Nell’ultimo decennio si è registrato un significativo
cambio di prospettiva: da strategie operative
reattive, tipiche di un modello burocratico di controllo
sociale, si è passati a un approccio che richiede
una prevenzione attiva del crimine, portata avanti
con il decisivo supporto della comunità
“C’è più sicurezza insieme”: il titolo del calendario 2012, nonché la felice formula con la quale sintetizzare il crescente rapporto di vicinanza tra la Polizia di Stato e i cittadini.
Nell’ultimo decennio si è registrato un significativo cambio di prospettiva nello sviluppo delle politiche di sicurezza pubblica: da strategie operative reattive, tipiche di un modello burocratico di controllo sociale, si è passati a un approccio che richiede una prevenzione attiva del crimine, portata avanti con il decisivo supporto della comunità.
Gli stessi studi sulle relazioni tra polizia e comunità indicavano come i cittadini volessero la polizia al loro fianco, più vicina ai bisogni quotidiani di sicurezza.
Questo nuovo approccio, pur declinato attraverso diversi modelli (Team Policing; Neighborhood Foot Patrol; Community Oriented Policing; Problem Oriented Policing), ha come obiettivo quello di sollecitare le Forze di polizia e i cittadini a lavorare insieme nella prevenzione del crimine e dei disordini sociali, auspicando una stabile collaborazione.
Questi modelli, attraverso il contributo della comunità, aggiungono un elemento vitale, proattivo, alle tradizionali attività di polizia, orientando le risposte oltre il singolo episodio criminale, verso le complessive criticità del territorio.
Il sistema di community policing introdotto inizialmente nei Paesi anglosassoni, ed esteso ad altre esperienze, ha spinto i cittadini ad assumere un ruolo attivo nella gestione della sicurezza, per ridurre gli episodi di criminalità e incrementare la soluzione dei reati accertati.
La polizia di comunità ha inteso rispondere in maniera appropriata a tre elementi di criticità: l’aumento del crimine, l’aumento della paura del crimine, l’assoluta mancanza di relazioni tra polizia e comunità.
La community policing sollecita: l’impiego della pattuglia appiedata per facilitare una comunicazione tra polizia e utenza, anche attraverso l’attivazione di strutture e la gestione di procedure che consentano la consultazione dei cittadini (community consultation arrangements); l’apertura degli uffici di quartiere, al fine di avere una conoscenza approfondita della struttura economica, sociale e culturale della popolazione; una maggiore attenzione del personale di polizia verso le priorità che i cittadini rappresentano, così da sviluppare un’efficace attività di partenariato nella prevenzione della criminalità; il coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni e, con modalità predefinite, nella sorveglianza del territorio; l’intensificazione di una presenza discreta degli agenti sul territorio, con finalità dissuasiva e rassicurante; l’orientamento dell’azione di polizia per la soluzione dei problemi (community oriented policing) secondo il processo: tipicizzazione degli eventi; identificazione delle cause; individuazione degli strumenti di intervento più idonei.
La polizia di comunità rappresenta sia una strategia di comprensione del tessuto sociale sia un modello organizzativo degli interventi sul territorio.
L’adozione del modello di polizia di comunità sta crescendo in maniera esponenziale: essa più che un progetto, una pratica o un metodo, è un nuovo modo di pensare il ruolo della polizia, una filosofia che influisce sull’operatività e sulla stessa organizzazione delle Forze dell’ordine.
La polizia di comunità non è un programma, non è fare pubbliche relazioni, non è una maniera soft di rispondere al crimine, non è paternalismo, non è una soluzione per tutto.
Prima che ci fosse la disponibilità delle auto di servizio, gli agenti pattugliavano il territorio a piedi, conoscevano personalmente i residenti, le loro frequentazioni, i loro rapporti di affari, di lavoro, di interesse.
Questo contatto personale favoriva una relazione intima tra polizia e comunità, con uno scambio di informazioni continuo su tutto quanto potesse generare criticità nella pacifica convivenza sociale.
Il semplice aumento di agenti, allora, non è la risposta per contrastare l’aumento del crimine.
La polizia e la comunità devono creare una partnership nelle attività di controllo sociale e sviluppare relazioni positive.
Quanti credono che le Forze di polizia siano la prima difesa contro la criminalità di strada sono in errore: tale compito spetta agli stessi cittadini.
La gente comune controlla il crimine, gli agenti di polizia sono solo i catalizzatori di tale controllo.
Le Forze di polizia non sono in grado di gestire il crimine in assenza del contributo della comunità.
La polizia di comunità promuove nuove strategie organizzative, richiede l’adozione sistematica delle partnerships, l’utilizzo di tecniche di problem-solving, per individuare e rimuovere le condizioni che sviluppano il crimine, i disordini sociali, le inciviltà urbane.
La polizia e la comunità locale devono confrontarsi, facendo proprie forme di collaborazione di tipo innovativo, prevedendo moduli di intervento diretti a favorire la partecipazione della gente comune, sviluppando un’organizzazione più snella e migliori meccanismi premiali.
L’esigenza di lavorare in partenariato pone l’istituzione-polizia nella condizione di rivedere la propria mission e di adeguare il proprio funzionamento, superando “la burocrazia meccanicistica” che si fonda sui valori dell’efficacia a breve termine e che dissuade dall’assunzione di responsabilità, dall’impegno personale, dall’innovazione.
Il cittadino deve concorrere nel controllo sociale perché in grado di percepire direttamente i problemi e le risorse del proprio ambiente di vita, sollecitando l’identificazione dei disordini e la definizione delle strategie per affrontare e ridurre, quantomeno, il sentimento di insicurezza che ne consegue.
Le Forze di polizia devono soddisfare le necessità e i bisogni maggiormente sentiti dai membri della comunità, intervenendo sulle precondizioni immediate del crimine, secondo l’approccio del problem solving.
In proposito, può essere utile l’impiego del modello Sara: Scanning; Analysis; Response; Assessment.
Scanning (Monitoraggio): identificare e dare priorità ai problemi.
Gli obiettivi del monitoraggio sono: identificare i problemi e determinarne la natura e la gravità. In questa fase, solitamente, vengono anche definiti i soggetti da coinvolgere nella risoluzione del problema. Un problema può essere rappresentato in maniera diversa, così da essere considerato di pertinenza maggiore della polizia o della comunità. A seconda della gravità del problema, assegnata a seguito dell’ascolto della comunità, si individueranno le priorità, e a seconda dell’interesse prevalente in ordine alla soluzione del problema, si deciderà a chi e in che modo assegnare compiti specifici.
Analysis (Analisi): verificare cosa si conosce circa i problemi.
L’analisi è il cuore del processo problem solving. Gli obiettivi dell’analisi sono: sviluppare una comprensione adeguata delle dinamiche del problema, comprendere i limiti delle risposte correnti, stabilire eventuali correlazioni e procedere con la verifica di eventuali relazioni di causa-effetto. Nella fase dell’analisi è consigliabile valutare attentamente ogni aspetto del triangolo del crimine: vittima, autore del reato e luogo.
Response (Risposta): sviluppare soluzioni che portino alla riduzione del numero e della gravità dei problemi.
La fase della risposta nel modello Sara implica lo sviluppo di strategie per risolvere il problema, identificato attraverso il monitoraggio. La risposta segue logicamente quanto emerso nella fase dell’analisi ed è tarata su quel problema specifico. L’obiettivo della risposta può variare dall’eliminazione totale del problema, alla sua riduzione, alla diminuzione dei danni causati dallo stesso.
Assessment (Valutazione): valutare il successo delle risposte.
La valutazione serve a determinare se le strategie attuate per la risposta al crimine abbiano funzionato o meno. Questo tipo di informazione non solo serve per valutare gli sforzi attuali, ma anche e soprattutto, per fornire dati utili allo sviluppo di strategie future.
L’intero processo va sviluppato in senso circolare piuttosto che lineare, in quanto, a seconda degli esiti della fase valutativa, è possibile giudicare positivamente le determinazioni assunte oppure ripartire con la sequenza.
Non esiste un modello specifico di community policing: ogni intervento va tarato sui bisogni e sulle risorse della singola comunità.
La scelta della community policing comporta per il personale di polizia operante l’assegnazione di un’area territoriale determinata: da tale responsabilizzazione deriva l’obbligo, ma anche l’opportunità, di incidere direttamente sulla riduzione dei problemi di quell’area.
La costante supervisione è un altro elemento decisivo per l’implementazione della community policing: il supervisore deve sollecitare, promuovere, facilitare l’azione di chi, operando su strada, matura un contatto diretto, quotidiano, con le specifiche realtà territoriali e sociali.
I principi che devono guidare la polizia di comunità, così come esplicitati da Trojanowicz e Bucqueroux (autori di svariati libri sull’argomento), sono ampiamente condivisi da chi ha esperienza nella pratica di polizia: aumentare l’interazione sociale, la coesione e il senso di comunità; aumentare la cooperazione tra polizia e comunità nella lotta al crimine; aumentare la consapevolezza della comunità su questioni di sicurezza pubblica; aumentare la partecipazione della comunità nell’elaborazione di piani di prevenzione del crimine; diminuire la paura del crimine; sviluppare una maggiore capacità di ascolto e di empatia in coloro che svolgono attività di polizia.
*Dirigente Reparto Prevenzione Crimine
“Emilia Romagna-Orientale”
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