Che resta del delitto d’onore nel nostro sistema
giuridico? Presumibilmente, un retaggio difficile
da superare. Lo abbiamo domandato
alla professoressa Antonella Massaro, ricercatore
confermato di Diritto penale presso la Facoltà
di Giurisprudenza dell'Università "Roma Tre”
Cosa resta del delitto d’onore nel nostro sistema giuridico? Presumibilmente un retaggio ancora difficile da estirpare, lo abbiamo domandato alla professoressa Antonella Massaro, ricercatore confermato di Diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, autrice di diverse pubblicazioni in materia di Diritto penale, riguardanti, tra l’altro, la sistematica del reato colposo, il principio di affidamento nello svolgimento dell’attività medica in équipe, il rapporto di causalità, il principio di precauzione e i reati a movente culturale o religioso.
Professoressa Massaro, quanto rimane del 'delitto d'onore' nel sistema giuridico vigente in Italia?
Noi abbiamo una fattispecie che puniva l'omicidio e le lesioni per cause d'onore, abrogata nel 1981. Un'abrogazione tardiva e al contempo relativamente recente se la osserviamo nella cronologia della nostra storia giuridica. Qualcuno scrisse efficacemente che si era arrivati a tagliare un vero e proprio ramo secco della nostra legislazione penale, perché quella fattispecie incriminatrice non corrispondeva più al modello socioculturale che poteva dirsi maggiormente diffuso nel territorio italiano complessivamente inteso. Ovviamente, però, non basta il colpo di penna di un legislatore per modificare delle realtà radicate, si pensi soprattutto - senza voler cadere in facili stereotipi – alle realtà del Sud Italia.
Si è iniziato a domandarsi in che modo potesse acquisire rilevanza penale un movente fino a prima ricondotto a cause d'onore, ad esempio l'omicidio di una donna per gelosia per lavare l'onta che un'eventuale relazione illegittima avrebbe gettato sul marito o sull'intera famiglia.
La giurisprudenza sembrerebbe essere abbastanza compatta nell'escludere che a un omicidio commesso per causa d'onore possa riconoscersi una qualsiasi rilevanza attenuante riguardo alla responsabilità penale.
Quale era la pena prevista per il delitto d'onore prima del 1981?
Il vecchio omicidio per causa d'onore era punito con delle pene veramente irrisorie, e soprattutto se confrontate con quelle dell'omicidio considerato comune.
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. [art. 587 del Codice penale].
C'è giurisprudenza piuttosto recente, anche del 2007, che in maniera categorica ed esplicita riconosce come la causa d'onore affondi le proprie radici in un modello socioculturale ormai arcaico, che non può più trovare riconoscimento né rilevanza penale e che dunque non può comportare, rispetto conseguenze sanzionatorie, una attenuazione della responsabilità penale.
Il sistema giuridico sembra quindi essere strettamente legato al contesto socioculturale. Quale dei due si adatta alle mutazioni dell'altro.
È molto difficile ritenere che il diritto penale riesca ad influenzare in maniera determinante l'evoluzione dei costumi, si limita piuttosto a recepire delle trasformazioni profonde che già si siano radicate a sufficienza nel contesto socioculturale di riferimento. Sempre più spesso e in maniera a volte discutibile, si punta su un uso simbolico del diritto penale che riesca soprattutto a comunicare determinati messaggi, svolgendo una funzione "educativa". Penso ad esempio ai dibattiti suscitati dall'introduzione nel nostro Codice penale del cosiddetto stalking, ovvero atti persecutori. Tale fattispecie risulta significativa sotto molti aspetti, oltre a una statistica riduzione di condotte di violenza sulle donne si sta rivelando uno strumento per intervenire su condotte prodromiche e qualificate come ossessive nei confronti della donna che statisticamente porterebbero nella stragrande maggioranza dei casi a casi di omicidio o lesioni gravi. Introducendo tale fattispecie abbiamo risposto ad un'esigenza che ormai da tempo viene avvertita a livello europeo e internazionale.
L'Italia può considerarsi un Paese multiculturale. In che modo il nostro sistema giuridico si confronta coi reati di questo tipo, legati a differenti modelli culturali?
È curioso come quel discorso che sembrava avessimo relegato negli scaffali dell'archeologia giuridica stia in qualche modo ritornando, seppur in veste differente, a fronte di reati commessi da parte di soggetti immigrati che si sono trasferiti da più o meno tempo sul territorio del nostro Paese. Anche in questo caso, come avveniva in passato, ma in condizioni differenti, c'è la necessità di prendere atto che il modello culturale al quale si ispira colui che ha commesso un determinato reato è diverso dal modello culturale al quale si ispira il nostro ordinamento giuridico; in particolar modo il nostro ordinamento giuridico penale.
Per portare l'esempio più lampante basti pensare alla concezione della donna nell'Islam. Se un soggetto commettesse atti per noi classificabili come maltrattamenti in famiglia nei confronti del coniuge e poi, come strategia difensiva, richiedesse di tener conto della diversità di modello culturale e quindi delle ragioni di tipo psichico che hanno determinato la commissione di quel reato, il nodo centrale consisterebbe nel verificare se e fino a che punto questa diversità di modelli culturali possa essere tenuta in considerazione.
È molto difficile affrontare la questione da un punto di vista solo e squisitamente giuridico, anche perché spesso tale problematica viene ricondotta tout court all'alternativa tolleranza-intolleranza. Per fare un esempio, il modello alla francese viene considerato tradizionalmente di tipo discriminatorio con leggi come la proibizione del velo nell'ambito delle strutture pubbliche, mentre il modello all'inglese che si confronta col multiculturalismo cercando di "valorizzarlo" viene considerato un ordinamento giuridico di tipo tollerante.
Come si colloca in questo senso l'ordinamento italiano?
Molto difficile dirlo. Noi abbiamo dal punto di vista penale degli interventi che si prestano ad essere interpretati in maniera molto molto diversa tra loro e che potrebbero suffragare letture differenti.
Se dovessimo dare una linea di tendenza generalizzata, la nostra giurisprudenza – soprattutto quella della Corte di Cassazione – è piuttosto compatta nell'escludere che, quando vengano lesi diritti fondamentali come la vita o l'integrità fisica, la diversità culturale che motiva la commissione di un determinato reato possa escludere o attenuare la responsabilità. Ci sono state addirittura sentenze recenti che hanno ragionato in senso opposto: non solo un eventuale modello culturale a cui ci si ispira per commettere un reato non può essere considerato un'attenuante ma potrebbe determinare un aggravamento della responsabilità penale di un soggetto.
Qual è la sua opinione riguardo a un tema così delicatamente attuale?
Ripeto, è molto difficile confrontarsi con strumenti unicamente di tipo giuridico con materie di questo tipo. La mia personale opinione è che di fronte alla possibile offesa a diritti fondamentali non è ammissibile alcun arretramento di tutela neanche volendolo giustificare con la necessità di tener conto di modelli culturali diversi dal nostro. Mi rendo conto che una posizione del genere può essere superficialmente giudicata apodittica e considerata espressione di quei modelli assimilazionisti che qualcuno prima di me ha efficacemente sintetizzato nel motto "Paese che vai, reato che trovi". Mentre su alcune pratiche come cicatrici rituali o lesione dell'integrità fisica - che non superi il livello delle percosse – si potrebbe ragionare senza dare soluzioni generalizzate e con riconoscimenti giuridici di diversità culturale, quando si passa il confine della tutela dei diritti fondamentali come appunto [...] l'omicidio per causa d'onore, mi sembra che ci siano pochi spazi per riconoscere al movente culturale una qualche rilevanza in questo senso.
|