Con i suoi 27 miliardi, l’Italia è all’ottavo posto
per spese militari al mondo. L’intenzione è quella
di risparmiare, ma è polemica per l’acquisto
dei caccia F35 Joint Strike Fighter, stipulato
nel 1998 che si sta rivelando un fallimento
tecnologico dai costi in continua salita
Dall’inizio dell’anno, le copiose polemiche relative alla riforma dello strumento militare sono giunte a toccare anche la dispendiosa presenza dei contingenti italiani nelle missioni multinazionali all’estero. Chiaramente, si tratta di due aspetti strettamente collegati tra loro, visto che proprio la maggiore operatività ed efficienza nelle missioni sembrerebbe essere una delle considerazioni alla base della riforma stessa. Costano 1,4 miliardi di euro ogni anno. A questi si aggiungono 20 miliardi per il mantenimento delle Forze armate e poco meno di 6 miliardi per l’acquisto di armi e armamenti. Circa 27 miliardi, che fanno “conquistare” all’Italia l’ottavo piazzamento per spese militari al mondo.
Il 22 febbraio scorso, il Senato ha convertito in legge il decreto n. 215 del dicembre 2011, dando il via libera allo stanziamento, appunto, di 1,4 miliardi di euro a copertura delle missioni per tutto l’anno. Tale importo va valutato in funzione del bilancio complessivo della funzione difesa che quest’anno ammonterà a 13,6 miliardi di euro a fronte dei 14,3 dello scorso anno.
Rispetto al 2011, limitatemente ai fondi previsti per le missioni, si ravvisa un risparmio di 240 milioni, quasi interamente proveniente dalla cessazione della spedizione libica che è costata ufficialmente 202. In termini umani, senza contare i circa 2000 militari che, impiegati contro il regime di Gheddafi, sono rimasti dislocati sulle navi o in Italia, quest’anno verranno inviati oltremare 6.500 militari, “numero più basso degli ultimi anni” come ha chiosato il ministro Di Paola.
Di questi, circa i due terzi (4.100 unità) verranno disposti per la missione in Afghanistan alla quale è stato accordato pieno rifinanziamento: costerà 757 milioni di euro (rispetto agli 811 dello scorso anno) ai quali vanno sommati i 41 milioni investiti nella cooperazione allo sviluppo in parte recuperati dal rientro del provincial reconstruction team, la struttura militare per la ricostruzione civile che il governo di Kabul, mirando a gestire direttamente gli aiuti internazionali, non vorrebbe più.
Al momento non c’è stato nessun annuncio ufficiale di ritiro, anche perché tale operazione ha un’importanza mediatica non trascurabile, conferendo all’intera missione una visibile veste umanitaria.
Se rimarrà forte la presenza delle nostre forze in Medio Oriente, nell’operazione in Libano, dove comunque si registra una riduzione del contingente di circa 600 unità (da 1780 militari a 1150) corrispondente ad un risparmio di 40 milioni rispetto ai 198 del 2011, cesserà del tutto l’impegno in Iraq e i circa 100 istruttori di base a Baghdad con la Nato training mission, vista la fine della presenza militare statunitense, verranno rimpatriati. Stessa sorte toccherà ai piccoli contingenti impegnati nelle missioni di Osservazione europee in Congo e Georgia.
Un considerevole incremento della spesa si registra per la missione in Kosovo. Qui, dai 70 milioni del 2011 si è passati a 100 milioni e, nel corso di quest’anno, verranno inviati altri 800 uomini a fronte dei 650 già presenti sul campo.
Sono stati altresì prorogati gli impegni al largo del Corno d’Africa, con la missione antipirateria della Nato (Ocean Shield) e quella omologa dell’Unione Europea (Atalanta), per un totale di 50 milioni di euro contro i 45 dell’anno passato.
Infine, come accennato precedentemente, sarà ridotto il numero di soldati adibito all’operazione in teatro libico, che passerà dai 1890 del 2011 a soli 100 uomini. Infatti, cessate le ostilità e deposto il regime, le nostre Forze armate non dovranno più sostenere la missione Nato e quel centinaio di unità servirà come supporto alla missione addestrativa Unsmil.
Nel complesso, dunque, gli impegni italiani all’estero restano gli stessi degli anni precedenti (come da chiara volontà di Usa e Nato) nonostante i tagli al bilancio della funzione difesa e il doloroso piano di revisione delle Forze armate. Anzi, addirittura rafforziamo i nostri obblighi militari oltremare, sebbene attraverso una riduzione simbolica del numero complessivo di truppe e stanziamenti, che risultano più sostanziosi rispetto al progressivo calo dei fondi economici disponibili. L’impressione, attualmente, è quella di uno strumento militare sempre più orientato verso un impoverimento e troppo sbilanciato in onerose missioni che rischia di non potersi più permettere.
Sulla scia di tali considerazioni va posta la polemica concernente l’acquisto dei caccia F35 Joint Strike Fighter. Tale modello di cacciabombardiere è il risultato di un programma avviato nel 1997 dagli USA e il primo memorandum d’intesa con l’Italia risale al 1998, firmato dall’allora ministro D’Alema. Nel 2001 la statunitense Lockheed Martin si aggiudica la commessa per la produzione di circa 2600 velivoli per Washington e Londra. Il programma coinvolgeva, inoltre, altri otto partner: Olanda, Danimarca, Norvegia, Turchia, Canada, Australia, Israele e Italia.
Tra le grandi aziende che hanno sviluppato l’F35 figura anche Alenia Aeronautica, controllata da Finmeccanica, che riceve nel 2009 la commessa dall’Italia di 13 miliardi di euro (da “spalmare” fino al 2026) per 131 aerei da produrre nello stabilimento di Cameri (Novara). Nel frattempo, i costi cominciano a lievitare a causa della necessità di perfezionare e aggiornare la tecnologia con cui è equipaggiato il caccia e il costo unitario di 70 milioni di dollari, stimato nel 2001, è cresciuto fino ai 133 milioni di dollari di oggi, vale a dire 97 milioni di euro a velivolo. Attualmente, dopo nove anni di sviluppo e quattro di fabbricazione, le tecnologie critiche non sono mature, i processi di fabbricazione non sono a punto e le prove non sono complete. Quindi il prezzo di questa operazione potrebbe continuare a crescere stratosfericamente.
Nonostante la riduzione della commessa da 131 a 90 caccia, apportata dai tagli alla funzione difesa imposti dal recente piano di revisione delle Forze armate voluto dal ministro Di Paola, la spesa per questi aerei sembra essere ancora troppo onerosa, se non addirittura ingiustificabile. Infatti, negli ultimi mesi, sono state diverse le voci che si sono espresse in materia, poche a favore della conferma dell’acquisto degli F35, molte contro.
Se i sostenitori fanno leva sulla necessità di essere tecnologicamente all’avanguardia e alla pari delle altre forze Nato, i detrattori sottolineano i costi altissimi e la scarsa affidabilità di un mezzo la cui progettazione è ancora in fieri tra mille difficoltà.
Nel mezzo rimane, invece, una questione che si potrebbe rivelare dirimente, cioè la clausola contenuta in un altro memorandum di intesa, sottoscritto dall’Italia nel 2006, la quale prescrive che l’eventuale rinuncia da parte di un Paese partner non prevede penali, ma lo obbliga a caricarsi dei costi aggiuntivi provocati dalla propria defezione.
Vale a dire che se abbandonassimo il programma, dovremmo pagare i caccia ai nostri “alleati”, europei e non, senza avere in cambio nulla. A correggere il tiro di questa clausola, però, va detto che alcuni degli altri Paesi partner (Norvegia, Canada e Turchia), per diverse ragioni, hanno rinegoziato l’acquisto di un velivolo tanto costoso quanto non ancora perfettamente funzionante.
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