La proposta presentata dal ministro Severino prevede fino a sette anni di carcere per i corruttori, cambia la concussione e introduce il «traffico d'influenze» e la corruzione tra privati. I numeri però ci dicono che la strada è ancora lunga e piena di ostacoli
“La totalità degli italiani (il 95%) ritiene che ci sia corruzione nelle istituzioni nazionali». Questo dato è il frutto di un dibattito che da vent’anni attraversa, con alti e bassi, l’opinione pubblica italiana. Dall’avvio delle inchieste di ‘mani pulite’, la questione della persistenza di «sacche di corruzione sistemica» ritorna alla ribalta facendo promettere al politico di turno nuove leggi, più dure e severe. Oggi le accuse di corruzione sono ricadute su alcuni esponenti della giunta Formigoni e della Lega, rendendo ancora peggiore la percezione e il giudizio che gli italiani hanno della corruzione nel loro Paese. «Che è drammatica: secondo l’Eurobarometro l’87% degli italiani ritiene che la corruzione sia un serio problema nel proprio Paese, un dato in crescita del 4% rispetto a due anni prima ma soprattutto superiore di ben 13 punti percentuali alla media europea, che è del 74%».
Stefano Rodotà, in un recente articolo pubblicato su ‘l’Unità’, si chiede «perché, con il passare degli anni, quel fenomeno, lungi dallo scomparire e dall’essere ridimensionato, si sia poi ingigantito. La ragione è tutta politico-istituzionale e richiederebbe una analisi di dettaglio che qui appena accenno. La caduta di Berlusconi e di Bossi non ci parla di fallimenti personali, ma è la rivelazione del fallimento del modello che ha accompagnato gli ultimi venti anni, fondato sulla forzatura bipolarista, la democrazia d’investitura, l’accento sul bene della decisione che ha legittimato l’eclisse dei controlli. Molti si stracciano le vesti di fronte alla possibilità che il bipolarismo si appanni. Ma in politica i modelli non si giudicano in astratto, ma valutandone gli effetti».
Uno degli effetti del bipolarismo voluto e rivendicato dal passato governo Berlusconi è anche quel 12% di italiani che, come riporta Alberto Vannucci su ‘La Voce’, «si è visto chiedere una tangente nei dodici mesi precedenti (la media europea è dell’8 per cento)». Secondo i dati dell’Eurobarometro «l’87 per cento dei cittadini italiani ritiene la corruzione un serio problema nel proprio paese, in crescita del 4 per cento rispetto a 2 anni prima (la media europea è del 74 per cento); il 75 per cento degli italiani ritiene che gli sforzi del governo per combattere la corruzione siano stati inefficaci (la media europea è del 68 per cento)». Vannucci continua la sua analisi sottolineando il «dato relativo alle esperienze dirette di tangenti chieste in cambio di un servizio, ossia alla corruzione “vissuta sulla propria pelle” dai cittadini dei 27 paesi dell’Unione Europea. Si osserva infatti che le rilevazioni statistiche sulle “richieste di tangenti” effettuate nel 2009 e nel 2011, messe a confronto con le percezioni degli esperti relative ai medesimi anni indicizzate dal Cpi di Transparency International, presentino livelli di correlazione molto elevata e statisticamente significativa».
La risposta di Monti
Anche il governo Monti si è reso conto del problema e in qualche modo cerca di affrontarlo. Il premier italiano, il 16 aprile scorso, al termine di un incontro a Villa Doria Pamphilj con l'emiro del Qatar, ha dichiarato che la corruzione «è tra i motivi che frenano gli investimenti in Italia». A maggio si discuterà, in Commissione giustizia alla Camera, l’emendamento al disegno di legge sulla corruzione presentato dal ministro della Giustizia Paola Severino. L’emendamento prevede pene da tre a sette anni di reclusione per la corruzione in caso di atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319 del codice penale, che attualmente prevede pene da due a cinque); da uno a cinque anni per la corruzione per atti d’ufficio, cioè quando un funzionario pubblico “vende” un atto che dovrebbe concedere per legge (art. 318, oggi da sei mesi a tre anni). Sul nodo della concussione (art. 317) l’emendamento del governo Monti propone l’aumento della sola pena minima, che passa da quattro a sei anni, mentre resta immutata la massima, 12 anni.
I punti controversi sono molti, accantonando i processi di Berlusconi, l’aumento delle pene massime per la corruzione - scrive Raphael Rossi su ‘il Fatto Quotidiano’ - «fa automaticamente aumentare i tempi di prescrizione, ma non di molto. I sette anni previsti comportano una prescrizione a 8 anni e nove mesi, contro i sette e mezzo attuali. L’ordine di grandezza, insomma, resta uguale, e come succede oggi molti dibattimenti contro i “colletti bianchi” dell’impresa e della pubblica amministrazione accusati di malversazioni continueranno a finire in nulla. Con la doppia beffa per la collettività del danno subìto e delle spese per indagini e procedimenti giudiziari destinati a morire. L’emendamento governativo introduce anche il reato di “traffico d’influenze”, tipo delle “cricche” politico-imprenditoriali delineate da diverse inchieste giudiziarie degli ultimi anni, e la corruzione tra privati. Nessun intervento, invece, sul falso in bilancio, altro tema sollevato durante il dibattito sulla legge anticorruzione». A tal proposito il Guardasigilli ha risposto che «sul falso in bilancio c’è una serie di proposte di legge pendenti in Parlamento. È una materia diversa dalla corruzione, con una sua autonomia e una trattazione separata. Quando arriveranno i tempi parlamentari il governo non si sottrarrà ai suoi doveri».
Al di là delle pene
La corruzione non è solo un problema legato alla legge, è banalmente anche una questione culturale. Per affrontarla, quindi, è necessario cercare di uscire dalla stretta logica giudiziaria. Per farlo, però, è auspicabile conoscerla. L’avvocato e giornalista Bruno Tinti, nel suo blog, a proposito scrive: «Le pene che i tribunali italiani infliggono sono finte. Sei mesi sono 6.840 euro di multa. Due anni (se l’imputato è incensurato) non sono niente perché c’è la sospensione condizionale. Se non la si può più avere (perché si è un delinquente conclamato) c’è la semidetenzione: si è liberi, ma di notte si va a dormire in prigione. Tre anni significano affidamento in prova al servizio sociale e 4 anni di detenzione domiciliare: si sta a casa propria o dovunque si voglia, basta comunicarlo alla Polizia. La legge Gozzini sconta 3 mesi per ogni anno di prigione: quindi 8 anni in realtà sono 6, 10 sono 7 e mezzo e via così. Poi ci sono i permessi premio, 45 giorni all’anno. E quando mancano “solo” 4 o 3 anni, scattano comunque detenzione domiciliare e affidamento in prova sicché in galera non ci si sta più. Insomma 15 anni di prigione sono in realtà meno di 7. Se poi arriva un condono se ne levano in genere altri 3. Tutto questo per dire che le pene previste dalla riforma governativa sulla corruzione sembrano alte (nei massimi) ma in concreto sono ridicole. A parte la concussione con violenza (da 6 a 12 anni), la pena per la corruzione va da 3 a 7 e quella per la corruzione in atti giudiziari da 4 a 10; la nuova concussione per induzione va da 3 a 8 per il pubblico ufficiale e fino a 3 per chi lo paga. Il tanto strombazzato traffico di influenze (che è la forma più attuale di corruzione, vi ricordate i ginecologi Udeur?) prevede pene da 1 a 3 anni. E poi i massimi di pena non vengono inflitti mai; e dunque il tempo concretamente passato dietro le sbarre finisce con l’essere di pochi mesi, magari pochi giorni (Previti docet). Sicché la riforma avrebbe dovuto tener conto di tutto ciò e aumentare le pene senza patemi. Niente trattamenti inumani, insomma; quanto bastava per spiegare al condannato e alla collettività che corruzione e concussione non pagano: meglio astenersi. Ma c’è di molto peggio. Come tutti sanno - continua Tinti -, in Italia c’è la tagliola della prescrizione; dopo un certo tempo, anche se l’imputato è sotterrato dalle prove, tocca dirgli: non ce l’abbiamo fatta, il reato è prescritto; vattene in pace. Per i reati di concussione e corruzione il termine di prescrizione è particolarmente importante. Perché li si scopre a distanza di anni da quando sono stati commessi. Un corruttore incazzato che, dopo aver pagato, non riceve quello che gli era stato promesso; una moglie tradita; una faida politica; un bilancio fasullo; documentazione acquisita per tutt’altro, dalle cui pieghe emergono pagamenti illeciti; intercettazioni disposte per altri processi da cui saltan fuori vecchie corruzioni. Insomma, quando si comincia a indagare, sono sempre passati 3, 4, 5 anni. Il processo Mills insegna; ma sono tutti così. Allora, se a termini di prescrizione da 7 anni e mezzo a 12 (fatta eccezione per la forma più grave di concussione, questi sono i termini applicabili per legge ai “nuovi” reati di concussione e corruzione) si toglie il tempo morto, quello in cui nessuno indaga perché nessuno sa, si capisce che quello che resta è troppo poco per arrivare a sentenza di condanna. Ogni anno politici e giudici, concordi, spiegano che la durata media dei processi penali (media; quelli difficili durano di più, ovviamente) è di 8 anni. Anche nel caso di prescrizione più lunga, quella a 12 anni, ne restano in concreto solo 8. Non bastano; e comunque tutti gli altri reati si prescrivono di sicuro».
L’analisi spietata e lucida si conclude con una frase lapidaria: «Allora a che serve una riforma così»?
È pacifico che la corruzione si può sconfiggere attraverso buone leggi che puniscano e facilitino il compito di chi denuncia le tangenti e, soprattutto, non lo rendano vano visti i tempi attuali della giustizia. Ma oggi è rischioso denunciare, porta all’isolamento del cittadino e del funzionario onesto. Anche se si è condannati, scontata la brevissima pena, si può tornare a svolgere il proprio lavoro, mantenendo le relazioni ‘poco chiare’ e magari vendicarsi.
Anche i politici, poi, tendono a sottovalutare il problema, alimentando, come scrive il Silp, una «tendenza che fa correre il rischio di diseducare i cittadini al rispetto delle leggi, a contribuire all’allontanamento degli stessi dalle istituzioni e alimentando la diffidenza verso tutto ciò che è pubblico. Se si alimenta il distacco dalle istituzioni, si diminuisce il senso civico».
Sarebbe auspicabile che lo Stato si tuteli, se si ha una posizione istituzionale e si corrompe o si viene corrotti oltre alle dimissioni si dovrebbe pretendere l’interdizione permanente dai pubblici uffici. In fondo, se vogliamo infondere all’Italia nuovo senso delle istituzioni, coscienza civile e morale, dobbiamo fattivamente affermare che ‘tradire’ lo Stato non è solo un reato ma è soprattutto un disonore.
MONTI ha dichiarato che la corruzione «è tra i motivi che frenano gli investimenti in Italia
Uno degli effetti del bipolarismo voluto e rivendicato dal passato governo Berlusconi
è anche quel 12% di italiani che si è visto chiedere una tangente nei dodici mesi precedenti
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