Un fenomeno che sembra aver cambiato volto pur continuando a proliferare, creando danni enormi alle economie locali e nazionali. Il racket procura ben 4,5 miliardi di danni suddivisi in esigue somme di denaro ed estorte in attività private medio piccole
Il meccanismo di sopravvivenza di ogni struttura vivente consiste nella capacità di mutare e adattarsi a nuove condizioni circostanti nel più breve tempo possibile. Purtroppo per il nostro Paese, tale principio è valso per il peggiore dei sistemi, quello del racket, che attanaglia e svilisce da decenni in particolar modo l'Italia centro meridionale, muovendo annualmente circa centocinquanta miliardi di euro, cifra pari al 7% del Pil. In cosa consiste tale cambiamento? Con la profonda crisi in corso in gran parte del continente, Italia compresa, imporre il pizzo ad un'azienda equivarrebbe a contribuirne alla chiusura, innestando così un meccanismo controproducente per l'organizzazione criminale che vedrebbe i propri guadagni interrompersi in seguito alla sparizione dell'azienda colpita. Il meccanismo del racket subisce quindi un mutamento formale ma non sostanziale; alle estorsioni forzate periodiche di denaro si sostituiscono imposizioni di assunzioni, collaborazioni forzate con ditte subappaltatrici o obbligo di ricevere forniture da determinate fonti. Tali soluzioni permettono al racket non soltanto di sopravvivere, ma di mescolarsi in modo sempre più subdolo e irreversibile a meccanismi di legalità tramite il riciclo di denaro, rendendo la scia di denaro sporco meno tracciabile e sgonfiando il numero di denunce (da migliaia a poche centinaia negli ultimi anni), complice anche la crescente sfiducia da parte degli imprenditori nei confronti dello Stato. Ad alzare la voce contro il fenomeno stagnante è stato il coordinatore della Rete della Legalità, Lorenzo Diana, ex componente della Commissione antimafia, la cui relazione ha rappresentato al contempo un manifesto anti racket e una critica, diretta ma costruttiva, ad una Istituzione Stato i cui sforzi risultano ancora evidentemente insufficienti; ne è un chiaro esempio la proposta di conferire alla lotta al racket una valenza nazionale e non circoscritta soltanto al mezzogiorno come testimonia l'istituzione della figura del ‘Garante per la sicurezza delle imprese al Sud’ realizzata dal Ministero dell'Interno e Confindustria il 12 settembre del 2007. Alcune proposte In questo triangolo delle Bermuda dell'economia italiana, lo Stato e i cittadini risultano i lati meno comunicanti a vantaggio delle mafie che prosciugano non soltanto enormi quantitativi di risorse di denaro e non solo, ma anche e soprattutto la fiducia degli imprenditori nelle Istituzioni il cui tramite sono le Forze dell'ordine, spesso e volentieri messe in condizione di non poter intervenire al meglio per contrastare il fenomeno. A comprendere l'entità del problema è Luigi De Sena, ex prefetto di Caserta e Reggio Calabria e attuale vice-presidente della Commissione antimafia, che nelle sue dichiarazioni sottolinea la totale inadeguatezza dello Stato nel riuscire ad essere solidale con coloro che denunciano la presenza di aggressioni criminali, fornendo loro scarsa tutela e considerandoli addirittura un peso al termine della funzione di testimone di giustizia. Oltre alle critiche, senza dubbio atte a costruire piuttosto che ad alimentare processi di populismo e roboante demagogia, dalle Istituzioni arrivano proposte chiare e decise dallo stesso De Sena che suggerisce l'emendamento di una legge che preveda dei privilegi nell'ambito degli appalti e dei subappalti verso l'imprenditore che denuncia, o dal leader dell'Idv Antonio Di Pietro che pragmaticamente elenca tre elementi: «uomini, mezzi e risorse» da infoltire quanto prima nelle zone più a rischio del territorio. La enorme quantità di risorse economiche non passa soltanto per grandi cifre, anzi, gran parte dei 4,5 miliardi di danni provocati dal racket sono da individuare in soprusi legati a cifre singole a dir poco irrisorie estorte in luoghi privi di mura, come scriveva lo scorso 21 febbraio Vincenzo Iurillo sul sito del Fatto Quotidiano: «È cambiato anche il modo di chiedere i soldi. I ‘signori’ si presentano con un volto morbido, quello della collusione. Sanno che agendo così scongiureranno forme di allarme sociale e di ribellione. Che comunque spesso, purtroppo, passano sotto silenzio o in tono minore. Come la curiosa e clamorosa protesta degli ambulanti abusivi del mercato rionale di via Mancini, a Napoli. Costoro hanno scioperato contro l’aumento della ‘tangente’: era salita a 100 euro a settimana, rispetto alle consuete 20 pagate fino a dicembre scorso». Un'altra istituzione creata con lo scopo di tutelare la legalità per le imprese è SOS impresa, associazione ad estensione nazionale il cui presidente, Lino Busà, ha presenziato per il XIII rapporto a Reggio Calabria, capoluogo di un'altra regione fortemente colpita dal fenomeno del racket. Come racconta Anna Foti nell'articolo dello scorso 4 maggio sul sito di SOS Impresa, all'appuntamento, promosso dall'associazione, hanno presieduto figure importanti ed autoritarie nell'ambito della lotta alla mafia in tutte le sue forme, come Rocco Raso - imprenditore di Cittanova che con altri undici imprenditori fondò negli anni Novanta, Acipac, una delle prime associazioni antiracket d’Italia, la prima in provincia di Reggio con sede e anima proprio a Cittanova – il sindaco di Reggio Calabria, Demetrio Arena che unitamente al prefetto di Reggio, Vittorio Piscitelli, al procuratore aggiunto della Dda reggina, Michele Prestipino, al presidente della Camera di Commercio Lucio Dattola ed al vice presidente della Giunta Provinciale di Reggio, Giovanni Verduci, ha contribuito all’incontro moderato da Antonino Marcianò, presidente di Confersercenti Calabria, dichiarando di non poter «delegare alla sola magistratura e alle Forze dell'ordine il compito di scardinare questo circuito vizioso» in uno scenario che vede 15 mila aziende su 200 mila colpite dal fenomeno del racket nella regione Calabria. Come evidenziato da De Sena, comunque, il racket è un fenomeno presente non soltanto nelle zone centrali e meridionali della penisola; da anni i clan hanno spostato le proprie attività illegali nelle regioni del Nord la cui ricchezza e scarsa abitudine a fronteggiare fenomeni di questo tipo hanno contribuito a creare un terreno fertile per la proliferazione dell'illegalità. A testimoniarlo è Don Marcello Cozzi, responsabile del progetto SOS giustizia libera, iniziativa nata per solidarizzare con le vittime e le loro famiglie, offrendo loro un conforto ed una valvola di sfogo allo scopo di esortarle a denunciare le estorsioni subite. Ma è davvero questa la soluzione più efficace? Stretti nella morsa di un silenzio generato da paura e omertà, molti imprenditori si ritrovano costretti, loro malgrado, a muoversi a stento e con equilibrio sempre più precario lungo una fune che corre sottile come il confine tra una tutela della incolumità subordinata ad un compromesso forzato quanto illegale e una denuncia a voce alta, il cui riflesso rischia di essere l'eco sordo di un grido di aiuto una volta abbandonati dalle istituzioni e posti conseguentemente alla mercé dei malfattori. Conclusioni Al processo di mutamento delle logiche economiche si è adeguata troppo in fretta una mafia sempre più lontana dai rifugi nell'entroterra, e dai connotati sempre più simili a quelli di una multinazionale che inizia a infilare i tentacoli persino nella rete della legalità; le aziende subappaltatrici con le quali la mafia costringe gli imprenditori a collaborare sono guidate da persone consapevoli di tali processi ai vertici, ma i dipendenti di tali aziende sono spesso lavoratori onesti e inconsapevoli del meccanismo oleato che stanno contribuendo ad alimentare. Permettere a tale fenomeno di proliferare avrebbe come conseguenze non solo gli enormi (ed esponenziali) danni alle economie locali e nazionale ma anche e soprattutto la sempre minore identificabilità di organizzazioni mafiose in meccanismi basati su schemi via via meno piramidali e sempre più circolari in cui le aziende colpite saranno ogni giorno meno distanti da quelle colluse, aumentando così il rischio di affiancare ad una vittoria contro la mafia, la precarizzazione di centinaia di lavoratori onesti e inconsapevoli.
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