Nel ridimensionamento dei ranghi e dei mezzi
di Esercito, Aviazione e Marina si scontrano esigenze finanziarie
e la dotazione di tecnologie avanzate. Il ministro Di Paola
ha dichiarato: “Abbiamo uno strumento militare sovradimensionato
e sottocapitalizzato. Per ogni 100 euro di ricchezza nazionale
prodotta, 90 centesimi vanno alle Forze armate, contro una media
di 1 euro e 60 centesimi dell’Europa. E queste risorse vanno per il 70%
(contro il 50% dell’Europa) al personale e solo il restante 30%
all’operatività ed agli investimenti”
Rigore, equità, crescita. Senza dubbio, è questo il trinomio che sottende la “spending review” attualmente imperante in Italia e anche le Forze armate non ne sono esenti. Infatti, dall’inizio dell’anno, il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola ha enucleato, in più occasioni, la necessità di riformare lo strumento militare nazionale. In prima battuta l’8 febbraio al Quirinale, presentando il piano al Consiglio supremo della Difesa e al Presidente della Repubblica Napolitano, poi il 14 febbraio, di fronte al Consiglio dei Ministri e, il giorno seguente, alle Commissioni difesa della Camera e del Senato riunite in seduta congiunta. Dopo l’approvazione del Governo del ddl. il 6 aprile scorso, le proposte di riassetto sono confluite nel dossier “Delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale”, redatto dall’Ufficio ricerche nel settore della politica estera e di difesa del servizio studi del Senato, recante data maggio 2012.
Le motivazioni che stanno alla base di tale progetto decennale di revisione sono essenzialmente di tre ordini: il primo è di carattere economico, prevedendo l’allineamento al trend europeo relativo alla spesa militare; il secondo muove dall’analisi dell’evoluzione e del conseguente mutamento del quadro geopolitico mondiale, mentre il terzo prende le mosse dall’analisi dell’ordinamento attuale delle Forze armate italiane.
Se, fino al 1989, la contrapposizione Est/Ovest definiva con chiarezza il contesto in cui agire, oggi il quadro geostrategico sembra caratterizzato da una maggiore fluidità, risultato di più fattori che concorrono insieme. Innanzi tutto lo spostamento d’asse degli equilibri, effetto dell’emergere di nuovi attori globali come Cina, India e Brasile su tutti; in seconda istanza i nuovi rischi apportati dal processo di globalizzazione, che ha investito anche il terrorismo; in terzo luogo la revisione, annunciata dagli Stati Uniti, della loro strategia di difesa. Attualmente la difesa dell’Italia si fa non tanto sulle frontiere nazionali, quanto piuttosto “a distanza”, cioè là dove le crisi, le emergenze e le minacce nascono, si manifestano e si alimentano. Da questo scenario discendono in modo logico i requisiti che le Forze armate italiane devono avere per essere pienamente interoperabili con quelle degli alleati, vale a dire essere tecnologicamente all’avanguardia e proiettabili, cioè in grado di svolgere missioni cooperative all’estero.
Tali requisiti sembrano raggiungibili attraverso due obiettivi che il Ministero ha così elaborato: migliorare il livello qualitativo e tecnologico dello strumento militare nazionale, per renderlo pienamente interagibile con il sistema di difesa e sicurezza sia della UE che dell’Alleanza atlantica, e ottimizzare la ripartizione delle risorse assegnate alla “funzione difesa” tra le diverse voci di spesa (personale/esercizio/investimenti), in modo che essa sia in armonia con gli standard europei.
Attualmente, in Italia, il 70% delle risorse destinate alla “funzione difesa” è assorbito dalle spese per il personale, residuando, per ciò che riguarda operatività e investimento, rispettivamente il 12% e il 18%, a fronte della media europea che si attesta su proporzioni del 50% per il personale e 50% per le altre due voci, equamente ripartite.
Inoltre, a seguito dei diversi interventi di riduzione della spesa pubblica succedutisi negli ultimi anni, l’Italia può destinare attualmente al settore difesa solo lo 0,84% del Pil rispetto all’1,01% del 2004 e alla media europea, che si attesta sull’1,61%.
A chiosa di questi dati, riecheggiano perentorie le parole del Ministro Di Paola: «Abbiamo uno strumento militare sovradimensionato e sottocapitalizzato. Per ogni 100 euro di ricchezza nazionale prodotta, 90 centesimi vanno alle Forze armate, contro una media di 1 euro e 60 centesimi dell’Europa. E queste risorse vanno per il 70% (contro il 50% dell’Europa) al personale e solo il restante 30% all’operatività ed agli investimenti. Serve dunque una riforma che riequilibri le risorse da mettere a disposizione: questi 90 centesimi debbono essere spesi bene».
I provvedimenti concreti che il piano si propone di applicare entro il 2024 prevedono: 1) la revisione, in senso riduttivo, dell’assetto strutturale e organizzativo del Ministero della Difesa, compresa l’Arma dei Carabinieri (limitatamente ai compiti militari), con interventi tali da assicurare l’unitarietà del comando, la soppressione e l’accorpamento delle strutture operative, logistiche e formative, sia territoriali che periferiche, nonché l’unificazione di funzioni diverse in un’ottica interforze; 2) la riduzione delle dotazioni organiche complessive del personale militare a 150.000 unità, taglio che sarà in misura non inferiore al 30% per gli ufficiali generali e ammiragli e al 20% per il restante personale militare dirigente e che si opererà attraverso l’estensione dell’istituto dell’aspettativa per riduzione di quadri anche ad altre categorie di personale, il transito presso altre pubbliche amministrazioni e forme di esenzione dal servizio; 3) la riduzione delle dotazioni organiche complessive del personale civile a 20.000 unità attraverso misure di mobilità interna, di trasformazione dei rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, di forme di lavoro a distanza e attraverso il trasferimento presso altre pubbliche amministrazioni; 4) la rimodulazione dei programmi di ammodernamento e rinnovamento dei sistemi d’arma, che dovrà tradursi in una contrazione quantitativa delle piattaforme e dei mezzi a favore di una crescita qualitativa e tecnologica, funzionale a uno strumento più ridotto ma di elevata qualità.
In concreto, il personale militare scenderà da 183.000 a 150.000 unità, quello civile da 30.000 a 20.000 unità, si ridurranno le brigate di manovra terrestre da 11 a 9, così come si ridurranno la linea dei mezzi pesanti, carri e blindo, la linea degli elicotteri e un numero significativo di unità per il supporto al combattimento (unità di artiglieria e logistiche). Per la componente marittima si contrarranno le linee delle unità di altura e costiere (i pattugliatori, per esempio, scenderanno da 18 a 10), dei cacciamine e dei sommergibili (da 6 a 4). Per la componente aeronautica si contrarranno le linee degli aeromobili per la difesa aerea e dei velivoli della linea aerotattica. In sintesi le Forze armate dovrebbero schierare 90 mila militari nell’Esercito (17 mila in meno rispetto a oggi), 27 mila in Marina (7 mila in meno) e 34 mila in Aeronautica (10 mila in meno) entro i prossimi dieci anni. Non si tratta però soltanto di ridurre lo strumento, ma anche di aumentare la qualità che diventa il terzo target. Quindi, per la crescita qualitativa e tecnologica dello strumento si procederà, sempre contestualmente alle riduzioni, a migliorare la componente C4I (comando e controllo, comunicazioni, computer, informazioni) e si investirà sulle forze speciali, che sono elementi importanti dei nuovi scenari. Inoltre verrà incrementata la difesa cibernetica, verranno destinati dei fondi per digitalizzare le unità di manovra terrestri (nota anche Brigata Terrestre Nec), per modernizzare le linee navali, aeree ed elicotteri (perché è vero che ne ridurranno il numero, ma saranno piattaforme di più alta qualità) e per potenziare la capacità Istar (Intelligence, surveillance, targeting acquisition and reconnaissance), che sono fondamentali per la situational awareness, cioè per sapere che cosa succede nello spazio sia terrestre che marittimo; si tratta peraltro di potenziare le qualità e capacità che sempre più ci vengono richieste nelle missioni, sia dell’Unione europea che della Nato.
Vediamo ora, nello specifico, come questa riforma inciderà concretamente sulle Forze armate e in che modo dialoga con le precedenti, a partire dal decreto legislativo n. 196 del 1995 fino alla legge n. 226 del 2004.
Il decreto legislativo n. 196 del 1995, nato dall’esigenza di allineare le carriere del personale non direttivo (cioè sottufficiali) delle Forze armate a quelle delle Forze di polizia, di fatto, abrogando l’articolo 36 della legge 958 del 1986, ha contribuito nel tempo a creare l’eccedenza di marescialli che l’attuale riforma mira a riequilibrare. Il citato articolo 36 riconosceva il seguente profilo di carriera (riferimenti con i gradi dell’Aeronautica Militare): aviere scelto (non prima di 3 mesi dall’incorporazione); primo aviere (non prima di 7 mesi dall’incorporazione e dopo aver maturato almeno 2 mesi nel grado di aviere scelto); sergente di complemento (dopo 14 mesi dall’incorporazione); corso di qualificazione di 6 mesi per l’ammissione ai concorsi per sottufficiale in servizio permanente -grado Sergente Maggiore (dopo 36 mesi dall’incorporazione).
Con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 196/95 si è provveduto al riordino dei ruoli del personale non direttivo, prevedendo tre distinti ruoli (truppa in servizio permanente – sergenti – marescialli) e prevedendo che:
- i sergenti di complemento in servizio alla data del 1.9.1995 da almeno 24 mesi o che avevano ultimato la ferma da non più di un anno, fossero ammessi ai primi due concorsi utili per l’immissione nel ruolo dei sergenti. A seguito della vincita del concorso i citati sergenti si sono trovati inquadrati nel ruolo dei sergenti in servizio permanente con la stessa anzianità di grado a prescindere dall’anzianità pregressa;
- i sergenti di complemento in ferma triennale e quinquennale ed i graduati di truppa soggetti alle medesime ferme, in servizio alla data del 1.9.1995 o in congedo da non più di un anno, fossero ammessi, dopo 2 anni di ferma e previa rinuncia al grado posseduto, ai primi tre concorsi utili per l’immissione al ruolo truppa in servizio permanente.
Questo decreto legislativo, dovendo dare i suoi frutti in un arco di 15 anni, ci porta temporalmente ad oggi, e la situazione che ha creato è praticamente questa: i sovrintendenti (sergenti) sono giunti a regime, le truppe quasi, mentre il ruolo di Maresciallo appare decisamente troppo folto, visto che, a partire dal 1995, chi aveva anzianità di servizio ed era in servizio permanente ha preso gradi molto velocemente, compiendo anche tre scatti gerarchici in modo forzatamente repentino. A dimostrazione di ciò, basti pensare a quanti marescialli e ufficiali attualmente sovraffollino Ministero e Pubblica Amministrazione (infatti si prevedono circa 32.000 esuberi entro il 2021).
Nei primissimi anni 2000, la sospensione della leva obbligatoria, disposta sotto il secondo governo Amato con il decreto legislativo n. 215 del 2001 (che recepì leggi del biennio precedente), ha reso necessaria l’attuazione di un articolato processo di trasformazione dello strumento militare in un altro di tipo professionale. Tale mutamento è avvenuto mediante la legge n. 331 del 2000, successivamente modificata dal già citato decreto legislativo n. 215 del 2001 e dalla legge n. 226 del 2004. Lo sviluppo del Modello professionale, fondandosi su ragioni di ordine numerico (entità complessiva di 190.000 unità) e finanziario (tassativo rispetto degli stanziamenti previsti e eventuali eccedenze nell’ambito di una categoria controbilanciate da risparmi realizzati in altre categorie, secondo il principio dei “vasi comunicanti”), si proponeva di ridurre significativamente il personale appartenente ai ruoli di ufficiali e marescialli, adottando misure di esodo agevolato, a vantaggio dei ruoli di sergenti e Volontari di truppa in servizio permanente e di assegnare fondi specifici per l’attuazione del processo di professionalizzazione, circa 850 milioni di euro l’anno.
Questo processo di trasformazione delle Forze armate ha incontrovertibilmente palesato la sua insostenibilità a livello economico arenandosi a causa dei tagli agli stanziamenti originari apportati dal susseguirsi negli anni di stringenti provvedimenti finanziari. Infatti, la riduzione del 15% imposto dalla legge n. 296 del 2006 e quella del 40% prevista dalla n. 133 del 2008, sommate allo stanziamento di 30 milioni di euro sancito dalla legge n. 244 del 2007, hanno determinato una diminuzione di 400 milioni di euro rispetto agli 850 originari.
Inoltre, la contrazione dei reclutamenti, dovuta ai tagli, che non consente l’immissione di personale giovane, e l’innalzamento dell’età pensionabile, che crea un concreto impedimento alla fuoriuscita del personale, stanno concorrendo a generare un fisiologico invecchiamento dei quadri militari. Infatti, l’anagrafe dei ruoli del personale dimostra come i congedi per limiti d’età assumeranno rilevanza soltanto a partire dal prossimo decennio. Questo ha fatto sì che, in sede di progettazione della riforma attuale, si sia tenuto conto dei volumi organici previsti per il 2021. E chiarisce pure perché contempli uno svolgimento decennale.
L’ammontare della spesa per il personale militare contemplata dalla revisione del 2012 è di 7.100 milioni di euro annui, di cui 6.120 propriamente per le retribuzioni, 230 per oneri non direttamente correlati alle consistenze del personale (assegni per il nucleo familiare), 50 per il reinserimento nel mondo del lavoro dei volontari in ferma congedati e 700 per il personale civile. A partire dal sopraccitato vincolo finanziario si è delineato, dunque, il Modello a 150.000 unità che vedrà le Forze armate così ripartite: 18.300 ufficiali (con una incidenza sul totale del 12,1%), 18.200 marescialli (12,1%), 22.320 sergenti (14,8%) e 91.180 uomini nella truppa (61%).
Confrontando tali dati con quelli contenuti nel precedente Modello a 190.000 unità, si nota, oltre al logico decremento numerico assoluto di tutti i ruoli, l’aumento dell’incidenza percentuale degli ufficiali (12,1% rispetto a 11,7%) e della truppa (61% contro 54,6%) e la riduzione dell’incidenza percentuale dei marescialli (12,1% rispetto a 13,4%) e dei sergenti (14,8% contro 20,3%).
Dunque, se, rimanendo su numeri e percentuali considerati nella loro assolutezza, questo piano di riassetto sembra muovere verso una riorganizzazione intelligente dello strumento militare, in accordo con la convinzione che lo spreco consista nell’utilizzo improprio delle risorse, come ha ribadito più volte il Ministro Di Paola, di contro appaiono evidenti alcuni punti critici, conseguenze abbastanza intuitive di quanto prescritto dalle direttive del Ministero della Difesa.
Il nucleo principale della riforma consiste nel recuperare fondi dal taglio di personale per reinvestirli in tecnologie avanzate e strumentazioni, ma i rischi che si celano dietro questa operazione sono estremamente concreti e assolutamente non marginali. Infatti, le nuove tecnologie necessitano inderogabilmente di personale altamente specializzato che le utilizzi e che ne curi la manutenzione, evitando che diventino obsolete prima del tempo, cioè che si inizi ad usarle propriamente a ridosso del loro prossimo avvicendamento con strumenti sempre più all’avanguardia. Sappiamo bene quanto siano veloci i tempi dell’innovazione tecnologica e quanto, inversamente, non li seguano quelli dell’aggiornamento del personale tecnico. Ipotesi ancora peggiore è quella per cui si potrebbe configurare uno scenario in teoria abbastanza gravoso per le finanze a disposizione dello strumento militare, vale a dire che, in assenza di personale preparato ed idoneo ad occuparsi della manutenzione del nuovo, si dovrebbe ricorrere a onerose consulenze private ed esternalizzazioni. In questo caso, sarebbe molto difficile pensare ad un risparmio economico a lungo termine, soprattutto se si tiene a mente quanto le consulenze esterne gravano sui bilanci di molti enti locali che, negli ultimi 15 anni, hanno abusato di questa forma di affidamento decentrato dei servizi.
C’è poi un altro dubbio che si solleva quasi spontaneo, soprattutto se si considera la diversa organizzazione e gestione interna delle risorse umane tra Esercito, da un lato, e Marina e Aeronautica, dall’altro. Se nel primo, proporzionalmente, la parte maggiore è quella costituita dalle truppe, gli altri due contano nelle proprie fila un vasto numero di alti gradi, personale qualificato che corrisponde a inquadramenti professionali elevati. Avvalendoci di una similitudine, è come se l’Esercito fosse costituito in larga parte da operai generici, mentre gli altri due da operai altamente specializzati: ne consegue abbastanza palesemente che i tagli andrebbero soppesati su questo dato.
Quindi, essendo la riforma mirata a sfoltire maggiormente il numero degli alti gradi, ufficiali e marescialli, ci ritroveremmo in una situazione tale per cui verrebbero a mancare tecnici il cui lavoro risulta fondamentale ed indelegabile. Prendiamo l’esempio dell’Aeronautica: figure come gli elettromeccanici, i motoristi, i montatori e gli armieri, cioè tutti coloro che si occupano della manutenzione e della preparazione dei velivoli, risultando inquadrati come ufficiali, si ritroverebbero ad essere ridotti in modo numericamente cospicuo.
Eventuali “incidenti di percorso” o anomalie estemporanee potranno essere superati da riordinamenti interni ad hoc dei singoli reparti, sebbene tutto dipenderà da quanto prescriveranno gli atti dispositivi del Ministero.
La speranza, come contribuenti, è che questa riforma riesca, nel giro previsto di dieci anni, a riequilibrare gli organici e le casse delle Forze armate e che si dimostri davvero una riorganizzazione intelligente e lungimirante, visto che, in questa repubblica dell’ossimoro, troppe volte la parola “riorganizzazione” è stata ed è tuttora affiancata dalla parola “disorganizzata”.
La speranza, dunque, è che non si tratti dell’ennesimo “correggere per non correggere” sulla scia del ben più famoso “tutto cambia affinché nulla cambi” di Tomasi di Lampedusa.
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