Il malato è grave, non si può continuare a curarlo con l’aspirina. Il disegno di legge anticorruzione assomiglia alla classica montagna che ha partorito il topolino, nel provvedimento, infatti, mancano alcuni elementi essenziali
Dalla "prima" alla "seconda" o "terza Repubblica" nel mondo della politica sembra essere cambiato tutto o quasi. Poche sono le costanti, la corruzione è una di queste. Anzi, negli ultimi anni sembra che questa pratica abbia conosciuto un'espansione quantitativa e qualitativa vastissima, che spazia dal traffico di influenze alla corruzione del settore privato. La tesi della dottoressa Caterina Berlanda riporta la definizione di Grand Corruption; ovvero la «corruzione che vede coinvolte personalità rilevanti dal punto di vista politico-decisionale, le Ppe: persone politicamente esposte». Il Gafi, gruppo d'azione finanziaria internazionale, organo deputato istituzionalmente a combattere il riciclaggio di capitali e il finanziamento del terrorismo, definisce persone politicamente esposte gli «individui che sono od erano preposti ad alte funzioni pubbliche, quali Capi di Stato o di Governo, personalità politiche, quadri superiori della pubblica amministrazione, della magistratura e delle Forze Armate, dirigenti di imprese pubbliche e importanti esponenti di partiti politici». Invero - spiega Berlanda - la Grand Corruption è associata non tanto all'entità delle somme di denaro impiegate quanto piuttosto al comune scopo perseguito dai soggetti posti in posizione di vertice di arricchire se stessi, le loro famiglie e le persone con cui intrattengono stretti legami, con conseguente preponderanza dei suddetti interessi, a detrimento della crescita del Paese». Questo tipo di crimine quindi risulta estremamente dannoso perché mina la fiducia e l'affidabilità delle banche, dei centri finanziari e più in generale degli Stati. L'alterazione delle funzioni amministrative modifica ed erode i meccanismi della competizione fra imprese, favorendone slealmente alcune rispetto ad altre. Inoltre, oltre a indebolire l'economia italiana, la corruzione svilisce anche il ruolo delle istituzioni e la trasparenza dell'azione amministrativa e la fiducia dei cittadini per gli apparati della Pubblica Amministrazione. «La corruzione endemica e radicata in seno alle massime sfere politiche - scrive Berlanda - produce effetti fortemente distorsivi per la concorrenza, provocando alterazioni sul buon funzionamento dei mercati e sull'equilibrata allocazione delle risorse: studi condotti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale hanno evidenziato che essa riduce gli investimenti e dunque i tassi di crescita; riduce la capacità dei governi di imporre i controlli e le regolamentazioni necessari per correggere eventuali fallimenti dei mercati; distorce gli incentivi, in quanto gli individui sono portati ad impiegare parte delle risorse in pratiche di corruzione piuttosto che in attività produttive; riduce gli investimenti in quei campi che teoricamente meno si prestano a pratiche corrotte (ad esempio istruzione e sanità)». In Paesi con economie fragili come quella italiana tali risultati risultano impressionanti; per noi infatti è stato eminentemente dimostrato che la corruzione può causare effetti che vanno ben oltre distorsioni di mercato, addirittura oltre il pregiudizio arrecato alla crescita economica del Paese: «I costi aggiuntivi si rilevano infatti sia in ambito politico – cagionando il progressivo degrado delle istituzioni pubbliche, delle infrastrutture e dei servizi, l'alterazione dell'allocazione della spesa pubblica in maniera inefficiente; sia in ambito macroeconomico – provocando così una diminuzione o addirittura interruzione dei flussi di investimento». Un fenomeno gigantesco Due posti in un anno; l'Italia nel 2011 è passata al sessantanovesimo posto su 182 Paesi presi in esame (nel 2010 eravamo al 67° posto), nella Ue fa meglio solo della Grecia (80esima), e di Romania e Bulgaria nella lotta alla corruzione. A rendere la notizia ancora più amara c'è poi la consapevolezza che la classifica prende in considerazione non la corruzione reale, spesso non tracciabile e difficile da quantificare, quanto quella percepita. Vengono dunque analizzati sondaggi di opinione, il livello di accesso alle informazioni da parte della popolazione locale, i casi più eclatanti di appropriazione indebita e tangenti e l'efficacia delle leggi anti-corruzione. Siamo messi peggio di Paesi come il Ghana, la Slovacchia e il Montenegro. È la Commissione di studio per la lotta alla corruzione nella Pubblica Amministrazione istituita dal ministro Patroni Griffi che, riferendo i dati del Rapporto Greco (Group of States against corruption) del 2011, traccia il quadro della diffusione del fenomeno della corruzione. Prima di elencare i dati, però, è opportuno distinguere tra: dati tratti dalle rilevazioni giudiziarie; dati desunti all’esito dell’applicazione di talune metodologie volte a fotografare la percezione del fenomeno; dati volti a misurarne i costi economici. «Quanto ai primi, dalle statistiche giudiziarie - che naturalmente riguardano la sola parte emersa del fenomeno - è dato ricostruire una dinamica discendente non solo per quel che attiene ai numeri dei delitti di corruzione e concussione consumati (dai 311 casi del 2009 ai 223 del 2010), ma anche a quelli riguardanti le persone denunciate (dalle 1.821 del 2009 alle 1.226 del 2010) e i soggetti condannati per i medesimi reati in via definitiva (dai 341 del 2007 ai 295 del 2008)». «Volendo utilizzate dati relativi ad un orizzonte temporale più esteso, è utile considerare che, sulla base delle fonti Istat, l’ammontare delle persone coinvolte e dei reati denunciati per corruzione e concussione, in crescita dal 1992, dopo aver raggiunto il picco dei 2.000 delitti e delle oltre 3.000 persone denunciate nel 1995, si è ridotto a circa un terzo per i reati e della metà per le persone nel 2006». Se poi consideriamo il numero di condanne si nota che si è passati da un massimo di oltre 1.700 condanne per reati di corruzione nel 1996 alle appena 239 del 2006 (quasi un settimo di 10 anni prima). Questi dati stridono con le rilevazione del Global corruption barometer 2010 di Transparency International che, tra il 2009 e il 2010, indicano che «il 13 per cento dei cittadini (a fronte della media del 5 per cento nei Paesi dell’Unione europea) ha dichiarato di aver pagato - direttamente o tramite un familiare - tangenti nell’erogazione di diversi servizi pubblici (nello specifico, il 10 per cento nei contatti col sistema sanitario; il 3,8 per cento con la polizia; il 6,4 per cento per il rilascio di licenze e permessi; l’8,7 per cento per utilities; il 6,9 per cento con il fisco; il 13,9 in procedure doganali; il 28,8 col sistema giudiziario). Quanto alle motivazioni che hanno indotto alla dazione, il 2,8 per cento ha pagato la tangente per evitare problemi con le autorità; l’1,5 per cento per accelerare le procedure; l’1,3 per cento per ottenere un servizio cui aveva diritto». E allora perché questa discrepanza di numeri? Probabilmente l’abbassamento del numero delle condanne deriva dalla legge nota con il nome di “ex Cirielli”, che ha ridotto i termini per la prescrizione. Infine, quanto ai costi economici del fenomeno, la Corte dei Conti ha stimato che in Italia la corruzione incide sull'economia per 70 miliardi di euro l'anno, tra i 1000 e i 1500 euro per ogni cittadino. Mentre in Europa la Commissione dell’UE, in una relazione presentata al Parlamento europeo il 6 giugno 2011, stima che la corruzione costi all’economia del vecchio continente 120 miliardi di euro l’anno, ovvero l’1% del Pil dell’UE e poco meno del bilancio annuale dell’Unione europea. Tra norma e prassi Appurato che il problema corruzione esiste, ed è di dimensioni smisurate, sarebbe opportuno modificare la legislatura in modo tale da poter quantomeno arginare il fenomeno. Partiamo dalla mancata ratifica della Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione datata 1999, già da tempo sottoscritta dall’Italia e in giacenza presso la Camera dei Deputati. Il 6 febbraio 2012 davanti alla Corte dei Conti, Sezioni Riunite, il Procuratore generale affermava: «Quale aderente dal 2007 al Gruppo di Stati contro la corruzione, l’Italia è stata sottoposta a valutazione da parte del Gruppo nel 2009 il cui rapporto finale rileva che, malgrado la determinata volontà della magistratura inquirente e giudicante di combatterla, la corruzione è percepita in Italia come fenomeno consueto e diffuso, che interessa numerosi settori di attività: l’urbanistica, lo smaltimento rifiuti, gli appalti pubblici, la sanità e la pubblica amministrazione». «In Italia - scrive la deputata del Pd Donatella Ferranti - le ultime modifiche al contesto legislativo dei reati contro la pubblica amministrazione risalgono al 2000, ma vi sono nel sistema attuale lacune specifiche che possono intralciare l’efficacia delle funzioni investigative, inquirenti e giudicanti». La corruzione privata, infatti, è ancora disciplinata nel solo codice civile e concepita come una «forma di violazione della fiducia». Secondo la deputata del Pd: «Bisogna superare i limiti previsti dall’attuale formulazione dell’art. 2635 c.c., non solo riguardo alla gamma di possibili autori, che non possono essere individuati solo negli amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, ma anche in qualsiasi persona che dirige e lavora in una società del settore privato, e soprattutto per quanto attiene alla non essenzialità del requisito del danno alla persona giuridica, così come deve trattarsi di un reato perseguibile ex officio». Il sistema Italia vive anche un’anomalia, è l’unico Paese in Europa dove la prescrizione del reato comincia a maturare dalla consumazione del reato stesso. «E cioè per la corruzione - spiega la Ferranti - per la corruzione dell’illecita promessa o dall’illecita dazione del denaro o dell’altra utilità, e quindi molto tempo prima di quando possa realisticamente avere inizio un’indagine, per la strutturale omertà che lega il corrotto e il corruttore; continua a decorrere fino alla sentenza definitiva, sino cioè all’eventuale pronuncia della Corte di Cassazione, anche quando vi è stata una sentenza di primo grado di condanna, magari confermata in appello». La già paradossale situazione è stata peggiorata dalla già citata legge “ex Cirielli” (la n. 251 del 2005), «che in molti casi ha ridotto della metà i termini di prescrizione soprattutto per i soggetti che non hanno precedenti condanne. Oggi - continua la deputata del Pd - il reato di corruzione si prescrive in sette anni e mezzo dalla consumazione, cioè da quando vi è stato l’accordo corruttivo o quello del ricevimento dell’utilità». È chiaro a tutti, considerando anche le risorse della magistratura e delle Forze di Polizia, come questo tempo sia troppo breve per permettere di spezzare sodalizi criminosi che magari perdurano da anni. Nell’attuale disegno di legge, in discussione ormai da mesi, sono stati direttamente cancellati il reato di autoriciclaggio e quello di corruzione tra privati. «Inoltre - viene riportato in una nota dell’Italia dei Valori -, è stata eliminata la concussione per induzione, vale a dire il reato tipico de i politici e dei pubblici ufficiali, mentre sono stati ridotti i tempi della prescrizione e non è stata prevista la reintroduzione della norma sul falso in bilancio, presupposto di qualsiasi corruzione». Mezzi di contrasto alla corruzione Ora che sono stati chiariti i punti di maggior debolezza delle leggi del nostro Paese, si può passare a proporre dei mezzi utili per contrastare le pratiche corruttive. Per prima cosa dobbiamo premettere che «quanto più gli illeciti assumono caratteri tipici dei crimini economici, tanto più essi dovranno necessariamente adattarsi alla dimensione transnazionale dell'economia moderna». Questo accorgimento descritto da Berlanda è fondamentale per capire che qualunque legge decidiamo di applicare in Italia l'aiuto e la cooperazione internazionale saranno fondamentali. In un'economia globalizzata pensare di risolvere tutto nel "nostro orticello" è quantomeno puerile. Secondo la tesi di Berlanda per contrastare efficacemente la corruzione bisogna affidarci a «strumenti tipicamente giuridici: tra questi, le convenzioni e i trattati internazionali volti a criminalizzare i reati. Siffatti strumenti privilegiano naturalmente il profilo penalistico dei comportamenti in esame, imponendo agli Stati di criminalizzare le condotte e richiedendo di elevare ovunque tali fattispecie al rango di reati». Quindi per prima cosa la cooperazione giudiziaria, «oggigiorno una parte essenziale dell'attività di contrasto alla criminalità organizzata, ma anche alla corruzione e agli altri tipi di criminalità economica si concreta nell'opera investigativa di intercettazione del denaro in movimento da e verso conti situati in centri offshore». Sarebbe quindi opportuno potenziare tali accordi, regionali o globali, «contenenti principi condivisi che conducono alla creazione di strumenti coercitivi nel campo della giurisdizione penale capaci di “oliare” i meccanismi di cooperazione tra Stati». Ad esempio in ambito bancario, «la progressiva informatizzazione dei pagamenti e lo sviluppo del mercato di servizi finanziari oggi più che mai rendono lo scambio di informazioni concernenti il profilo patrimoniale e finanziario dei clienti bancari un tema centrale nel dibattito internazionale che coinvolge i processi di cooperazione giudiziaria». Visto che mancano ancora dei registri governativi, «gli istituti di credito si presentano di fatto come gli unici in grado di fornire questo tipo di informazioni sulla propria clientela, e rappresentano una fonte preziosa per la magistratura requirente. Oltre a tale ruolo “passivo” di cessione delle informazioni, essi possono anche contribuire attivamente alle indagini condotte con le autorità attraverso le pratiche preventive di identificazione dei correntisti (pratiche KYC - know your costumer) così contribuendo all’identificazione delle operazioni considerate “a rischio”». Per la dottoressa Berlanda, e più in generale per chi pensa che la lotta alla corruzione debba essere un punto centrale della battaglia per la legalità, si deve costruire una sorta di rete che disincentivi l’uso della corruzione in ambito pubblico e privato. La corruzione per diffondersi senza risultare troppo evidente necessita infatti di una leggera mimetizzazione; «deve acquisire le sembianze della liceità, ne consegue che - nel caso in cui un pubblico ufficiale debba decidere se sollecitare o accettare una tangente - la scelta sarà indubbiamente influenzata» da un calcolo dei costi e dei benefici. «Quindi quanto più le disposizioni in materia sono restrittive - continua Berlanda -, tanto più le operazioni di corruzione saranno difficili e rischiose». Analizziamo allora cosa può rendere ardua la via del corruttore, quali norme sarebbe auspicabile introdurre nei nostri codici. Partiamo dagli strumenti in mano agli inquirenti: sarebbe opportuno allargare l’istituto dell’agente provocatorio, o dell’infiltrato, anche per i reati di corruzione. Con l’art. 25 della legge 26 giugno 1990, n. 162 – introduttivo degli art. 97 e 98 d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309 – sono state recepite nel nostro ordinamento le indicazioni contenute nell’art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di sostanze stupefacenti, aperta alla firma a Vienna il 20 dicembre 1988, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 5 novembre 1990, n. 328. «Successivamente all’introduzione della prima figura di agente undercover nelle materie relative alla repressione del traffico di stupefacenti - scrive il dottore Giovanni Barrocu -, si è avuta una estensione avente ad oggetto altri settori criminali, che, sulla spinta emotiva ed emergenziale, è sfociata nell’introduzione di diverse previsioni normative. Con l’art. 7 d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 conv. nella l. 15 marzo 1991, n. 82, è stata introdotta la possibilità di compiere operazioni controllate di pagamento del riscatto, quando ciò sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori in ordine al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione ovvero per la individuazione o cattura dei responsabili di tale delitto: il pubblico ministero potrà così richiedere al giudice l’autorizzazione a disporre di beni, denaro o altra utilità al fine, appunto, dell’esecuzione di operazioni controllate di pagamento del riscatto. Agli stessi fini il pubblico ministero può, con proprio decreto motivato, ritardare l’esecuzione, o disporre che venga ritardata sia l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, sia dell’arresto o del fermo dell’indiziato del delitto o dei provvedimenti di sequestro. In seguito, con il d.l. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito nella legge 18 febbraio 1992, n. 172, all’art. 10, è stata prevista la possibilità di ritardare con decreto motivato l’esecuzioni di analoghi provvedimenti qualora sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori in ordine ai delitti di estorsione, usura, riciclaggio ed impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita ovvero per la individuazione o cattura dei responsabili di tali delitti, ai quali poi, con l’art. 8 della legge n. 238/2003 sono stati aggiunti quelli di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, tratta di persone, acquisto o alienazione di schiavi e di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Allo stesso fine e per gli stessi motivi, gli ufficiali di Polizia giudiziaria possono omettere o ritardare gli atti di propria competenza con immediato avviso al pubblico ministero e susseguente trasmissione di un “rapporto” motivato nelle successive quarantotto ore. Con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. nella l. 7 agosto 1992, n. 356, all’art. 12-quater, sono state disciplinate le ipotesi di ricettazione, riciclaggio ed impiego di denaro illecito simulati. Destinatari della norma sono gli ufficiali di Polizia giudiziaria della direzione investigativa antimafia e dei servizi centrali ed interprovinciali di cui all’art.12 del d.l. n. 152/1991, i quali possono compiere simulatamene le suddette attività illecite al fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti che le sanzionano. In tali casi l’autorità giudiziaria, se richiesta dai menzionati ufficiali di Polizia giudiziaria, può con decreto motivato differire il sequestro del denaro, dei beni, delle altre utilità riciclate o impiegate ovvero delle armi, delle munizioni o degli esplosivi». Con gli stessi criteri la Polizia giudiziaria potrebbe intervenire sulla corruzione, nella scelta di un funzionario peserebbe molto sapere che in caso in cui si faccia corrompere tutti i suoi beni potrebbero essere confiscati. Peserebbe anche sapere che in caso di condanna (magari anche solo di primo grado) la sua pensione potrebbe essere sospesa. In fondo la questione non è solo economica, con l’atto corruttivo si spezza un rapporto di fiducia tra il singolo funzionario e lo Stato (e quindi il popolo italiano). Anche le aziende, o i privati più in generale, andrebbero penalizzati in caso volessero corrompere un funzionario; si potrebbe pensare a una semplice estromissione dalle future gare per appalti. Ovviamente per non sbilanciare troppo il potere statale andrebbero legiferate norme di buon senso. Prima di tutto si dovrebbe incentivare una semplificazione burocratica accettando l’idea che al cittadino, azienda o privato che sia, è dovuta almeno una data precisa di scadenza delle pratiche. Non è più accettabile accontentarsi di un «le faremo sapere noi». C’è un ultimo punto da analizzare; visto che nella prima parte dell’articolo abbiamo spiegato quanto la corruzione sia deleteria per il funzionamento del “sistema Italia”, e vista la forte necessità del nostro Paese di riacquistare un vero spirito legalitario sarebbe opportuno chiedersi se sia giusto, per alcuni reati, introdurre l’obbligo della denuncia. In Italia, per ora, vige nei confronti del cittadino in tre ipotesi: nchi, ai sensi dell'art. 364 del codice penale «... avendo avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce l'ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all'Autorità indicata nell'art. 361»; nchi venga a conoscenza di fatti e circostanze riguardanti il sequestro di persona, anche solo tentato, ai sensi dell'art 630 del Codice penale e dell'art. 3 del decreto-legge n. 8 del 15 gennaio 1991; nchi detenga, oppure venga a conoscenza, di detenzione di armi o di esplosivi da parte di persone che non possiedono l'autorizzazione della questura del luogo in cui le armi sono tenute, tranne che per le armi di cui al decreto del Ministero dell'interno n. 362 del 9 agosto 2001. Per la corruzione, i reati di mafia e magari il pizzo non sarebbe giusto introdurre quest’obbligo per i cittadini? Magari responsabilizzando i singoli la corruzione in Italia non sarà più percepita come «fenomeno consueto e diffuso, che interessa numerosi settori». Nell’attuale disegno di legge, in discussione ormai da mesi, sono stati direttamente cancellati il reato di autoriciclaggio e quello di corruzione tra privati
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