Politica e antipolitica, ruolo dei partiti e antilegittimazione degli stessi da una parte consistente dei cittadini. Messa sotto accusa dei sindacati, ai quali si imputa la colpa di non sostenere abbastanza i diritti dei lavoratori o di difendere solo i diritti delle fasce già protette o, al contrario, di essere troppo intransigenti.
Insieme alla crisi economico-finanziaria (due termini opposti complementari che uniti generano effetti disastrosi), il nostro Paese soffre di un grave disturbo che potremmo definire cerebro-viscerale. Nel senso che colpisce alternativamente facoltà pensanti e quelle istintive. In poche parole, mentre ci sfugge il nesso logico della situazione, difficile e ricca di incognite, che ci troviamo a vivere, proviamo il disagio di chi si sente minacciato da pericoli ancora in parte ignoti.
Stando alle reazioni della cosiddetta società civile – alla quale teoricamente tutti noi apparteniamo – registrate dai sondaggi, l’apprezzamento dei partiti politici da parte dei cittadini sarebbe a livelli molto basso. Il trionfo dell’antipolitica, insomma.
Risultato di un sentimento – o meglio, di un risentimento – non nuovo. Giustificato? Certo sì, è stato così fin dai tempi della mitica democrazia ateniese (che poi tanto democratica non era). IL risentimento peraltro è forse soprattutto contro noi stessi. I partiti sono il ritratto della società, che li esprime come strumenti mediatori delle sue volontà e dei suoi bisogni. Senza cittadini che in qualche modo lo sostengono, un partito non può esistere. E lo stesso vale per i sindacati.
Del resto, lungo i sentieri dell’antipolitica si propongono figure alternative di vario tipo. Si va dal comico (che esercita una nobilissima e difficile arte) urlante che “se ne devono andare tutti”, all’elegante manager di ottima famiglia che presenta programmi di asserita efficienza. Voci diverse per toni e stile, ma accomunate dalla repulsa della politica. In realtà si tratta di semplici ipotesi di sostituzione, ovviamente del tutto legittimate ma non a colpo sicuro, preferibili.
E allora, si dirà, perché si è scelto il governo dei tecnici, nel quale i partiti non hanno alcuna rappresentanza? Non è forse questa la prova della scarsa efficienza dei partiti? Su questo punto i pareri sono divisi. C’è chi la ritiene una dimostrazione di coraggio e di responsabilità, e chi invece un’ammissione di impotenza di fronte a una situazione più che difficile, vicina alla catastrofe. Come, perché, e per colpa di chi si sia prodotta questa situazione, si può discutere a lungo. Comunque, i partiti – destra, centro, sinistra - hanno fatto il fatidico passo indietro, con eccezioni che si potrebbero definire “di comodo”. Lasciando al governo dei tecnici la patata bollente delle misure impopolari ritenute indispensabili per affrontare, e magari superare, la crisi. E’ nato così l’esecutivo presieduto dal professor Mario Monti: serio, efficiente, determinato e incline a guardare i problemi dall’alto, con il distacco di chi è convinto di saperne più degli altri. Il che probabilmente è spesso vero, anche se poi le misure prese non rispondono sempre a quei criteri di equità che sarebbero auspicabili.
Va detto che sul versante dell’Unione Europea, dopo le sofferenze dello scorso anno, Mario Monti ha realizzato un decisivo e notevole mutamento in termini di prestigio e credibilità. E non è da poco, dato che è con l’Europa che dobbiamo passare gli esami più ardui. Naturalmente rimane la minaccia della speculazione finanziaria internazionale, guidata dalle agenzie di rating, e contro questa non appaiono validi strumenti di difesa.
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Nell’orizzonte del nostro presente le elezioni del 2013 sono un traguardo fisso, al quale si dovrebbe arrivare con risultati che, più che previsti, possono essere solo sperati. Con quell’evento ha termine la breve stagione dei governi tecnici, e la mano torna ai partiti, alla politica. In un certo senso la politica non ha mai lasciato il campo, poiché tutto ciò che viene fatto nella cosa pubblica è “politico”, quindi si tratta più che altro di una questione di gergo. Ritorno ai partiti, che saranno accompagnati dal discredito che senza dubbio hanno in larga misura meritato – ma se le critiche sono giustificate da fatti e comportamenti, dovrebbero essere condivise dai cittadini che le esprimono, dato che i partiti non sono arrivati da un altro pianeta. Gli uomini e le donne che si occupano di politica, a diversi livelli di responsabilità e di impegno, sono come noi. Sottoporli a una critica serrata è non solo legittimo, ma doveroso. Una critica, beninteso, che sia preceduta da una precisa consapevolezza di ciò che crediamo sia giusto chiedere alla parte politica da ognuno di noi scelta, sostenuta. E, ripetiamo, lucidamente controllata e giudicata. Altrimenti lamentare ritualmente l’inefficienza, o peggio, dei partiti diviene un alibi per evitare lo sforzo di analisi obiettive e sistematiche. Lo sforzo, perché l’esercizio della democrazia partecipata è una fatica. Salutare per il corretto funzionamento del nostro spirito civico e della nostra intelligenza. Un tale comportamento richiede un’attenzione ragionata alla vita politica del Paese, evitando sia la posizione gregaria e quello che un tempo era chiamato “culto della personalità”, sia il rifiuto aprioristico della cosiddetta “politica politicante”.
Naturalmente, l’attenzione dei cittadini (non solo in quanto elettori) non può limitarsi a verificare se i politici siano onesti. L’onestà è un requisito indispensabile qualsiasi siano il ruolo e l’attività di ognuno. Per la politica attiva occorrono ovviamente una solida preparazione ma anche cultura, efficienza, intuizione, persino una ragionevole dose di fantasia. In più un politico deve avere idee, convinzioni ragionate. E aggiungiamo che per saper individuare un buon politico il cittadino deve cominciare col migliorare se stesso, riflettere di più, rifiutare la banalità di una continua rivolta parolaia che non assume mai una dignità rivoluzionaria. Sovente alla libertà, che può risultare scomoda, essendo un diritto da riconoscere anche agli altri (“Il disagio della libertà” è il titolo di un recente saggio di Corrado Augias) si riferisce la licenza ad uso personale, un abusivismo (non solo edilizio) diffuso, giustificato con ipocrite astuzie di ogni tipo.
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La cura alla quale il nostro Paese è sottoposto dal governo dei tecnici segue una ricetta scritta dai medici della Bce. Di solito i banchieri sono cattivi terapeuti, e di solito annunciano che l’operazione è riuscita anche quando il paziente è deceduto, ma dobbiamo fidarci visto che non esistono alternative praticabili. L’Unione Europea è una garanzia di stabilità, e l’euro uno scudo che protegge le economie dei Paesi membri. Questo non significa che l’Unione sia una realtà compiuta, perfetta. E sono abbastanza evidenti alcune anomalie. Quali le ricorrenti spinte centrifughe britanniche e le velleità egemoniche franco-tedesche: sono inconvenienti che accadono nelle migliori famiglie.
Del resto noi italiani abbiamo altri problemi da affrontare, oltre a quelli indicati dalla Ue. Prevalentemente si collocano sul piano della legalità, e non staremo ad elencarli per l’ennesima volta.
Tornando al discorso iniziale, se è vero che l’antipolitica è un controsenso che non conduce a soluzioni accettabili, è anche vero che la politica va ristrutturata e riavvicinata alla società. Non è né facile, né difficile: è indispensabile. Perché la politica, anche se a volte non lo sappiamo, siamo tutti noi.
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