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Giugno-Luglio/2012 - Articoli e Inchieste
Suicidi
Un allarme sociale da prevenire
di Marco Cannavicci - Psichiatra forense

Due anni fa gli imprenditori si uccidevano
con la stessa incidenza, la differenza è che le loro
gesta non finivano sui giornali: che i media
ne diano conto dovrebbe servire a far sì che lo Stato
si ponga il problema dei suicidi in generale, come hanno fatto
i vertici delle Forze di Pubblica Sicurezza
che hanno visto diminuire i casi nel loro settore



Recentemente sulla stampa e dalla televisione abbiamo appreso di numerosi e ripetuti casi di suicidio di imprenditori o di disoccupati che hanno allarmato l’opinione pubblica. Di norma i media non riportano i casi di suicidio per un accordo deontologico dei giornalisti che sperano, in questo modo, di evitare l’effetto di emulazione a catena degli eventi, noto agli addetti ai lavori come “effetto Wherter” (dal nome del personaggio del romanzo di Goethe che, uccidendosi per amore, ha generato, nei giovani lettori europei, un’ondata di suicidi a catena). Tuttavia il collegamento del gesto fatale con la crisi economica, i fallimenti delle imprese, i debiti insanabili con il fisco, la cronica e perdurante disoccupazione, rende tale gesto un atto dagli effetti politici e sociali di notevole rilevanza. I media ne parlano, riportano questi casi di tragedie personali e familiari e l’opinione pubblica ne resta in questo modo impressionata. C’è da dire che nella nostra cultura, impregnata di cattolicesimo, quando si parla di suicidio si parla di un argomento scomodo, difficile, ammantato dalla paura e dall’angoscia, poiché evoca in noi il concetto della morte. Nella nostra cultura non ci sentiamo mai preparati ad affrontare il tema della morte, neppure nel caso di un ammalato grave, di una persona in coma irreversibile, come è stato per il dibattuto caso della giovane Eluana Englaro. Tuttavia molta comprensione ed empatia c’è stata per il caso del gesto suicida del regista Mario Monicelli, che si è gettato dal balcone dell’Ospedale S. Giovanni di Roma. In quel caso si è invocata come urgente la possibilità, stabilita per legge, della scelta della morte per eutanasia. Già, un suicida la morte la sceglie, la vuole, la desidera, la mette in atto. E questo rende il gesto del suicidio ancora più difficile da accettare poiché ci ricorda nello stesso tempo il tema angosciante della morte e della terribile scelta che è stata fatta di desiderarla per la propria fine della vita. La crisi economica ci ha messo di fronte quindi alle notizie ricorrenti e tremende della scelta della morte effettuata da chi si è sentito strangolato dalla crisi economica, dai debiti, dalle tasse, dalla disoccupazione e questo ci ha indotto a pensare che con la depressione economica il numero dei suicidi nella popolazione tenda quindi ad incrementarsi. Andiamo a verificare questa supposizione.
A livello europeo i tassi italiani inerenti il suicidio sono tra i più bassi, insieme con i tassi della Spagna e della Grecia, attestandosi ormai da molti anni su una media di circa 4/5 casi per 100 mila abitanti. Al confronto i dati degli altri Paesi europei sono da brivido: circa 10 casi per 100 mila abitanti in Germania, circa 15 casi per 100 mila abitanti in Francia, circa 20 casi per 100 mila abitanti nei paesi scandinavi. Secondo i dati forniti dall’ISTAT nel 2010 in Italia si sono tolte la vita 3048 persone (il 75% di loro erano maschi, il 25% femmine), vale a dire che in media circa 8 persone al giorno (6 uomini e 2 donne) si sono tolte la vita. Più o meno nel 2011 ed in questi primi mesi del 2012 le cifre sono state le medesime, qualcosa in meno nel 2012. Se andiamo alla voce “imprenditori” che si sono tolti la vita, nel 2008 sono stati 361, mentre nei primi 5 mesi del 2012 sono stati 37 e se l’andamento resta questo a fine anno supereranno di poco i 100. Ben lontani quindi dai 361 del 2008. Se prendiamo in considerazione coloro che hanno perso il lavoro, secondo i dati ISTAT, nel 2009 si sono tolte la vita 272 persone, mentre nel 2010 sono state 288. I dati parziali del 2012 riportano cifre molto inferiori, per cui a fine anno non ci sarà alcun incremento, restando il fenomeno nell’attuale andamento, forse qualcosa in meno. I dati quindi smentiscono clamorosamente l’impressione di un incremento dei tassi di suicidio nella popolazione che l’opinione pubblica ha ricevuto attraverso le ripetute notizie di cronaca. Riflettendo sulla percezione del dato “stimato” e del dato di realtà del suicidio si giunge alla conclusione che il tasso del fenomeno dell’incremento non è nei fatti, bensì nella amplificazione mediatica che ne viene fatta. Due anni fa gli imprenditori si uccidevano con la stessa incidenza, la differenza è che le loro gesta non finivano sui giornali. Gli imprenditori falliti o che non riuscivano a pagare le tasse nel 2008 e che si uccidevano non facevano notizia poiché la responsabilità del loro fallimento era attribuibile ad una faccenda personale, all’andamento della propria impresa. Oggi lo stesso evento viene attribuito o almeno correlato alla crisi economica generale ed all’incremento delle tasse voluto dall’attuale Governo e quindi la responsabilità viene attribuita alla politica e non alle scelte personali. Un suicidio “economico” oggi fa “notizia” poiché richiama un dato politico, utilizzabile secondo i fini e le tendenze del giornalista o della testata che pubblica la notizia.
Se da una parte quindi la notizia del fenomeno suicidiario non deve destare allarme sociale, poiché il fenomeno resta in un solco di evidente “normalità” che perdura da oltre un decennio, dall’altra parte ci deve far riflettere una deduzione secondaria che finora nessuno ha effettuato: di fronte alla volontà suicida di una persona in crisi nessuno è preparato ad affrontare il problema ed aiutare la persona a gestire la risoluzione della crisi. Nessun operatore sanitario, sociale o di polizia è formato ed addestrato per affrontare la volontà suicida di una persona in crisi. Nessuno quindi è in grado di fare prevenzione rispetto al fenomeno dei suicidi. A questo proposito si inserisce il tema, riportato all’inizio, che il suicidio evoca il concetto della morte e che quindi tende ad essere rimosso dalla coscienza come un dato scomodo, difficile da gestire. Poi è possibile inserire l’ulteriore tema, che impedisce una vera e propria prevenzione, che intorno al suicidio sopravvivono molte “false credenze”, nonostante evidenze contrarie di molti studi e ricerche. Ad esempio, è diffusa la falsa credenza che chi annuncia la volontà di uccidersi poi non lo faccia veramente e che quindi non deve essere preso in considerazione. Gli studi e le ricerche riportano che chi si uccide nei giorni antecedenti lo aveva preannunciato, lo aveva espresso, lo aveva detto sia in famiglia che al lavoro ed anche al proprio medico di famiglia, ma nessuno lo aveva preso sul serio. Altra falsa credenza è che l’aver effettuato un tentativo di suicidio non comporti il provarci ancora. In realtà chi ha messo in atto un tentativo di suicidio ha commesso l’errore di non aver utilizzato metodi o materiali idonei e che quindi farà tesoro di questo fallimento per programmare il successivo in maniera più adeguata. Altre false credenze riportano che il suicida negli ultimi giorni sembrava migliorato, più sollevato nei pensieri e che quindi sembrava uscito dalla crisi. In realtà non c’era stato alcun miglioramento, era sereno perché aveva pianificato la propria “via d’uscita” rispetto al problema che lo aveva messo in trappola. Per un suicida il gesto di togliersi la vita non viene visto infatti come la propria morte, viene visto coma la propria via d’uscita rispetto al problema e quindi la fine della sofferenza. Ed è sulla base di questo pensiero che si inserisce l’Effetto Werther: la notizia di un suicidio genera “invidia” nella persona in crisi perché il suicida viene pensato come uno che “ha finito di soffrire, ora è sereno”. Altra falsa credenza riguarda il fatto che ad uccidersi siano le persone affette da malattia mentale. Questo non è assolutamente vero: il suicidio non è un prodotto della malattia mentale, è il prodotto della propria ricerca della soluzione al problema che non ha trovato altra via d’uscita.

Tabella I – “False credenze” sul suicidio
. chi dice di suicidarsi poi non lo fa
. chi mette in atto gesti dimostrativi poi non lo fa
. chi si suicida è affetto da una malattia mentale
. se migliora vuol dire che non pensa più al suicidio
. se chiedo se ha pensato al suicidio lo induco al suicidio

Ed è proprio la ricerca di una via d’uscita che ci conduce alla prevenzione del fenomeno suicidiario, poiché chi assiste una persona in crisi dovrebbe sempre accertarsi se il soggetto ha prodotto pensieri autolesionistici e quindi voglia farla finita. Molte persone che assistono soggetti in crisi non fanno domande al riguardo, evitano di chiedere per paura di suggerire l’idea del suicidio. Chiedere dell’ideazione suicidiaria non significa indurla, l’induzione avviene automaticamente con la ricerca della soluzione del problema e chi vive una situazione di crisi autonomamente pensa anche al suicidio. Ricevendo la domanda se abbia pensato questo o meno, la persona in crisi sente che l’altro ha capito (empaticamente) il suo stato di crisi ed ammette che effettivamente ci sta pensando. Ecco, da qui dovrebbe partire la prevenzione, attraverso una ricerca di una via d’uscita alternativa al suicidio, via d’uscita che il soggetto in crisi non vede perché troppo emotivamente coinvolto dalla situazione per poter ragionare con lucidità, freddezza ed oggettività. La domanda sulla presenza o meno dell’ideazione suicidaria andrebbe fatta quando si avvertono i segni predittivi del suicidio nelle parole di sconforto e di sconfitta della persona e nei comportamenti di chiusura e di negazione.

Tabella II – Elementi “predittivi” del suicidio
. storia familiare positiva per suicidio
. condotte comportamentali rischiose
. scarsa cura per la propria salute
. uso di alcolici
. isolamento affettivo e sociale
. recente lutto
. precedenti tentativi di suicidio
. stress acuto recente
Ad un osservatore attento non dovrebbero sfuggire gli elementi predittivi che possono emergere dalla rabbia, dal rancore, dai rimorsi, dalla colpevolizzazione, dal senso di fallimento e di vergogna della persona in crisi. Ed è soprattutto il senso di vergogna che induce a mettere in atto il suicidio, a lavare la vergogna con il sacrificio della propria morte, quasi a riscattarsi del fallimento. Non dovrebbero sfuggire ad un osservatore attento le sue ripetute assenze dal lavoro, il suo negarsi al telefono, il suo rimanere isolato e distaccato, i gesti del suo rimandare, dell’atto di sistemare “le proprie cose” quasi come di un atto di disposizione testamentaria. Nelle parole e nei comportamenti della persona in crisi emergono e sono normalmente presenti tutti quegli elementi predittivi che una persona addestrata al riconoscimento del rischio suicidiario dovrebbe conoscere. In più se la persona inizia a guidare in modo spericolato, a non assumere più le terapie farmacologiche prescritte (per qualsiasi malattia, come ad esempio gli anti-ipertensivi o gli anti-diabetici), ad assumere alcolici in modo non abituale, ecco che il più piccolo nuovo fattore di stress potrebbe costituire la goccia, il fattore precipitante, che fa traboccare il vaso. Il piccolo nuovo fattore di stress non deve essere visto e scambiato come la causa, la causa era già presente nella vita e nella mente della persona, ma solo come il fattore occasionale che rende evidente una scelta già maturata nella mente. Tutto ciò rende il suicidio non un gesto improvviso, il frutto di un impulso del momento, bensì lo rende un gesto annunciato, meditato, premeditato, organizzato nei modi e nei tempi. E’ possibile quindi fare prevenzione, è possibile rendersi conto di cosa sta accadendo nella mente della persona che sta vivendo una crisi personale o un fallimento delle proprie scelte. La prevenzione non viene effettuata poiché nessun operatore sociale è addestrato a farlo (in modo particolare il medico di famiglia; alcuni studi riportano che i 2/3 dei suicidi sono stati visitati dal proprio medico nella settimana precedente il gesto fatale) e perché, per le motivazioni precedenti, l’idea del suicidio, essendo correlata alla morte, tende ad essere rimossa dalla mente e quindi non viene pensata e non presa in seria considerazione.

Tabella III – Percorso psico-comportamentale verso il suicidio
. vissuti psicologici di rancore, rabbia, rimorso
. colpevolizzarsi
. senso di fallimento personale
. senso di vergogna
. assentarsi dal lavoro, negarsi, rimandare
. tenere il telefono spento, non rispondere
. sistemare le proprie cose

Che si possa fare prevenzione, tenendo conto di quanto affermato in precedenza in merito agli elementi predittivi e preventivi, lo dimostra inequivocabilmente l’esperienza della riduzione dei tassi dei suicidi nelle forze di polizia italiane. In tutte le statistiche internazionali che correlano il suicidio con la professione effettuata emerge il dato che il lavoro ritenuto più a rischio di suicidio è quello dell’operatore di polizia. Al secondo posto vengono i medici ed al terzo gli avvocati. Ciò che accomuna queste tre professioni nello scivolare verso la condotta autolesiva è il logoramento emotivo, affettivo, relazionale che comporta il contatto quotidiano con il crimine, con la sofferenza, con i problemi personali che affliggono i clienti, gli utenti, i cittadini. Fare dell’aiuto in situazioni critiche e con un marcato coinvolgimento emotivo il proprio lavoro è un qualcosa che lascia il segno nella psiche di una persona e che vede nell’anello finale del suicidio una logica e naturale evoluzione. Fino a circa 15 anni fa anche le forze di polizia italiane avevano tassi di suicidio di molto superiori alla media nazionale, a quel 5 per 100 mila che è stato riportato all’inizio. E questo dato accomunava sia i carabinieri che la polizia di Stato che la Guardia di finanza. I Comandi, sulla base delle conoscenze sugli elementi predittivi e preventivi che sono stati accennati, hanno predisposto la formazione di operatori ad hoc, sia come consulenti esterni, che come operatori interni addestrati allo scopo, fornendo loro le conoscenze adeguate per riconoscere lo stato di crisi, nel collega o nel dipendente, e per fornire l’adeguato supporto in termini di ascolto e di soluzioni razionali per uscire dalla crisi. In questo modo, attraverso l’intervento di personale sensibilizzato al problema, attraverso linee telefoniche dedicate, consulenze con specialisti qualificati, sportelli di ascolto dedicati, quel tremendo tasso di suicidi in divisa si è progressivamente abbassato e la linea di tendenza lascia presupporre che nel giro di qualche anno sia sovrapponibile a quello della popolazione generale. I Comandi delle forze di polizia che si sono posti il problema del suicidio nel personale in divisa e che hanno avuto il coraggio di parlarne e di approntare le soluzioni adeguate hanno visto premiato il loro sforzo. C’è la restante parte dello Stato, quella che si occupa del benessere della popolazione in generale attraverso gli operatori del Servizio Sanitario Nazionale, che ora deve fare la propria parte ed allestire personale e strutture specificatamente destinate alla soluzione di questo problema. In questo modo, parlare dei suicidi nel 2012 attraverso i media, nonostante l’effetto Werther, avrà avuto un benefico effetto.
(cannavicci@iol.it)

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