Dodici rinvii a giudizio emanati dalla Procura di Palermo e il caso sul “patto” tra Stato e mafia esplode tra mille polemiche. È un falso allarme o siamo finalmente vicini alla verità?
Sembra una bufera che si riaccende a venti anni di distanza e, invece, fa parte di un iter giudiziario che non si è mai interrotto. Il problema della “trattativa” tra Stato e mafia è tornato alla ribalta, trascinandosi dietro vecchie e nuove ombre. È “tornato” e, inevitabilmente, è oggetto di discussioni e polemiche, di fronte alle quali l’opinione pubblica può solo assistere, inconsapevole, in balia di opinioni contrastanti e di parte che gettano ancora più dubbi su questa oscura vicenda che, di recente, si è allargata ad un altro tema scottante come quello delle intercettazioni, in merito alle quali è stato tirato in ballo anche l’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Di certo ha contribuito la “notizia”, arrivata dalla Procura di Palermo, a far scoppiare, a livello mediatico, il caso: 12 nomi eccellenti, tra esponenti politici e boss mafiosi, risultano indagati per minaccia a un corpo dello Stato o per falsa testimonianza. Nomi importanti, ma non nuovi ai giudici, che forse hanno finalmente l’occasione per far luce su quel tragico biennio 1992-94, quello che per la storiografia più recente segnò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica italiana. Cos’è questa “trattativa”? Veramente lo Stato è dovuto scendere a patti con la mafia? E perché? Un’ipotesi da molti avanzata è che il patto era già preesistente e che tale era rimasto fino ai primi anni ‘90. Senza dover ripercorrere, infatti, la storia di tante altre vicende giudiziarie (che comunque mai hanno trovato risposte concrete nei tribunali), con la fine dell’ultimo Governo Andreotti, qualcosa si deve essere interrotto, inceppato, qualcosa deve aver fatto saltare gli equilibri con Cosa nostra. È quasi un “azzardo” cercare un filo logico negli avvenimenti di quegli anni (alcune storie assumono le caratteristiche da “romanzo criminale”, più adatte al genere fiction che a quelle di un procedimento giudiziario) ma, probabilmente, un primo segnale di rottura fu l’omicidio di Salvo Lima, parlamentare Dc, esponente della corrente andreottiana (in precedenza di quella fanfaniana), avvenuto nella sua Palermo il 12 marzo 1992. I suoi rapporti con alcuni esponenti di Cosa nostra sembrarono trovare conferma anni dopo nel “processo Andreotti”, ma poi non è stato mai definitivamente dimostrato un suo ruolo di tramite e garante di quella “trattativa” che, nel 1992, probabilmente non era neanche più in piedi. La cronologia degli eventi sembra confermarlo. Negli anni ’80, a Palermo, qualcosa era cambiato: lo Stato, per merito di un pool di giudici guidati da Antonino Caponnetto (con Falcone e Borsellino al seguito) aveva inferto, per la prima volta, un colpo pesante alla mafia. Al “maxiprocesso” del 1986 ci furono 360 condanne, tra cui 19 ergastoli. Un colpo pesante, non mortale però: troppe, infatti, saranno poi le condanne non confermate nei successivi gradi di giudizio. Cosa nostra, nel frattempo, aveva già cominciato a mettere in moto la sua controffensiva, con l'omicidio del magistrato Antonino Scopelliti nell'agosto del 1991 e, a seguire, appunto, con l'omicidio di Salvatore Lima. Era l’annuncio dei tragici avvenimenti successivi, quelli della primavera del 1992. La strage di Capaci. Un tratto dell'autostrada imbottito di tritolo. Per il suo più pericoloso nemico la mafia fece le cose in grande. Con Giovanni Falcone morirono la moglie e tre uomini della scorta. L'indignazione attraversò tutto il Paese, Palermo esplose di rabbia. Fu proprio in quel tragico 23 maggio 1992 che iniziò la storia della presunta “trattativa”. Infatti, mentre lo Stato, quello legittimato ad agire, rappresentato da giudici come Paolo Borsellino, si preparava a una guerra ad oltranza, altre figure “istituzionali” (è l’ipotesi investigativa) probabilmente cominciarono a muoversi in un’altra direzione: trovare un “accordo”, per fermare le stragi. Possono essere accadute tante cose nei due mesi, che separano la “strage di Capaci” dalla “morte annunciata” di Paolo Borsellino e della sua scorta in via d'Amelio. Ci furono dei contatti con Cosa nostra? Da più parti si è indicata la figura del democristiano corleonese Vito Ciancimino, come tramite tra Stato e mafia. Che l'ex sindaco di Palermo abbia sempre mantenuto legami con personaggi come Provenzano è stato confermato anche dal figlio Massimo. Ma è proprio con Ciancimino jr che poi la storia si complica: tre anni fa è spuntato fuori il “papello”, il foglio originale con le 12 richieste fatte dalla mafia allo Stato per fermare le stragi. È un falso? Ciancimino jr sostiene di essersi tolto un peso (anche se per farlo ha atteso fino al 2009). Una cosa è certa. In fondo all'elenco di quelle richieste, tra le quali spiccano la revisione della sentenza del famoso “maxiprocesso” e l'annullamento dell’art. 41 bis della legge penitenziaria, vi è il nome del generale dei carabinieri, Mario Mori, tra i fondatori nel 1990 del Ros. Insomma, la mafia, tramite Vito Ciancimino, voleva informare di quelle richieste, o condizioni, per fermare le stragi, proprio Mario Mori, all’epoca tenente colonnello, che, al contrario, ha sempre negato di aver ricevuto alcun documento. Tra gli altri sotto processo, oltre a Mori, ci sono gli ex ufficiali del Ros, Antonio Subranni e Giuseppe Del Donno, ma anche uomini politici di primo piano come Calogero Mannino (nel '92 ministro per gli interventi straordinari del Mezzogiorno) Marcello Dell’Utri (che preparava l'entrata in politica con Berlusconi) e Nicola Mancino (subentrato come ministro dell'Interno al posto di Scotti nel giugno 1992 e indagato solo per falsa testimonianza in occasione di un altro processo riguardante sempre il generale Mori). Non poteva non fare scalpore il coinvolgimento di personaggi così illustri, accomunati in un’inchiesta a boss mafiosi del calibro di Riina e Provenzano, con la conseguenza che il procuratore Antonio Ingroia, della direzione distrettuale antimafia di Palermo, che fin qui (in ottobre partirà per il Guatemala su incarico dell'Onu) ha condotto la nuova fase di indagini, ha dovuto subire ogni sorta di attacco mediatico. Magistrato e giornalista, classe 1959, formatosi nella seconda metà degli anni '80 negli uffici bunker di Falcone e Borsellino, ne ha ereditato la pesante eredità. La sua vita di giovane magistrato cambiò proprio all'indomani della strage di Capaci, quando insieme a Paolo Borsellino si trasferì da Marsala a Palermo. “Per caso o per necessità”, ha scritto lui stesso nel suo libro “Nel labirinto degli dei” (Il Saggiatore, 2010), la lotta alla mafia divenne lo scopo della sua vita. È inutile dire che il suo lavoro, proprio perché teso a stabilire una verità “scomoda”, andava incoraggiato e sostenuto e non osteggiato. Ma in Italia cercare la verità sembra sempre un “azzardo”. Se il nostro è ancora uno Stato di diritto, è il diritto che deve essere sempre al primo posto, anche quando è lo Stato stesso (o meglio i suoi apparati o esponenti) che debba mettersi in discussione. Cosa è successo nel 1992? Uomini delle Istituzioni si sono fatti “beffe” della legge percorrendo vie “alternative”? Se sì, quale “ragion di Stato” ne avrebbe potuto giustificare l’operato? È evidente che qualsiasi risposta, sia quella della contingente esigenza di fermare le stragi, sia quella di trovare un nuovo equilibrio con il potere di Cosa nostra, sarebbe comunque storicamente inaccettabile. Si sarebbe trattato pur sempre di una sconfitta dello Stato, sulla quale si doveva, e si deve ancora, riflettere. Per questo far luce fino in fondo sulla vicenda della “trattativa” diventa ancor più fondamentale. Non solo e soltanto per ricostruire i fatti di quei tragici mesi, se effettivamente si venne a patti con la mafia, chi lo fece, ma anche capire le ragioni di quello che è successo in quella che è stata una delle stagioni più difficili vissute dal nostro Paese. È legittimo pensare che la storia non sia finita né con la morte di Borsellino e le bombe di Firenze, Milano e Roma, né con l'arresto di Riina, avvenuto nel gennaio del 1993. Restituire verità a quei fatti potrebbe essere uno degli ultimi banchi di prova per lo Stato italiano di dimostrare la volontà di voltare pagina e combattere a trecentosessanta gradi un fenomeno che ci accompagna, mutando continuamente vesti, metodi e obiettivi, dal secondo dopoguerra. E per far questo ci vuole coraggio, anzi un doppio coraggio: quello, ovviamente, di combattere con mezzi sempre più efficaci la mafia ma, anche e soprattutto, quello di saper riconoscere i propri errori, per non ripeterli. C’è una frase che è il caso di ricordare, quella che il maestro Borsellino un giorno disse proprio al suo giovane allievo Ingroia: “è normale aver paura, l'importante è avere ancora più coraggio.”
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