incompatibilità al servizio attivo. Il “poliziotto modello”, deve essere sempre freddo, sicuro di sé e sprezzante del pericolo. Ma le particelle materiali isolate sono astrazioni, poiché le loro proprietà sono definibili e osservabili solo mediante la loro interazione con altri sistemi.
Queste caratteristiche da “duro”, sono utopiche e possono divenire addirittura frustranti, in altre parole, possono nel tempo trasformarsi in vere proprie gabbie comportamentali poiché negano aspetti integranti e fondamentali della persona. Ammettere di provare paura, avere dubbi, debolezze, crea un certo imbarazzo e viene spesso nascosto come fosse un segreto di cui vergognarsi. Gli operatori di Polizia arrivano in questo modo a sommare al proprio disagio personale ed esistenziale il contatto con situazioni fortemente problematiche e la partecipazione ad episodi drammatici che la loro professione regolarmente gli impone. Spesso si fa finta di non vedere o si preferisce “sperare in bene”. Il fenomeno è nascosto, nessuno ne parla poiché siamo impreparati a queste cose considerate perfettamente normali per ogni altra persona. Nella rutinarietà clinica e nosografica, l’anaffettività viene spesso valutata quale sintomo di disagio, mentre per un appartenete della forza pubblica è altresì un requisito di base. Tra colleghi non è semplice riuscire a trovare un sostegno o un concreto aiuto poiché semplicemente l’organizzazione che li contiene non prevede questa ovvia eventualità. Difatti, non esiste (salvo rarissimi casi) una struttura adeguata ove poter fare una semplice “chiacchierata” senza rischiare di perdere “pistola tesserino” e parte dello stipendio. Ma peggio ancora, in questo “ossimoro esistenziale”, si ha paura di perdere la propria identità professionale e personale. Allora è d’obbligo sottolineare con forza che: non è necessariamente un depresso o uno schizofrenico chi vuol parlare con professionista formato ad accogliere questa naturale esigenza, fatta eccezione per un poliziotto, poiché egli possiede una specificità e soprattutto questa figura istituzionale è nei fatti assente.
Questo elaborato non vuole essere una sterile critica alla struttura interna delle Forze dell’ordine in generale, bensì, un progetto per il cambiamento o quantomeno un spunto su cui lavorare verso un futuro possibile. Quest’obiettivo di rinnovamento è oramai un’esigenza che viene percepita dalla quasi totalità degli appartenenti delle polizie italiane come dall’opinione pubblica. Rifacendoci a dei dati statistici sul fenomeno del suicidio (e del tentato) nelle Forze di Polizia, possiamo dire innanzitutto che il suicidio è sempre e comunque sottostimato nelle statistiche ufficiali. Sarebbe auspicabile per una maggiore conoscenza e studio del fenomeno la costituzione di un osservatorio con la finalità di analizzare il percorso di carriera della persona e valutare l’impatto emotivo delle situazioni del servizio e della vita privata rispetto alle condizioni messe in evidenza all’atto della selezione e dell’incorporamento. Di fatto, dopo l’atto formale della selezione, ogni operatore di polizia è abbandonato a se stesso e alle proprie problematiche. La ricerca scientifica non è in grado, ad oggi, di individuare con infallibile precisione la struttura di personalità e la specifica psicodinamica connessa al suicidio.
Il comportamento suicidario non è mai la conseguenza di un singolo fattore di stress, numerosi fattori intercorrono: psicologici, biologici e sociali. Non vi è nulla di razionale a cui aggrapparsi. Nessun strumento scientifico e nessun ragionamento logico può riferirci con puntualità il motivo per il quale una persona decide di porre fine alla propria esistenza poiché l’animo umano non è facilmente interpretabile e prevedibile. Il suo spirito resta in gran parte inafferrabile. La cosa certa, è che i segnali ci sono sempre. Considerando alcune peculiarità dell’ambiente e dell’attività operativa, possiamo affermare che il lavoro delle Forze di Polizia prevede un intervento professionale in situazioni ad intenso coinvolgimento emotivo a contatto con persone in situazioni drammatiche (con intesi vissuti emotivi d’ansia, di paura o di disperazione). Intervenire sempre in situazioni ad alto contenuto emotivo conduce, a lungo andare, ad uno stress cronico ed un logoramento emotivo che deve essere tenuto in debita considerazione.
Non è possibile prevedere tutto, tuttavia, si può fare il possibile per prevenire. Negare il problema, a mio giudizio (e non solo in quanto esiste una nutrita letteratura in merito), equivale ad un comportamento realmente “folle”. In merito, sensata pare la definizione che Einstein diede della follia, ossia: “Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi”.
Forse è giunta l’ora di voltare pagina. L’uomo non dove essere considerato un mezzo bensì un fine!
Marco Ravaioli - Delegato Siulp Forlì-Cesena

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