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Aprile-Maggio 2012/2012 - Articoli e Inchieste
Economia
Pareggio di bilancio: il rigore dal costo elevato
di Federico Guarascio

Il pareggio di bilancio,
di fatto, sancisce l’illegalità
del keynesismo


«Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico». L'assenza della parola 'pareggio' ha fatto si che molti economisti affermino che il principio introdotto non cambierà nulla, nel peggiore dei casi i governi saranno costretti a truccare i conti

La sera di martedì 17 aprile il Parlamento italiano ha definitivamente introdotto, come principio costituzionale nell’ordinamento giuridico italiano, il pareggio di bilancio. La legge costituzionale è stata approvata sia dalla camera dei deputati sia dal Senato della Repubblica a maggioranza di due terzi nella seconda votazione, precludendo così la possibilità di un referendum costituzionale. La legge è parte di un più ampio progetto europeo: il Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary (anche conosciuto come: Fiscal Stability Treaty); un trattato intergovernativo firmato da tutti i membri dell’Unione Europea eccetto Gran Bretagna e Repubblica Ceca. Ma qual’è la ratio che sottendente questa legge? Il pareggio di bilancio, di fatto, sancisce l’illegalità del keynesismo. Secondo Jhon Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la ‘domanda aggregata’ insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a far ripartire l’economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi ripagato quando la crescita fosse ripresa. Ora, impedendo costituzionalmente il deficit di bilancio dello Stato – se non per casi eccezionali e comunque per periodi di tempo limitati – tutto ciò sarà impossibile. Da oggi il nostro paese abbraccia ufficialmente l’ideologia economica per la quale la priorità è evitare il deficit spending, ossia che lo Stato possa finanziare parte della domanda indebitandosi. Questa cosa può sembrare apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è assolutamente folle. Così facendo si stanno replicando gli errori drammatici degli anni ’30: quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe fondamentale un deciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in modo che la ‘domanda aggregata’, cioè l’insieme dell’economia, aumenti, per ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo non sarà più possibile.

Gli effetti sulla nostra economia
Qualcuno allora si potrà domandare cosa può significare questo per un paese come l’Italia. La risposta è molto semplice ed è la seguente: sarà impossibile mettere soldi nei settori che richiedono un forte investimento. Ad esempio nella cultura, nella ricerca o nelle infrastrutture ‘utili’. ‘Utili’ come la Salerno-Reggio Calabria, per intenderci, e non come il Ponte sullo Stretto. Non è un caso se il nostro è un paese che per la ricerca spende meno della media europea. Non è un caso se il nostro è un paese con un sistema scolare e post-scolare che versa in condizioni drammatiche a causa dei tagli iniziati nel 2008. Non è un caso se tra gli Stati europei il nostro è ai primi posti, insieme ai paesi più arretrati d’Europa (in primis Portogallo e Grecia), per bassa qualifica dei nostri lavoratori. Oggi abbiamo reso illegale il ‘deficit spending’. Questo significa che sarà impossibile investire ma soprattutto attivare una serie di diritti previsti dalla nostra Costituzione: il diritto alla scolarità che non deve essere ‘per ceto’, l’assistenza sanitaria gratuita per tutti, il diritto a una serie di servizi alla persona. Ora, interpretando la Costituzione facendo perno sull’articolo 81 come modificato, tutti questi diritti primari non saranno più esigibili. O almeno saranno subordinati all’articolo 81. Il senso di questa riforma costituzionale è che se uno ‘vuole’ dei diritti, se li deve pagare. Non sarà più lo Stato a raccogliere risorse per i suoi cittadini. Peccato, però, che guardando alla crescita economica di lungo periodo, per uscire da una crisi come quella che stiamo attraversando, servirebbero tutta una serie di investimenti che il privato non si sobbarcherà mai. Questo sono dunque le direttrici lungo le quali si sta muovendo l’Europa, ed assolutamente chiaro che quello che sta facendo Monti in Italia è lo stesso lavoro che Schroeder ha già fatto a suo tempo in Germania e che Rajoy si accinge a fare in Spagna. Ed è assolutamente chiaro che Hollande è inviato in Francia a fare lo stesso lavoro, nonostante il suo programma elettorale lasci pensare il contrario. Un lavoro al quale la Merkel è ben lungi dall’opporsi, visto che anche lei sta posto suo per lo stesso motivo: distruggere le ultime vestigia dei diritti dei lavoratori, perché la logica del profitto immediato possa definitivamente impadronirsi dello spazio politico, economico, culturale, antropologico, umano dell’Europa.



La legge costituzionale è stata approvata sia dalla camera dei deputati sia dal Senato della Repubblica a maggioranza di due terzi nella seconda votazione, precludendo così
la possibilità di un referendum costituzionale

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