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Agosto-Settembre/2012 - Interviste
Biografie nobili
La profeta del Vajont inascoltata e sbeffeggiata
di Intervista a cura di Michele Turazza

Tina Merlin non riuscì a fermare la costruzione della diga in Friuli
né riuscì a convincere i colleghi giornalisti a darle manforte
nella denuncia del pericolo e a smuovere le autorità. I 2000 morti
che causò il disastro li sentiva come una sconfitta personale
l libro di Adriana Lotto ricostruisce la biografia e la personalità
della giornalista e prima ancora della staffetta partigiana


Associare il nome di Tina Merlin al Vajont è inevitabile: dei tanti giornalisti che salivano quei monti per raccontare la tragica storia della diga, Tina si distinse per coraggio, tenacia e “parzialità”. Decise subito da che parte stare, quale storia raccontare: quella subita dai poveri, dai contadini di quelle terre, che si videro espropriare i propri campi e vallate dai poteri forti dell’epoca. Ovviamente in nome del progresso e del promesso benessere per tutti. Non ci furono né progresso né benessere, ma oltre 2000 morti, feriti e devastazione, fisica e psicologica. Intere comunità sparirono sotto una coltre di acqua e fango, all’improvviso, sommerse dall’insensata voracità dell’uomo. Una tragedia annunciata, “costruita”. Negli appunti di cui Tina si servirà per presentare al pubblico il suo libro “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe”, edito da Cierre, si legge “Non pensiate sia facile dire e ricercare la verità. Significa esporsi in prima persona a ostracismi, crearsi inimicizie, precludersi carriere, con riflessi negativi anche sulla propria vita famigliare... ma io comunque ho fatto una scelta all’epoca della militanza nella Resistenza. Questa scelta, della quale sono tuttora più che convinta, impone alla mia coscienza di stare dalla parte dei diritti calpestati e umiliati, che ancora oggi sono sempre quelli della gente indifesa”. Per ricordare Tina, abbiamo incontrato la professoressa Adriana Lotto, autrice di “Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro” (Cierre edizioni, 2011, e 14,50), pubblicato nel ventesimo anniversario della sua morte.

Professoressa Lotto, ripercorriamo la vita di Tina Merlin: quali furono gli avvenimenti che, durante la sua infanzia, le fecero scegliere di stare dalla parte dei più deboli, degli indifesi?
L’essere nata in una famiglia umile, sempre alle prese con la sopravvivenza quotidiana, con la mancanza di lavoro, con i pochi soldi e le tante “debite”da pagare. E poi l’impiego, all’età di appena 13 anni, come “serva”, ovvero domestica a servizio di padroni spesso così prepotenti e arroganti, da umiliare, ferire nel profondo, la persona e la sua dignità. È qui che cominciò a rendersi conto di come è fatto il mondo, delle tante ingiustizie che vi albergano; comprese che ci sono due pesi e due misure, c’è chi sta in alto e chi sta in basso e chi sta in basso non ha strumenti per difendersi. Fu anche per questo che decise di fare la giornalista, per dare voce alla gente comune, perché il suo diritto di cittadinanza, la sua appartenenza alla nazione non rimanessero sulla carta. Tutto il suo correre là dove si muoveva qualcosa, dal Vajont prima, alle lotte operaie dopo, andava nella direzione di un convinto dovuto sostegno dei soggetti sociali più deboli e indifesi in nome di un concetto alto e attivo di democrazia.

Come maturò la scelta di partecipare attivamente alla Resistenza e quale fu il suo ruolo?
Come tante donne e ragazze, anche Tina entrò nella Resistenza perché vi operava già un congiunto. Nel suo caso, il fratello Toni, di sette anni più vecchio di lei, che adorava e stimava e che venne ucciso dai tedeschi proprio alla fine della guerra. Ma la spinsero altresì le discussioni con lui e la sorella Pina, e con l’amica Wilma, sulla necessità di fare qualcosa per cambiare un po’ anche della loro vita, della sua vita, per non dover più fare la serva. La Resistenza, come scrisse dopo, apriva una porta sul mondo anche per le donne, e lei, quella soglia, la varcò con l’entusiasmo e la determinazione di chi sapeva che non sarebbe tornato indietro, perché molte erano ancora le cose da fare. La democrazia non era un fatto compiuto, ma un processo.

Quale è stato il suo rapporto con la religione e con la Chiesa istituzionale?
Tina aveva una sua religiosità profonda, che si nutriva di un forte senso del sacro come spesso è avvenuto nelle campagne, e aveva anche assimilato i precetti evangelici di giustizia e uguaglianza tra gli uomini che le facevano intravedere la possibilità di un mondo migliore. Frequentava la parrocchia, che allora nei paesi costituiva l’unico centro sociale in cui i giovani potevano incontrarsi nel tempo libero, partecipava alle recite teatrali allestite dalle suore, andava a messa, la cui liturgia l’affascinava non poco. Dopo la guerra, la sua iscrizione al partito comunista le valse una sorta di scomunica pubblica del prete del suo paese. E allora la rottura con la chiesa istituzionale, non con i dettami del vangelo, diventò inevitabile.

Il suo essere schietta e immediata, a tratti ruvida, la sua volontà di dare largo spazio ai giovani, il fatto stesso di esser donna rendevano difficile il suo rapporto col partito comunista, in cui militava. Che cos’era per Tina la politica?
Per Tina la politica era prendersi cura del consorzio umano, trovare risposte concrete ai bisogni e alle aspirazioni della gente, specie quella da sempre messa ai margini ma che, con la nascita dello Stato democratico, entrava a pieno diritto a far parte della vita della nazione. La politica, pur essendo per sua natura fatta di mediazioni, non doveva però transigere sul piano morale, cedere di fronte a principi non negoziabili. E il partito, dal canto suo, non doveva essere fine a se stesso, ma, recependo le istanze che venivano dal basso, farsi strumento di lotta e di controllo democratico, di emancipazione delle classi umili. Nei momenti in cui ravvisava che così, invece, non era, Tina insorgeva, anche perché si sentiva tradita da un partito che aveva contribuito a traghettare dalla clandestinità alla democrazia, occupandosi di donne e giovani, un partito che doveva avere come obiettivo fisso la creazione di una società a misura dell’essere umano nel suo rapporto stretto e rispettoso con la natura.

Quando si parla di Tina, è inevitabile ricordare il Vajont, una “catastrofe costruita” dall’ottusità dell’uomo, dall’asservimento delle istituzioni al potere economico, dalla svendita degli uomini di scienza al potente di turno. Perché il Vajont ha rappresentato per Tina addirittura il “punto di rottura [...] nella concezione della vita e negli intendimenti degli uomini della Resistenza e della Costituzione”?
La Resistenza, che fu una palestra di democrazia, e la Costituzione che ne recepì le istanze, furono per lei punti fermi di una volontà e di un cammino che andavano nella direzione di una società e di uno Stato dove ci sono diritti non privilegi, governo non potere, giusta convivenza non assoggettamento e sfruttamento dei pochi sui tanti, soddisfacimento dei bisogni di tutti non degli interessi di alcuni, e, per questo, partecipazione a tutti i livelli alla cosa pubblica. Il Vajont segnò un’interruzione e un’inversione di tendenza, perché di nuovo lì si imposero l’interesse della Sade (Società Adriatica di Elettricità, ndr) sui bisogni e sui diritti di un’intera comunità, il potere dell’economia sulla politica, l’asservimento della scienza e della tecnica al profitto economico. In altre parole veniva meno, di nuovo, lo Stato di diritto, occupato dal più forte. Ancora una volta, il più debole si trovava nella necessità di difendersi da chi, espropriandogli i campi, gli rubava la vita.

Che cosa le costò, sul piano umano, seguire la costruzione della diga e il disastro del 1963?
Molto, perché non riuscì a fermare la catastrofe, non riuscì a convincere i colleghi giornalisti a darle manforte nella denuncia del pericolo, a smuovere le autorità. Quei 2000 morti li sentì sempre come una sconfitta sua. Al tempo della costruzione della diga, invece, andare a Erto e parlare con la gente fu come ritrovare una grande famiglia, grande nella dignità con cui affrontava da sempre la durezza del vivere quotidiano e con cui aveva affrontato i tedeschi durante i venti mesi di occupazione dal settembre ‘43 all’aprile ‘45. La determinazione degli ertani, la difesa della loro terra, la tenacia e il coraggio con cui si opposero alla prepotenza della Sade furono per lei un’altra grande lezione morale.

L’impegno di Tina nella Resistenza ha segnato tutta la sua vita. Contraria all’amnistia del 1946 e a ogni ipocrita e forzata “pacificazione”, come reagirebbe al vento del revisionismo che spira sempre più violento, tentando di dividere ragioni e responsabilità in parti uguali tra partigiani e repubblichini?
Tina non era per una memoria condivisa se questo significa che le due parti debbano capire l’una le ragioni dell’altra e rinunciare quindi a qualcosa della propria memoria, limitarla, renderla difettosa. Non ci può essere confusione tra chi stette dalla parte dei nazisti, torturò e massacrò per essi, servo zelante, e chi a essi si oppose, anche a costo della propria vita, per affermare la libertà e la dignità dell’uomo, il suo diritto a ribellarsi a chi lo vuole docile strumento del pro
prio arbitrio.
Un incoraggiamento di Tina ai giovani d’oggi che timorosi si affacciano ad un futuro senza alcuna certezza...
Mettersi il gioco, sfidare se stessi, trovare dentro di sé le risorse e metterle assieme a quelle degli altri per un progetto di vita comune, dove l’impegno, prima ancora che il risultato, gratifica, perché fa sentire vivi e utili. Senza però dimenticare il passato e le lezioni che esso ci lascia poiché ciò che di male è stato fatto non si ripeta e si riapra invece il campo delle possibilità. Dove c’è possibilità, c’è anche la speranza che essa diventi certezza.

“Oggi [...] sono più che mai convinta che i cittadini devono rivoltarsi quando sanno di essere nel giusto, quando nessuno li ascolta, quando, con la propria dignità sanno di difendere anche la dignità del paese e delle sue istituzioni.
Qualcuno non sarà d’accordo con me e magari sarà d’accordo che i ricchi non paghino le tasse, che la nostra aria sia irrespirabile, che i nostri fiumi e i nostri mari siano inquinati, che ci diano da mangiare, solo per realizzare profitto, alimenti che provocano il cancro e che continuano a ucciderci in mille maniere perché non si può arrestare lo sviluppo, come dicevano sul Vajont.
Questo non è sviluppo è sottosviluppo. Non dico di tornare indietro, dico che bisogna arrestarsi un momento e pensare alle conseguenze future del nostro agire. Dico che in una società civile la persona umana deve sempre stare al di sopra di ogni considerazione dei politici, siano essi al governo o al Parlamento o alla Regione” (da uno scritto dell’Archivio Tina Merlin, riportato nel libro “Quella del Vajont” p. 191).
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Adriana Lotto è nata nel 1955 a Belluno, dove vive e insegna lettere presso il Liceo Scientifico “Galileo Galilei”. E’ stata cultore della materia presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Venezia. Ha presieduto e presiede istituzioni culturali locali, tra cui la Biblioteca Civica, l’Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’età contemporanea e l’Associazione culturale “Tina Merlin” (www.tinamerlin.it). E’ autrice di libri, saggi e articoli di storia contemporanea.
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Tina Merlin nasce a Trichiana (Belluno) il 19 agosto 1926. Durante la guerra di liberazione è staffetta partigiana nella brigata “7° Alpini” che operava nel bellunese. Nel 1950 partecipa a un concorso della “Pagina della donna“ de L’Unità, che le vale un premio e la proposta di collaborare. Nel 1951 assunse l’ufficio di corrispondenza da Belluno del quotidiano L’Unità fino al 1967.
Nello stesso periodo segue da vicino le vicende del Vajont, prima e dopo la catastrofe del 9 ottobre 1963 che costò la vita a duemila persone. Per i suoi articoli di denuncia della situazione pericolosa che si era andata manifestando con la costruzione della diga, pubblicati su L’Unità già dal 1959, è processata e assolta dal tribunale di Milano per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.
Viene eletta consigliere provinciale per il PCI nel 1964 ma non completa la legislatura. Nel settembre del 1967, infatti, si trasferisce a Budapest dove lavora a Radio Budapest in lingua italiana, a metà del 1968 rientra e riprende la collaborazione con L’Unità come corrispondente da Vicenza. Segue le lotte degli operai tessili di Valdagno e dei ceramisti di Bassano.
Socia fondatrice nel 1965 e per lungo tempo membro del Direttivo dell’Istituto storico bellunese della Resistenza, ora anche dell’Età contemporanea (Isbrec), collabora alla sua rivista Protagonisti con saggi e interventi sulla storia della Resistenza e la partecipazione delle donne, e sulla società locale tra guerra e dopoguerra.
Muore il 22 dicembre 1991 dopo un anno di malattia. Nel novembre 1992 viene costituita l’Associazione culturale a lei intitolata.
(Biografia tratta dal sito www.tinamerlin.it)

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