La violenza urbana consuma il capitale umano
dei ceti deboli, compromettendo in maniera
determinante una loro emersione sociale. In tale
situazione occorre implementare un nuovo modello
di intervento, che coniughi l’attività delle Forze
dell’ordine, la solidarietà e la prevenzione
Quando si analizza la criminalità nel contesto urbano vengono individuate diverse cause alla sua origine.
Tutte le ricerche intraprese, sia in ambito nazionale sia internazionale, hanno dimostrato che non esiste una singola causa della delinquenza, quanto piuttosto delle concause: quelle sociali, quelle istituzionali, quelle collegate all’ambiente fisico urbano.
L’esclusione sociale a seguito di lunghi periodi di disoccupazione o marginalizzazione, l’abbandono scolastico, l’assenza di socializzazione all’interno della famiglia, sembrano essere i fattori più ricorrenti tra le cause sociali della delinquenza urbana.
Passando alle cause istituzionali della criminalità urbana, è evidente l’incapacità del sistema penale (tribunali, polizia, carceri) di gestire i casi di piccola delinquenza.
Sin dagli anni Sessanta, in Italia per evidenti motivi, i Corpi di polizia hanno dedicato un’attenzione prevalente alla lotta contro la grande criminalità, investendo sia in termini economici che umani sulle tecnologie e sugli approcci legati a quel tipo di obiettivo.
In concomitanza, l’uso delle pattuglie appiedate in uno spazio determinato è diventato inusuale, mentre è aumentato quello di pattuglie motorizzate operanti su ampie aree.
Tutto ciò ha aumentato notevolmente le distanze tra la polizia e i cittadini.
Quanto al sistema giudiziario, questo evidentemente è inidoneo ad affrontare l’aumento dei crimini di minore allarme sociale, che pure pregiudicano la vita quotidiana e portano a una generale percezione di insicurezza.
La giustizia è lenta, incapace di intercettare e risolvere i conflitti in ambito urbano, sovraccarica di lavoro, e si serve di metodologie operative obsolete.
Le decisioni prese riguardano davvero poca parte della mole di reati urbani; le stesse sentenze non offrono risposte adeguate alle piccole infrazioni che necessiterebbero di altre, e più rapide soluzioni.
Le prigioni, sottoposte alla critica delle scienze sociali e dello stesso sistema penitenziario per l’assoluta incapacità di rieducare, costituiscono spesso delle vere e proprie scuole per lo sviluppo di comportamenti criminali.
Tra le cause del crimine variamente collegate all’ambiente fisico urbano, sono evidenti: la scarsa attenzione alla gestione dei processi di urbanizzazione, la presenza di servizi sociali inadeguati, l’assenza di adeguate politiche di sostegno e di inclusione sociale.
La conseguenza automatica di questo stato di cose è lo sviluppo di un sentimento di insicurezza generalizzato e non meglio specificato, comune a molte popolazioni urbane, che qualcuno, a ragione, ha definito “frustrazione securitaria”.
Questa percezione cristallizza tutte le paure della popolazione: la crisi economica; l’incertezza del posto di lavoro; la reiterata violazione di norme sociali condivise; le diversità etniche e comportamentali in comunità non ancora culturalmente mature; il timore delle malattie; il timore della povertà.
Essa proviene da un’impressione di abbandono, debolezza, dalla mancata soluzione di alcuni crimini efferati, e dalla moltiplicazione esponenziale della piccola criminalità e del vandalismo.
A livello urbano, la percezione di insicurezza può portare anche alla autoesclusione dal vicinato, allo sviluppo di una “architettura della paura”, alla stigmatizzazione di alcuni quartieri o comunità, al rifiuto da parte dell’Amministrazione pubblica di investire in alcune aree territoriali, e alla formazione di istanze violente tra i cittadini, che possono essere spinti alla vendetta personale, in autonomia rispetto all’azione dello Stato democratico.
A causa del suo carattere emotivo, questa percezione di insicurezza non di rado esplode in reazioni sproporzionate tali da compromettere le stesse fondamenta democratiche e civili di una comunità.
La seconda conseguenza dell’aumento del crimine è l’impatto che l’insicurezza da esso derivante può avere sulle classi sociali più deboli.
Se è vero che tutte le classi sociali sono in un certo modo interessate dall’insicurezza, la ricerca dimostra che essa ha effetti più intensi sui poveri, sugli anziani, sui minori, sui disoccupati, sugli emarginati.
A seguito di questa vulnerabilità, la violenza urbana consuma il capitale umano dei ceti deboli, compromettendo in maniera determinante una loro emersione sociale.
In tale situazione, occorre implementare un nuovo modello di intervento, che coniughi l’attività delle Forze dell’ordine, la solidarietà e la prevenzione.
Il riferimento alle Forze dell’ordine implica che è evidentemente imprescindibile un’attività di repressione del crimine.
Il principio di solidarietà impone che nessun individuo o gruppo di persone (ex detenuti, abitanti di quartieri a rischio, immigrati, minoranze etniche o razziali, ex tossicodipendenti) venga criminalizzato o stigmatizzato dalla società o da una parte di essa.
La prevenzione intende eliminare le cause delle condotte antisociali prima che queste assumano carattere di criticità, creando un controllo sociale che garantisca il rispetto dei diritti attraverso l’educazione, la persuasione, e la riabilitazione sociale.
Ai tradizionali modelli preventivi, strettamente ancorati alla funzione della pena, si è affiancata un’idea diversa di prevenzione, più complessa e articolata.
Gli stessi protagonisti della prevenzione sono cambiati: non più, o non solo, gli organi penali dello Stato, ma gli Enti locali, le polizie locali, i servizi sociali, il volontariato, le società di sicurezza privata, e soprattutto, la società civile.
Tale cambiamento ha riguardato anche i destinatari della prevenzione: non più solo gli autori di reato, ma le vittime, reali o potenziali, gli spazi urbani, l’intera comunità.
La nuova prevenzione è diretta a promuovere un’effettiva collaborazione tra i soggetti indicati, rinunciando a interventi globali e orientando a una soluzione locale delle criticità sociali.
Negli ultimi decenni sono state proposte diverse classificazioni dell’attività preventiva.
Quella che sembra meglio rappresentare, in termini generali, le diverse declinazioni ed inferenze interne della prevenzione, considera tre profili: la prevenzione situazionale, la prevenzione sociale e la prevenzione comunitaria.
La prevenzione situazionale ipotizza che intervenire sul contesto sociale, anche con piccoli accorgimenti, può avere degli effetti riduttivi dei fenomeni criminosi.
La prevenzione situazionale consiste, essenzialmente, nel cambiamento delle condizioni ambientali che favoriscono il crimine: illuminando di più i luoghi nei quali si manifesta maggiormente l’attività criminale; installando telecamere a circuito chiuso nei luoghi pubblici; potenziando la vigilanza degli spazi in cui si sviluppano le attività criminali; garantendo la sicurezza nei luoghi di aggregazione sociale; proibendo l’utilizzo di armi; evitando il consumo di sostanze alcoliche in alcuni luoghi e/o in alcuni orari.
Nella prevenzione situazionale si fa riferimento alla teoria della scelta razionale (rational choice theory), con uno spostamento dell’interesse criminologico dalle possibili motivazioni nascoste dietro l’inclinazione a delinquere, alle opportunità create da particolari condizioni ambientali.
All’interno della prevenzione situazionale, Ronald Clarke individua cinque tipologie di misure attuabili:
1. Misure che aumentano le difficoltà per il potenziale autore di reato e rendono gli obiettivi meno vulnerabili (es. utilizzo di barriere fisiche, controllo degli accessi agli edifici);
2. Misure che aumentano i rischi per il potenziale autore di reato, prevedendo una sorveglianza formale, (Forze di polizia pubbliche o private), informale (semplici cittadini o persone che rivestono un ruolo particolare: es. portieri, custodi, conducenti di mezzi pubblici) o naturale (potenziamento dell’illuminazione pubblica);
3. Misure che rendono impossibile o riducono sensibilmente i vantaggi derivanti dalla commissione di un reato (es. sistemi per macchiare le banconote in caso di forzatura/stradicamento della cassaforte, cellulari con possibilità di blocco in assenza della sim assegnata);
4. Misure che mirano alla riduzione del conflitto e della frustrazione (di carattere evidentemente sociale);
5. Misure volte alla rimozione delle giustificazioni utilizzabili da parte degli autori di reato, attraverso la promozione di regole chiare e precise e di limiti visibili.
La prevenzione sociale si propone di intervenire con programmi in grado di modificare le motivazioni di fondo che spingono a deviare dalle norme, assegnando un ruolo attivo agli stessi membri della comunità.
La prevenzione sociale non si sviluppa attraverso l’implementazione di generici programmi, ma attraverso concreti progetti elaborati per soddisfare specifiche esigenze.
Diversamente dalla prevenzione situazionale, questa strategia preventiva riposiziona al centro dell’attenzione l’autore del reato, considerandolo non nella sua dimensione individuale, ma nel suo più ampio contesto sociale.
L’obiettivo principale della prevenzione di tipo comunitario è quello di coordinare le pratiche formali delle Forze di polizia per il controllo del territorio e le pratiche informali messe in atto dalla comunità, sviluppando una vigilanza meno ufficiale ma più concreta.
La prevenzione comunitaria, per reagire all’isolamento in cui si trovano le Forze dell’ordine, propone di incrementare la quantità e la qualità dei rapporti tra polizia e popolazione, incoraggiando i cittadini ad assumere un ruolo attivo nella gestione della sicurezza, in maniera tale che le competenze professionali degli agenti e la fattiva collaborazione degli abitanti possano coesistere ed interagire.
Le parole chiave di questo approccio preventivo sono quindi: partnership, attivazione comunitaria, comunicazione e ascolto.
Si è parlato anche, riferendosi alle peculiarità della prevenzione comunitaria, di una “filosofia delle tre C”: consultazione, consenso e collaborazione.
La prevenzione nelle tre declinazioni presentate si interessa delle cause, non solo dei sintomi, e quindi può avere effetti più duraturi; promuove la solidarietà, la partecipazione dei cittadini e l’implementazione della buona amministrazione; rende possibile formare partnership locali con le comunità; presenta vantaggi economici rilevanti; aiuta la migliore pianificazione della sicurezza urbana (negli spazi pubblici, nelle aree ricreative, nelle infrastrutture e nei trasporti); protegge meglio i soggetti socialmente più deboli: bambini, anziani, disabili, donne; promuove la responsabilità civile e la creazione della consapevolezza comunitaria; garantisce supporto alle attività di polizia; favorisce la reintegrazione dei delinquenti e l’assistenza alle vittime del crimine.
*Dirigente Reparto Prevenzione Crimine
“Emilia Romagna-Orientale”
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