Danilo Chirico, già dalla copertina del Suo libro si intravedono ombre e nebbie.
Il mio libro parte da tre esigenze diverse ma che si completano una con l’altra. Mi interessava, facendo io il giornalista, creare un racconto sul potere, di quel potere che nessuno vede ma che ha influenza fortissima sulle persone. E io, avendo lavorato molto su questo tema, volevo per prima cosa utilizzare la chiave di interpretazione della ’ndrangheta che è uno dei pezzi più significativi del nostro Paese, il meno conosciuto, il più temibile dal punto di vista della forza economica, della violenza, della capacità di penetrazione nella società e nella trasformazione economico-sociale della città. La seconda cosa che mi interessava raccontare erano due città, Reggio Calabria e Roma, che sono le mie due città e che naturalmente sono due città molto diverse tenute insieme da un filo, anzi da molti fili che si somigliano sempre più, ma che sono sempre raccontate male.
Lei parte con un inizio appeso a un filo… “Un filo corre sopra la città, e sopra quel filo ci sei tu, apprendista funambolo”.
È la storia di un magistrato, Federico Principe, che ha un approccio molto manicheo, cioè divide il mondo in buoni e cattivi, stando indiscutibilmente dalla parte dei buoni, cercando di agire anche attraverso la politica tanto da farsi eleggere sindaco di Reggio Calabria. Ma un fatto di sangue che lo riguarda stravolge completamente la sua vita soprattutto perché chiede aiuto a un elemento che aveva sempre tenuto lontano da sé. Questo episodio lo costringe ad abbandonare la sua città andando ad esercitare la sua funzione a Roma: si lascia tutto alle spalle ma discende agli inferi, cerca un rinnovamento doloroso in cui rischia di cadere, come un filo teso sullo strapiombo. Quel filo che noi cittadini conosciamo bene vivendo in un Paese corrotto.
Ha descritto l’aria che si respira a Reggio Calabria per poi collegarla a quella che si respira a Roma.
Queste due città si somigliano molto e sono sempre più legate: nella Capitale abitano 700.000 calabresi e quindi si è creato un legame molto forte attraverso un processo di calabresizzazione che ha a che vedere con l’economia, il funzionamento delle periferie, il consenso sociale di cui si nutre benissimo la ’ndrangheta. La differenza sostanziale è che a Reggio Calabria questo lo si sa benissimo ma ci si è rassegnati, mentre a Roma non ce ne si rende conto forse perché la speranza è di rimanerne immuni . Ma non è così purtroppo.
Colpisce la figura di questo magistrato che ha una dipendenza dalla cocaina.
Ho fatto questa forzatura perché questo personaggio non volevo che fosse un eroe, perché l’eroe non esiste. Ognuno fa un lavoro con forza e serietà non necessariamente essendo un eroe. Questa scelta è una rappresentazione fortissima di una dipendenza di questa società che attraversa tutti gli strati sociali, tutti gli ambiti e che viene usata per molti ragioni diverse ma che è purtroppo una realtà quotidiana. Il mio magistrato l’ho fatto scendere agli inferi apposta.
Sulla colpa dei padri espressa agli inizi del libro cosa può dirci?
E’ un grande tema affrontato molte volte. Al magistrato serve a specchiarsi con la sua vita e con la scoperta di cose gravi perpetrate dal padre, cioè è il risvolto della medaglia a cui devi fare riferimento soprattutto svolgendo questa alta carica della magistraura. Un grande tema sociale.
Accanto alla scrivania del magistrato ha messo la stampa della tavola di Andrea Pazienza dove il presidente Pertini afferma: “Stato, non ti lascio in questo stato”, possiamo avere ancora qualche speranza di salvezza della nostra società?
Questo magistrato inizia con la sicurezza del suo successo sicuro di sé, felice, per poi finire con una serie di contraddizioni. Ci voglio vedere una crescita seppur tra episodi molto negativi. Ho creato un thriller per cui tra la sua cupezza e il suo agire alcuni hanno visto nella narrazione un viaggio senza speranza alcuna, io in realtà penso che ci sia una via di uscita.
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Danilo Chirico
Chiaro Scuro
Giunti editore pp. 464, € 18
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