Anni di ricatti, botte e minacce
di morte. La testimonianza di una donna
che è riuscita a sottrarsi al marito
e a mettere in salvo
i suoi bambini, tra il Nord Africa e l’Europa
Quando Linda racconta di aver incontrato il suo ex marito in aeroporto, per un attimo sembra l’inizio di una di quelle commedie americane dal classico lieto fine. Lui era sull’aereo di sua sorella, di ritorno in Algeria, mentre lei aspettava agli arrivi. In un copione hollywoodiano i due protagonisti si sarebbero incontrati tra la folla, avrebbero capito dal primo istante che si sarebbero amati per sempre e, seppure dopo tante peripezie, sarebbero finiti insieme, felici e contenti.
A Linda, però, le cose non sono andate così bene. Mentre racconta la sua storia, rannicchiata sul divanetto di un centro antiviolenza, sembra un’amica che non vedi da un po’. E’ una donna molto bella e non si fa fatica a crederle quando confessa che tanti uomini nel suo Paese le hanno chiesto la mano. Lei avrebbe voluto sposare un ragazzo tunisino con cui era fidanzata da quattro anni, ma quando ha scoperto che lui frequentava ancora una sua ex, ha mandato a monte il matrimonio. Perché, afferma perentoria, se uno dice una bugia una volta lo farà sempre. La fierezza del suo guardo si rompe per un attimo quando parla di quell'uomo che per mesi le ha tolto il sonno e la fame. Lasciarlo, però, è stata una scelta inevitabile, logica, perché, afferma con convinzione, è meglio soffrire nel presente che essere una moglie infelice nel futuro. Poi è arrivato l’uomo dell’aeroporto e a quel destino, purtroppo, non è riuscita a sfuggire.
Linda viene da una cittadina dell’Algeria centrale. E’ l’ultima di sette fratelli, la più piccola della casa. Sua madre, racconta, è una donna molto forte, una che ha combattuto la guerra contro la Francia, che è riuscita a mandare avanti la famiglia da sola, anche quando suo marito non c’era più. A lei, un giorno, si presentò l’uomo che era sull’aereo di sua sorella, accompagnato dalla madre. Linda lo conosceva a malapena, lo aveva visto forse un paio di volte e rimase a bocca aperta quando sentì che era venuto fin lì per chiedere la sua mano. Sua madre, forse vedendo lo smarrimento negli occhi della figlia, respinse al mittente la richiesta e Linda tirò un sospiro di sollievo.
L’uomo dell’aeroporto era più grande di lei e viveva in Italia già da qualche anno. Aveva un lavoro e una casa, due requisiti che, secondo i fratelli di Linda, fanno di un uomo un marito ideale. Per questo, quando si ripresentò a casa loro per chiedere nuovamente la mano di Linda, lei non ebbe scelta. Dice rassegnata che, nel suo Paese, se una donna sola rifiuta continuamente le proposte di matrimonio che le vengono fatte, probabilmente nasconde la più grave delle vergogne, la verginità perduta. Per questo si è dovuta sottoporre ad una visita medica che certificasse la sua integrità e che la consegnasse al suo futuro marito perfettamente illibata.
Linda si sposa. Pochi mesi dopo la cerimonia, suo marito torna a Venezia, promettendole di sbrigare al più presto le pratiche burocratiche per farla entrare in Italia. Nel frattempo, come conviene ad una neosposa, si trasferisce dai suoceri. Si sveglia tutti i giorni alle 5 del mattino per fare i lavori domestici e, anche quando scopre di essere incinta, le vessazioni della famiglia acquisita non sembrano diminuire. Parla di una vita che suona come una prigionia, di una gravidanza vissuta in piena solitudine, del desiderio di raggiungere suo marito e di essere una famiglia normale. Nelle parole di Linda si sente tutta la forza di chi combatte, nonostante tutto, per avere una vita migliore: non ha sposato l’uomo che amava, ma almeno aveva la possibilità di andare in un Paese nuovo, di sperimentare una libertà sognata, di ricominciare. Anche quando i mesi passano e di quei documenti non c’è ancora traccia, quando le promesse del marito si sbriciolano e diventano difficili da credere, Linda ancora spera e rimane aggrappata alla sua forza, come sua madre, che ha combattuto una guerra.
Il suo desiderio più grande era che il figlio venisse al mondo tra le braccia di suo padre. Ma arriva il giorno del parto e Linda è in sala operatoria da sola. Passano tre mesi dalla nascita del bambino prima che suo padre riesca a prendere un aereo e tornare in Algeria. Finalmente conosce suo figlio, ma dopo poco tempo torna in Italia, lasciando di nuovo sua moglie in quella casa che non le apparteneva. Linda, però, non si perde d’animo: deve lottare anche per suo figlio e questo sembra darle una forza e una determinazione rinnovate. Dai primi mesi nota qualcosa di strano in quel bambino. Non piange mai, non si lamenta, non reagisce agli stimoli e rimane tutto il giorno con lo sguardo appeso nel vuoto, spento.
Linda aveva un’altra sorella, che partì con gli zii per la Francia quando era molto piccola. Avevano perso da poco una bambina e la madre acconsentì ad affidare loro una delle sue figlie, pensando, tutto sommato, che fosse per il suo bene. Avrebbe vissuto una vita migliore, in un Paese in cui avrebbe avuto la possibilità di studiare. Quando compì diciotto anni, questa sorella tornò in Algeria. Linda racconta dello stupore di sua madre nel vedere quella che ricordava una bambina ormai grande, con i capelli tinti di biondo e gli abiti “moderni”. Linda si sente subito molto legata a quella sorella che aveva visto solo in fotografia e si accorge ben presto che qualcosa in lei non va. «Era come se non appartenesse a nessun luogo», dice. E infatti inizia a fare la spola tra la Francia e l’Algeria, senza trovare pace, sempre più smarrita, finché decide di restare nel suo Paese d’origine, con la sua vera famiglia. Vedendola profondamente infelice, però, la madre la porta dai curatori dei villaggi vicini, convinta che una sorta di spirito maligno si sia impossessato di lei. La situazione non fa che peggiorare e quella ragazza è sempre più triste, chiusa nell’unico luogo che sente proprio, il suo silenzio. Nonostante le resistenze della famiglia, Linda riesce a convincere la madre a rivolgersi ad uno psicologo. Non ci sono spiriti né demoni, solo un brutto male che si chiama depressione. Con le medicine prescritte il suo umore sembra stabilizzarsi. Addirittura, quando scopre che sua sorella Linda è incinta, sembra rinascere. A pochi giorni dal parto, però, quando tutto il resto della famiglia è a un matrimonio fuori città, scivola dalla finestra, cadendo dall’ultimo piano del palazzo. Linda era giù, con una stecca di sigarette in mano che aveva comprato per lei. Quando lo racconta, immagini tutto il dolore di quello schianto esploderle nella pancia. Quel giorno il suo corpo deve essersi fermato: nonostante suo figlio dovesse nascere in quelle ore, aspettò più di 10 giorni prima di venire al mondo.
Linda vive per due anni in una famiglia che le è profondamente ostile, lontana da un marito che non la vuole, ma che lei si sforza di amare. Il suo bimbo cresce, ma è sempre più assente e non vuole saperne di iniziare a parlare. Vorrebbe portarlo da uno specialista, ma la suocera si oppone fermamente. Tuo figlio, le dice, ha ereditato la tara della follia, quella che ha spinto giù dalla finestra tua sorella, quella che hai dentro anche tu. La depressione è una colpa ereditaria, un difetto di fabbrica: la famiglia di suo marito non fa che ripeterglielo, trattandola come un essere contagioso. Lei cerca l’appoggio del marito, ma lui le dice che il bambino non ha nulla, che è solo pigro e che nel tempo avrebbe iniziato a reagire. Linda non ce la fa più, vuole andarsene da quella prigione, vuole sottrarsi agli insulti e al disprezzo con cui viene trattata, vuole portare suo figlio in Italia, dove può crescere con entrambi i genitori. Non si arrende e, alla fine, riesce a salire su un aereo per Venezia.
In una nuova città, accanto al marito, la sua vita sembrava finalmente ricominciare. Linda inizia a lavorare come donna delle pulizie, porta suo figlio al parco e comincia a farsi delle amicizie. La condizione del bambino, però, non migliora. Ancora chiuso nel suo silenzio, distante, è in un altrove che sua madre proprio non riesce a raggiungere. Il padre, dopo il primo mese di attenzioni, sembra disinteressarsi sempre di più alla sua famiglia. Lavora tutto il giorno e spesso non torna a casa la sera, raccontando alla moglie di essersi addormentato sul treno e di essersi risvegliato in una stazione lontana. La scusa è sempre quella, giorno dopo giorno. Linda è di nuovo sola, come se quella condizione se la portasse dietro in ogni suo spostamento. Non sa come aiutare suo figlio e il marito, nei rari momenti in cui è presente, la accusa di avergli trasmesso la follia che porta nel dna. Un giorno, però, mentre è al parco, una donna le racconta che anche suo figlio è così, ma non perché sia pazzo, ma solamente perché è un bambino autistico. Linda prende coraggio e, andando contro la volontà del marito, fa visitare il figlio al medico che quella donna le aveva consigliato, confermandole la diagnosi di autismo.
Intanto, il marito di Linda diventa sempre più sfuggente, come se avesse qualcosa da nascondere. Lei fa domande e pretende la sua presenza, il suo supporto. Lui le dice di aver perso il lavoro e che si arrangia facendo l’imbianchino, per questo è stanco e spesso si addormenta sul treno. Linda, allora, si dà da fare e trova lavoro come donna delle pulizie in una banca. Le fanno addirittura un contratto e a lei sembra che le cose non possano andare meglio di così. Ma quando lo dice la marito, lui va su tutte le furie: la picchia, la insulta e minaccia di portarle via il bambino se non si fosse licenziata immediatamente. Piegata dai ricatti e dalle botte, Linda chiede le dimissioni. Non capisce, però: pensava di dare un contributo economico alla famiglia, di alleviare la fatica del suo compagno. Finché un giorno arriva una lettera, in cui legge che avevano pochi giorni di tempo per lasciare la casa in cui vivevano. Da mesi, infatti, il marito non pagava l’affitto. Eppure i soldi li aveva, considerando che Linda consegnava puntualmente tutti i suoi guadagni nelle sue mani. Lentamente, davanti agli occhi, si compone un quadro sempre più spaventosamente chiaro. Suo marito non la voleva lì e cercava tutti i modi per impedirle di trovare una stabilità, di radicarsi in quella città da cui sperava fuggisse per tornare in Algeria. Le stava rendendo la vita un inferno per togliersela dai piedi: la lasciava morire di fame, non tornava mai a casa, la picchiava e non faceva altro che ripeterle che lei era una pazza, proprio come sua sorella, e che aveva generato un figlio “corrotto”. Linda, però, di tornare a vivere con la famiglia di suo marito non ne voleva sapere. «Era una guerra», mi dice «e io dovevo assolutamente vincerla». Non era facile, però, andare avanti così, contrastata in tutti i modi dal marito, sola, con quel bambino fragile, che aveva bisogno di cure particolari e costose, lontana da sua madre e dalla sua famiglia.
Un giorno una sua amica le porta la spesa a casa. Vedendo che nessuno veniva ad aprirle, usa il mazzo di chiavi che Linda le ha dato per le emergenze ed entra. Pensa che non ci sia nessuno, sistema il latte nel frigo e i biscotti nella dispensa. Il suo sguardo scivola per caso in un angolo, vicino al bagno. Linda è a terra, svenuta chissà da quanto tempo. Al suo risveglio si trova nel letto di un ospedale, nel reparto di psichiatria. Un medico le dice che ha un brutto esaurimento nervoso, che la sua mente ha ceduto e il suo corpo con lei. Deve rimanere lì per un po’, le dicono, per rimettersi in sesto, per il bene di suo figlio, che ha bisogno di una madre che stia bene. Tra quelle lenzuola bianche, sentendo le urla provenienti dalle stanze accanto e ingoiando medicine, Linda si riempie di disperazione. Racconta ai medici la sua storia, ma per l’ennesima volta si sente trattata come una povera pazza. Il marito non va mai a trovarla e non le porta il figlio perché, le dice, non vuole che la veda in quelle condizioni.
Linda entra ed esce dall’ospedale per un bel po’. Rimane incinta per una seconda volta e deve interrompere i farmaci. Il suo umore peggiora e il marito fa leva su tutta la sua fragilità, sfruttando quel suo momentaneo svantaggio per convincerla ad andarsene una volta per tutte. Quando nasce sua figlia, però, Linda ritrova la forza di lottare. Non è una pazza, è solo una donna che soffre, che nella vita ha sempre dovuto fare i conti con una violenza brutale, dalla quale però non si è mai fatta annientare. Si vede in quello sguardo fiero, lo sguardo di chi cerca senza pace la felicità come se fosse una vocazione, sapendo che esiste pur non avendola mai sperimentata. Suo marito si rende conto che non può vincere contro quell’istinto di sopravvivenza così prepotente e allora decide di punirla in un altro modo.
Nella cultura di Linda il divorzio non è una scelta facile, soprattutto non è una scelta che spetta alle donne. Sulle donne, però, ne ricade la colpa e la vergogna. Tornato in Algeria per formalizzare la separazione dalla moglie, quell’uomo sconfitto consegna la sua vendetta nelle mani dei fratelli di Linda. Il motivo per il quale ha chiesto l’annullamento del matrimonio, infatti, non è solo la “follia” di quella donna, ma le sue cattive abitudini. L’accusa di essere una prostituta, di andare a letto ogni sera con un uomo diverso, di essere un’alcolizzata e una drogata, di aver abbandonato i figli per condurre una vita nel peccato. I fratelli di Linda credono alle parole del loro cognato e per lei ha inizio un nuovo inferno. Non fanno altro che picchiarla e tentano addirittura di ucciderla: per due anni vive segregata in casa con i suoi bambini, sotto l’attento controllo dei familiari. Linda è quasi rassegnata a quella vita, accusata sempre di essere quello che non è: una pazza, una cattiva madre, una puttana. Finché accade qualcosa di davvero terribile.
Capitava, ogni tanto, che i suoi bambini dormissero a casa della famiglia paterna. Un giorno, lo zio riportò a casa suo figlio e Linda notò nel bambino qualcosa di strano. Non sembrava contento di vederla e non si lasciava toccare da nessuno. Nascosto nel bagno, urlava disperato, senza riuscire a spiegare cosa gli fosse accaduto. Linda gli toglie i vestiti per fargli un bagno caldo e si accorge che quel piccolo corpo è stato violato. Quell’urlo dopo anni di silenzio le dà una forza che neanche lei sapeva di avere.
Linda riesce a scappare e a portare il bambino da un medico, che le conferma l’orribile sospetto che aveva: suo figlio era stato abusato sessualmente dallo zio. Non può più restare in quel Paese, deve fuggire ancora, lontano, per mettere al sicuro i suoi bambini e cercare di salvare, per quanto possibile, quello che rimaneva della loro infanzia. Scappa in Turchia e poi in Grecia. Vive nelle case per i rifugiati, clandestina, con i propri bambini. Ma anche qui la vita non è facile, i figli non riescono ad adattarsi e il più grande continua ad avere bisogno di cure speciali. Decide allora di tornare in Italia e grazie ad alcuni amici conosce una donna avvocato che, sentita la sua storia, vuole aiutarla. La mette in contatto con il centro antiviolenza Sos Donna e inizia un lungo percorso di integrazione e di solidarietà.
Linda ottiene l’asilo politico e denuncia alla Questura le violenze alle quali il marito l’ha sottoposta per anni: finalmente qualcuno le crede.
Il Tribunale dei minori le ha concesso l’affidamento dei bambini ed ora ha davvero la possibilità di ricominciare. La strada è molto lunga, non solo sul piano legale e burocratico. Lo staff di Sos Donna le ha trovato una stanza in un centro di accoglienza, dove vive insieme ai suoi figli. Linda ha conosciuto altre donne come lei, ha trovato il sostegno di tante persone che la stanno aiutando a ricostruirsi una vita. Al momento dei saluti lei ha un gran sorriso. «Tutto andrà bene», dice. Ed è giusto crederci.
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