A distanza di venti anni dalla strage di Capaci, “…nonostante
il sistema delineato dal legislatore del 1991 abbia allineato
l’azione di contrasto alle organizzazioni criminali a modelli
organizzativi già efficacemente collaudati in altri Paesi, la piena
operatività della Dia è stata fortemente penalizzata
da una serie di inadempienze normative e da azioni
che rischiano di minarne fortemente l’autonomia e l’incisività”
Lo storico Tucidide già nel 450 a.e.v. sosteneva che per capire il presente è necessario guardare al passato. Pertanto, parto da molto lontano.
Il progenitore del nostro Codice di procedura penale è il “Tractatus de maleficiis”, scritto nel 1286 da Alberto Gandino da Crema, capo di una potente famiglia, di professione giudice itinerante. All’epoca, infatti, i Comuni concedevano in appalto la giustizia a nobili stranieri.
Nel “Tractatus de maleficiis” uno spazio importante era occupato dall’antichissima pratica dell’ordalia. Si parla dell’ordalia del dio fiume addirittura nel Codice sumero di Ur-Nammu (2112 - 2095 a.e.v). Alla pratica si ricorreva per dirimere le vertenze giuridiche che non si potevano, o non si volevano, regolare con mezzi umani. Ordalia, infatti, significa “giudizio di Dio” ed era una procedura basata sulla premessa che Dio avrebbe aiutato l’innocente. Infatti, l’innocenza o la colpevolezza dell’accusato venivano determinate sottoponendolo a una prova molto dolorosa. L’esito della prova era ritenuto come la diretta conseguenza dell’intervento di Dio.
In Europa le più utilizzate erano “l’ordalia del fuoco” e “l’ordalia dell’acqua”. Nel primo caso l’accusato doveva fare un certo numero di passi (solitamente nove) tenendo tra le mani una barra di ferro rovente. Nel secondo caso doveva togliere una pietra da un pentolone di acqua bollente. L’innocenza era dimostrata dall’assenza di ustioni, ovvero, dalla trascurabilità delle stesse. Se le lesioni erano ritenute guaribili, l’accusato era giudicato innocente.
L’elemento fuoco, utilizzato per arroventare il metallo o per riscaldare l’acqua era preparato sotto il controllo e la supervisione del clero locale. Solitamente erano sottoposte alla pratica dell’ordalia le donne sospettate di stregoneria e quelle accusate d’infedeltà coniugale. Le registrazioni giudiziarie indicano che un discreto numero di donne accusate siano state ritenute innocenti e scagionate dalla prova dell’ordalia. Si sospetta fortemente che l’ordalia venisse in qualche modo “aggiustata”, agendo sull’elemento fuoco, per ottenere un verdetto che il sacerdote riteneva giusto.
I sacerdoti, in effetti, conoscevano bene le loro “pecorelle” giacché ascoltavano le confessioni. Pur essendo obbligati al segreto confessionale, nulla vietava loro di aggiungere altra legna al fuoco, ovvero di astenersi dal farlo.
In questa fase storica, quindi l’unico segreto che tiene banco nella procedura penale sembrerebbe il segreto del confessionale.
I ministri del culto, dal canto loro, non erano disposti a sottoporsi ai rischi dell’ordalia dell’acqua o del fuoco. Per loro, infatti, era prevista “l’ordalia del pane”. Un pezzo di pane (chiamato “boccone maledetto”) era posto sull’altare della chiesa. Si portava l’accusato di fronte all’altare e, dopo aver recitato una preghiera d’invocazione, gli si offriva il “boccone maledetto”. L’accusato, se colpevole, sarebbe soffocato. Poiché le dimensioni del boccone erano decise dall’inquisitore, non è improbabile che qualche boccone sia andato di traverso, si consideri che all’epoca non si panificava ogni giorno.
E’ evidente che l’ordalia fosse un imbroglio ideato dagli uomini, alcuni dei quali avranno agito pure in buona fede. D’altronde Dio, ben dodici secoli prima, attraverso suo figlio Gesù Cristo, aveva messo in chiaro la sua scelta di rimanere estraneo alle nostre vertenze giudiziarie: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” (Lc 12,14). Pur tuttavia credo che in relazione alla pratica delle ordalie, Dio sia intervenuto una sola volta: nell’anno domini 1215, durante il quarto Concilio Laterano, all’esito del quale è stato imposto al clero cattolico il divieto assoluto di amministrare le ordalie. La pratica delle ordalie continuò anche in assenza del clero ancora per qualche secolo, prima di scomparire definitivamente.
L’ordalia più che giudizio di Dio, sembrerebbe quindi “manipolazione della procedura” da parte degli uomini, al fine di stabilire un controllo sull’azione penale, sicché le condanne potessero colpire solo i malvisti da chi comandava.
Dal segreto istruttorio
al segreto investigativo
Nel 1808 il diritto processuale penale è disciplinato dal Code d’instruction criminelle. In esso si prevede un processo cosiddetto bifasico.
A tenere banco adesso non è più il segreto del confessionale, ma il segreto istruttorio. L’istruttore, investito dal procuratore del Re, lavora in segreto, raccoglie segretamente le prove e passa gli atti al pubblico ministero.
La bilancia, però, pende sempre dalla parte dell’istruttore, che dipende dal Re, poiché i suoi verbali si abbattono come una mannaia su imputato e testimone durante la fase del dibattimento, cogliendoli spesso di sorpresa. D’altronde, nella monarchia ogni giurisdizione promana dal Re, il quale interviene dove, quando e come vuole, anche attraverso la nomina di suoi commissari.
Nel Codice del 1913, Giolitti crea qualche piccolo varco al segreto istruttorio. Ammette la partecipazione dei difensori ad alcuni atti: esperimenti, ricognizioni, perizie, perquisizioni domiciliari. Il pubblico ministero, però, rimane sempre di parte, in quanto istruisce con i poteri del giudice; ad esempio, interroga i testimoni e usa nel dibattimento le prove che ha formato quasi in completa autonomia. Siamo ancora lontani dalla struttura processuale odierna che richiede tre protagonisti: accusa, difesa e organo giudicante.
“Il terzo codice (r.d. 19 ottobre 1930), ideologicamente fascista, squadra una procedura ad hoc: l’istruzione ridiventa segreta; resta il pubblico ministero istruttore, enfant gâté del governo; il contraddittorio perde fiato; svanisce ogni nullità non dedotta entro dati termini da chi vi abbia interesse.
Era un ordigno così efferato da richiedere sommessi interventi correttivi nella prassi: e caduto il regime politico del quale è figlio, sopravvive sotto lune politiche diverse; fenomeno curioso; l’inerzia dura dieci anni pieni.” (in Miserie della procedura penale di Franco Cordero).
Dopo il periodo fascista, il segreto istruttorio viene man mano demolito da diversi interventi legislativi e da alcuni pronunciamenti della Corte costituzionale. Con la legge 190/1970 il difensore viene finalmente ammesso anche all’interrogatorio. Rimane, però, ancora escluso dagli esami testimoniali e dai confronti e lo resterà fino alla fine degli anni Ottanta.
Siamo, finalmente, giunti al codice vigente, che vede la luce dopo un lungo e travagliato iter. Il suo varo è preceduto da una serie di cautele; non può essere diversamente, poiché il diritto processuale penale tutela interessi molto importanti, oltre a incidere su diritti soggettivi.
Il segreto istruttorio nel nuovo codice si contrae e si trasforma in segreto investigativo.
Il progetto preliminare fu approntato da una Commissione ministeriale (istituita nel marzo 1987) e inviato al ministro Guardasigilli, Giuliano Vassalli. Pochi giorni dopo, il testo fu trasmesso ai presidenti di Camera e Senato, che ne affidarono l’esame a una Commissione interparlamentare presieduta da Marcello Gallo. Nello stesso tempo, il progetto venne anche sottoposto all’esame del Csm, dei più alti magistrati, delle associazioni forensi e del mondo universitario. Il 20 maggio 1988 il parere della commissione Gallo fu fatto pervenire al Guardasigilli: questi sottopose il testo delle modifiche e osservazioni al Consiglio dei Ministri, che autorizzò la trasmissione alle Camere. La commissione Gallo espresse il proprio parere definitivo e lo inoltrò al Guardasigilli Vassalli.
La redazione del testo definitivo, con le necessarie rifiniture, fu affidata alla commissione ministeriale presieduta da Gian Domenico Pisapia: il Ministro poté sottoporre al Consiglio dei Ministri il testo del nuovo Codice di procedura penale, successivamente emanato il 22 settembre 1988.
Nel Codice vigente spariscono l’istruzione formale e quella sommaria. Il processo nasce dalla richiesta di un rinvio a giudizio. L’udienza preliminare stabilisce se debba, o no, esservi un dibattimento. Se l’ordinanza è affermativa, si enuncia l’accusa; in caso contrario una sentenza dichiara il non luogo a procedere. Nella fase delle indagini preliminari si acquisiscono gli elementi di prova, al solo fine di valutare l’esercizio o meno dell’azione penale.
Il segreto investigativo permane in tutta la fase delle indagini preliminari.
Infatti, a mente dell’art. 329, I comma, c.p.p.: “Gli atti di indagine compiuti dalla Polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”.
La previsione di compiere in segreto determinati atti in questa fase, risponde alla logica di evitare la compromissione delle indagini. La violazione del segreto provocherebbe un’alterazione dell’equilibrio dei poteri.
Apro una breve parentesi.
Nell’ordinamento giuridico le fonti di produzione sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). Utilizzando una metafora, si può dire che il C.p.p. sta a un dpr. come un colonnello sta a un sergente. Il sergente potrà dare ai suoi sottoposti delle disposizioni di dettaglio, ma non potrà mai contraddire ciò che un colonnello ha disposto: nella catena gerarchica il colonnello si trova più vicino all’autorità governativa da cui riceve le linee guida, rispetto a un sergente.
Abbiamo visto quali garanzie e cautele abbiano accompagnato la fase di emanazione del c.p.p.. Le cautele utilizzate per emanare norme di rango regolamentare sono notevolmente ridotte. Per esempio il dpr. 90/2010 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di Ordinamento militare) occupa un posto inferiore nella gerarchia delle fonti, giacché disciplina (ovvero dovrebbe disciplinare) solo aspetti di dettaglio; infatti l’art. 145 disciplina le modalità d’impiego delle bande musicali militari e il successivo art. 146 distribuisce gli strumenti musicali all’interno delle stesse. Quest’ultimo stabilisce che il numero degli strumenti di ciascuna banda militare debba essere così ripartito: 3 flauti, 1 ottavino, 3 oboi, 1 corno inglese, 23 clarinetti di diversa tonalità, 11 saxofoni di diversa tonalità, 2 contrabbassi ad ancia, 5 corni, 8 trombe, 5 tromboni, 20 flicorni di diverse tipologie, 1 timpano, 2 tamburi, 2 piatti, 1 gran cassa.
Com’è evidente gli interessi in gioco sono poco rilevanti. Se la norma avesse mal distribuito gli strumenti, la banda potrebbe stonare e il pubblico, eventualmente, non applaudire.
Tali decisioni si possono certamente affidare a un atto di rango inferiore poiché non incidono sui poteri dello Stato, non ne provocano uno sbilanciamento.
Non vale, però, lo stesso discorso per il successivo art. 237 (dpr. 90/2010) dal titolo “Obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con la dipendenza gerarchica”. Il cui primo comma afferma: “Indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del Codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell’Arma dei carabinieri”.
Faccio presente che tale norma è stata solo riordinata all’interno del dpr. 90/2010, la sua datazione è anteriore alla legge 400/1988 sull’Ordinamento del Governo, pertanto si tratta di un atto formalmente presidenziale, ma sostanzialmente governativo.
Sembrerebbe che i doveri connessi alla dipendenza gerarchica, imposti dall’ordinamento speciale, siano distinti e separati dagli obblighi di Polizia giudiziaria stabiliti dall’ordinamento statuale.
Ed in caso di conflitti?
Non entro nel merito delle “modalità stabilite”, essendo le “istruzioni” norme esecutive interne emanate da un’autorità amministrativa, non vengono pubblicate in Gazzetta Ufficiale.
Pur tuttavia, mi chiedo: può una norma di rango infimo, che distribuisce pifferi a pifferai, disporre indipendentemente dagli obblighi prescritti dal c.p.p.?
Si tenga a mente che la fase d’inoltro delle informative di reato precede quella delle indagini preliminari, che devono rimanere segrete.
Il vocabolo “segreto” deriva dal verbo “seiungo” ossia, “secerno”, “separo”; rispetto a un dato fatto il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono sapere. E’ di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto diminuiscano all’aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza. Si tratta di discorsi elementari, sui quali l’espositore educato non insiste, temendo di offendere il lettore. E forse sbaglia!
E se la notizia che deve rimanere segreta fosse conosciuta da chi non deve sapere?
E se l’informativa di reato riguardasse esponenti delle istituzioni, o dei poteri forti in generale?
Guardiamo la questione da un altro punto di vista.
Nel caso fosse impartita dall’autorità politica una linea guida (disposizione) non concordata, l’ordinamento militare avrebbe gli anticorpi per contrastarla?
A parere dello scrivente, la risposta è negativa.
La legge 382/78, voluta anche dall’allora Presidente Pertini, prevede che un ordine non sia eseguito se illecito, ma il relativo regolamento (dpr. 545/86) – che era atteso entro i successivi sei mesi, ma venne emanato a distanza di ben otto anni (cioè dopo dodici mesi che il presidente-partigiano era cessato dal mandato) - ha reso la previsione di difficile attuazione:
1. L’illiceità andrebbe fatta presente non a un’autorità esterna e terza, bensì all’interno della stessa autorità militare.
2. La rappresentanza militare, oltre ad essere gerarchizzata, può solo avanzare proposte, tra l’altro non vincolanti, limitatamente a determinati argomenti che attengono alle mense e ai servizi igienici (per un approfondimento, cfr. Diritti dei militari: sillogismi entimematici ed inaccettabili separatezze di Cleto Iafrate).
3. Le note premiali, i giudizi annuali caratteristici e le speculari sanzioni disciplinari, sono svincolate dal principio di legalità e di tassatività, nonostante incidano, attraverso gli avanzamenti, sul diritto soggettivo alla giusta retribuzione; le sanzioni disciplinari di Corpo incidono addirittura sulla libertà personale (per un approfondimento, cfr. Il Militare e la Politica. Scelta d’amore oppure matrimonio combinato? di Cleto Iafrate).
Ma com’è riuscito l’ordinamento militare a derogare ai principi costituzionali e, in particolare, a rimanere impermeabile al principio di legalità?
L’ordinamento speciale si distingue da quello statuale per la presenza al suo interno di norme che si basano sulla regola dell’onore militare.
Quando si parla di onore militare ci si riferisce a tutte quelle qualità etico-psicologiche, espressione di purezza d’animo - quali onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità - che procurano la stima altrui e che sono dal militare gelosamente detenute e custodite, nell’intimo convincimento della necessità di mantenerle integre.
Le origini dell’onore militare si perdono nella notte dei tempi e vanno fatte risalire alla cosiddetta ordalia del giuramento, cui accenna Tito Livio in un suo scritto che risale al 293 a.e.v..
Il giuramento militare si prestava di fronte all’altare e si chiamava sacramentum militiae. Esso aveva una funzione propriamente sacramentale: era il momento nel quale gli dei si chinavano sul miles romano e ne modificavano lo stato personale. Dopo il giuramento i milites romani, infatti, potevano chiamarsi sacrati, poiché si riteneva che, durante il rito, ricevessero un supplemento di purezza, oltre che di forza e di coraggio.
Da quest’atmosfera di ritrovata purezza, trovò facile accoglimento la regola dell’onore militare, su cui si fonda il principio di supremazia speciale, che ancora oggi sopravvive nelle norme regolamentari che derogano ai principi costituzionali.
Il legislatore regolamentare ha ritenuto che il presunto onore del superiore sia sufficiente a compensare le limitazioni dei diritti costituzionali del sottoposto; in particolare, vi è la convinzione che la completa attuazione dell’art. 52 Cost., III comma, possa nuocere alla massima coesione interna del comparto militare (Cort. Cost. 449/99).
Però, non ci si è mai chiesti a cosa potrebbe nuocere, in tempo di pace, una totale ed ermetica coesione interna della polizia giudiziaria militarmente organizzata nel caso dovesse ricevere delle linee guida errate da parte dell’autorità politica. Quali le conseguenze sull’obbedienza militare? (Per un approfondimento, cfr. Ordini militari e disordini normativi di Cleto Iafrate).
E quali i contraccolpi sulla procedura penale?
La Direzione
Investigativa Antimafia
Nel 1991, in un contesto di grave emergenza mafiosa, con L. n. 410/1991 è stata istituita la Direzione Investigativa Antimafia (Dia), la Direzione nazionale antimafia (Dna) e la figura del Procuratore nazionale antimafia. La Dia è l’unico organismo investigativo interforze con competenza monofunzionale di contrasto alle organizzazioni mafiose.
La Dia, infatti, senza alcun vincolo territoriale, svolge attività d’investigazione preventiva; per di più, coprendo l’intero territorio nazionale e internazionale, esegue indagini di Polizia giudiziaria relative a delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili a tali attività.
La legge istitutiva fu ideata da Giovanni Falcone. Il magistrato ne avvertì la necessità mentre cercava di fare luce sulle infiltrazioni mafiose all’interno delle istituzioni. Falcone, presumibilmente, ritenne che lo strumento investigativo di cui disponeva, nonostante fosse molto efficiente contro la manovalanza mafiosa, andasse rafforzato per combattere la mafia oltre un certo livello.
Il magistrato perciò intervenne sulla linea gerarchica e sulla dipendenza funzionale.
Intrecciò e confuse nella struttura interforze uomini appartenenti a tre differenti linee gerarchiche (Interno, Difesa, Finanze), che fino ad allora erano state separate e alle dipendenze dei rispettivi Ministeri. Sicché nella Dia, poliziotti, carabinieri e finanzieri sono inseriti, secondo il loro grado, in un’unica gerarchia che è posta alle dipendenze di una struttura centrale. Il magistrato, attraverso l’intreccio delle tre linee gerarchiche, preservò la “Polizia giudiziaria interforze” da eventuali conseguenze sull’obbedienza militare dovute alla mancata attuazione dell’art. 52 Cost. (per un approfondimento, cfr. Il 13 dicembre ricorre l’anniversario del gran rifiuto della Corte costituzionale ai diritti dei militari di Cleto Iafrate). Inoltre, per meglio custodire l’autonomia del nuovo strumento investigativo, lo pose al di fuori delle articolazioni gerarchiche e strutturali del Dipartimento, probabilmente, al fine di non indurre in tentazione la parte malata della politica o, semplicemente, perché non credeva fino in fondo all’ordalia del giuramento militare.
Il geniale magistrato, con la L. 410/1991, “squadrò una procedura ad hoc, … un ordigno così efferato da richiedere sommessi interventi correttivi nella prassi”.
La prima fase di operatività della Dia fu, però, segnata da una serie di notevoli difficoltà di carattere organizzativo, che rischiarono di minarne fortemente la sua autonomia e incisività.
Tra le difficoltà ci furono quelle relative al reperimento delle risorse umane perché nessuno degli organi di Polizia che allora svolgevano attività specifica era disponibile a cedere il personale, soprattutto se questo era qualificato.
Le difficoltà sono state costantemente evidenziate sin dall’istituzione della Dia. Si riporta uno stralcio degli interventi di Giuseppe Tavormina, primo Direttore della Dia, e di Luciano Violante, rispettivamente nelle audizioni in Commissione antimafia del 16 marzo 2011 e del 29 marzo 2011.
Tavormina: “Signor Presidente, innanzi tutto ringrazio lei e i signori parlamentari che oggi hanno la pazienza e la bontà di ascoltarmi. … La prima fase di operatività della Dia, della quale parlai in occasione di una precedente audizione, avvenuta qui verso la fine del 1992 quando era presidente l’onorevole Violante, fu segnata da una serie notevole di difficoltà di carattere organizzativo. Ho di fronte a me il senatore Lauro, che è stato un testimone di ciò, perché a quell’epoca, naturalmente, queste difficoltà erano note a chi era presso il Ministero dell’Interno ricoprendovi incarichi di un certo riguardo. (…) Trovandoci noi sempre in cattive acque in ordine alla disponibilità di personale, mezzi, risorse e quant’altro, dopo l’eccidio di via d’Amelio chiedemmo di poter avere un numero di personale adeguato per portare avanti il compito di carattere operativo per cui esistevamo. Si arrivò così ad un’intesa, come al solito un po’ particolare, in virtù della quale Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza ci diedero a testa 80 persone, tra funzionari e collaboratori, per rinforzare il nostro organismo; inoltre, ricevemmo 240 unità che, aggiunte alle altre, arrivarono a quelle 800 totali a cui mi riferivo in fase di impostazione iniziale. E’ chiaro che gli organi dirigenti di quell’epoca conoscevano perfettamente le difficoltà in cui noi ci trovavamo.
Non mancava occasione, di volta in volta, per rappresentare che le nostre esigenze erano tali per cui avremmo avuto bisogno di ben altro.
Dirò di più. Mi piace sottolineare un aspetto: ricevemmo tanti di quei consensi da essere qualcosa di inaudito. Ad esempio, ritenevamo che a Milano andasse istituito un centro perché quella città era una piazza finanziaria di grandissimo rilievo, tanto è vero che poi fu attribuita a un colonnello della Guardia di finanza. Non avevamo, però, né mezzi, né risorse, né possibilità di avere una sede. Un imprenditore di Milano ci mise a disposizione due miniappartamenti in comodato d’uso a titolo gratuito (a piazza Diaz, dove c’è il monumento ai Carabinieri fatto da Dalla Chiesa).
L’affermazione che fece fu la seguente: «Se voi rischiate la pelle per noi, non capisco per quale motivo io, che sono tra coloro che beneficiano di tutto questo, non vi devo mettere nelle condizioni di poter svolgere un’attività operativa di un certo tipo anche a Milano»…”. (Senato della Repubblica – 4 – Camera dei deputati - Commissione antimafia 71º Resoconto Stenografico - 16 marzo 2011).
Violante: “… Devo dire che la Dia fu un’importante innovazione, che non fu ben tollerata dagli altri Corpi di polizia. Il coordinamento non lo può fare uno solo: ci vuole chi coordina e chi è coordinato. Se chi deve essere coordinato non si vuole far coordinare, c’è poco da fare. Ci sono moltissime ragioni per sfuggire al coordinamento e c’era una certa resistenza, da parte di tutti, nel farsi coordinare. Quindi l’idea di fondo, assolutamente centrale e importante (tale si è rivelata per molto tempo), è un’idea giusta che però non sempre è stata recepita dagli altri Corpi. (…) Esse però (Dia e Dna) sono state due grandi intuizioni, molto importanti per la lotta contro la mafia. È stato persino più facile realizzare un raccordo tra la Direzione nazionale antimafia e le autorità giudiziarie di quanto non sia stato realizzarlo tra la Dia e le autorità di Polizia” (Senato della Repubblica – 4 – Camera dei deputati Commissione antimafia 71º Resoconto Stenografico - 29 marzo 2011).
Oggi, a distanza di venti anni dalla strage di Capaci, quelle difficoltà si sono cronicizzate e aggravate. A tal proposito, riporto uno stralcio della lettera scritta il 26 marzo 2012 da Enzo Marco Letizia, segretario dell’Associazione Nazionale Funzionari di Polizia, al Sen. Giuseppe Pisanu, Presidente della Commissione Antimafia: “… Nonostante il sistema delineato dal legislatore del 1991 abbia allineato l’azione di contrasto alle organizzazioni criminali a modelli organizzativi già efficacemente collaudati in altri Paesi, la piena operatività della Dia è stata fortemente penalizzata da una serie di inadempienze normative e da azioni che rischiano di minarne fortemente l’autonomia e l’incisività che possono così riassumersi:
• la copertura della pianta organica viene attualmente assicurata attraverso la sola chiamata diretta del personale, impoverendo così il livello professionale degli operatori, come alcuni casi, anche recenti, hanno dimostrato, nonostante la legge istitutiva della Dia preveda un concorso unico nazionale riservato ad operatori con specifiche competenze in materia di contrasto alla criminalità organizzata, e solo per il 5% la copertura attraverso la chiamata diretta. E’ stata così snaturata la previsione normativa che mirava con questo meccanismo a garantire l’accesso alla Dia a personalità altamente qualificate;
• esistono carenze di organico, come evidenziato in recenti audizioni presso Codesta Commissione, nel corso delle quali si è fatto presente che la complessità dei compiti affidati alla Dia richiederebbe un organico di almeno 2500 persone. Attualmente presso la struttura antimafia prestano servizio poco più di 1300 persone, a livello nazionale; a ciò si aggiunga che il perseguimento degli obiettivi istituzionali è reso ancora più problematico in quanto non è stata data concretezza all’idea di coordinamento prevista dall’art. 3, comma 4 L. 410/91, che letteralmente dispone “Tutti gli ufficiali ed agenti di Polizia giudiziaria debbono fornire ogni possibile cooperazione al personale investigativo della Dia (…..) devono costantemente informare il personale investigativo della Dia, incaricato di effettuare indagini collegate, di tutti gli elementi informativi ed investigativi di cui siano venuti comunque in possesso e sono tenuti a svolgere, congiuntamente con il predetto personale, gli accertamenti e le attività investigative eventualmente richiesti”;
• (…) a fronte della crescente complessità delle attività di contrasto delle organizzazioni mafiose, si è assistito ad una costante riduzione dei fondi, passati dai 28 milioni di euro nel 2001 ai 9 milioni di euro nel 2012;
• (…) recenti tentativi di disarticolazione della struttura hanno condotto all’istituzione di organismi che duplicano l’attività della Dia, quali, per esempio, il Gicex, Gicer, Gitav, gruppi che si occupano di appalti, da sempre materia di competenza della Struttura antimafia, collocandoli presso la Direzione Centrale di Polizia Criminale, dotati di poteri di indagine, peraltro, meno incisivi. È ovvio che se proprio si volevano costituire dei gruppi di lavoro specializzati, per la Tav, per l’Expo e per la ricostruzione dell’Aquila, la logica avrebbe voluto che questi fossero incardinati all’interno della Direzione Investigativa Antimafia, poiché essi avrebbero potuto utilizzare al meglio i poteri investigativi conferiti dalla legge al Direttore della Dia, che come è noto valgono su tutto il territorio nazionale e non risentono di alcun limite provinciale, o di ricerca di informazioni che ogni ente pubblico o titolare di un’autorizzazione pubblica deve assecondare. La costituzione di quei gruppi esterni alla Direzione Investigativa Antimafia è percepita come l’ennesimo “provvedimento manifesto”.
In conclusione, anche alla luce delle recenti inchieste che hanno fatto emergere l’intreccio tra criminalità organizzata e corruzione, proprio un organo interforze può certamente assumere un ruolo determinante nel costituendo sistema anti-corruzione. Infatti non vi è settore della pubblica amministrazione nel quale le indagini non abbiano registrato e dimostrato il dispiegarsi dell’illecita influenza dei gruppi criminali, direttamente, ovvero per il tramite di figure imprenditoriali o politiche espressione degli stessi interessi criminali. Così come non vi è indagine su organizzazioni di stampo mafioso che non rilevi preoccupanti fenomeni di penetrazione corruttivo-collusiva nelle istituzioni.
Infine benché siano rassicuranti le dichiarazioni del vertice della struttura, ma non potrebbe essere altrimenti, va affermato senza alcun tentennamento che le ultime manovre finanziarie hanno inciso negativamente sia sull’aspetto organizzativo che operativo della Dia: basta chiederlo a campione ai vari agenti operativi che per verificare o sviluppare ipotesi investigative spesso devono rinunciare all’azione investigativa perché mancano i fondi per le missioni.
Pertanto si chiede, se è reale la volontà di tutta la classe politica di combattere seriamente l’infiltrazione nel tessuto economico sociale delle organizzazioni criminali, che venga data attuazione ai principi fondanti la L.410/91, ripresa in toto dal Codice Antimafia, e si ridiano ad un settore così delicato i fondi tagliati in modo scellerato dalle ultime manovre finanziarie. Nonché si ponga fine a modalità di intervento per il contrasto a fenomeni mafiosi, attraverso provvedimenti estemporanei che vanno nella direzione opposta alle imprescindibili esigenze di un coordinamento efficiente.
Vorremmo tanto una politica saggia come quella dell’imprenditore di Milano che nel 1992 per consentire l’apertura della sede nel capoluogo lombardo mise a disposizione due mini-appartamento in comodato d’uso a titolo gratuito”.
Questi i sommessi interventi correttivi intervenuti nella prassi!
E’ veramente paradossale che nonostante manchino i fondi per potenziare la DIA, vengano istituite nuove strutture di intelligence e poste alle dipendenze funzionali di autorità politiche (cfr. Interrogazione a risposta in Commissione 5 – 03357 presentata da Rosa Maria Villecco Calipari martedì 3 agosto 2010, seduta n. 364).
Esposizione lunga, ma ne è valsa la pena, perché a questo punto si possono tirare le somme.
Depotenziare la DIA, disarticolarla, minarne l’autonomia o, più in generale, ostacolarla rievoca gli antichi riti ordalici; oltre a denotare una scarsa ambizione da parte della politica, la quale si accontenta di sconfiggere solo il braccio esecutivo della mafia e non anche la mafia dai colletti bianchi.
E’ fin troppo chiaro dove punti una larga corrente di opinione o meglio d’interessi: si tenta di stabilire un controllo o comunque un condizionamento sull’azione penale.
Mi rincresce molto che la società civile non si sia mai interessata ai regolamenti militari, ritenendoli una prerogativa dell’ente. Dovrebbe iniziare a farlo, giacché essi incidono, non solo sui diritti dei militari, ma anche sulla giustizia, sull’ordine e la sicurezza pubblica, sulla distribuzione del reddito e sulla spesa pubblica.
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