Sabato 2 agosto 1980. All’epoca ero un giovane brigadiere di pubblica sicurezza, comandavo il 4° plotone della Prima compagnia del Centro Addestramento Polizia Stradale di Cesena. Ricordo che in quella afosa mattinata estiva tutto il personale permanente e frequentatore il corso della polizia stradale attendeva il termine delle varie attività, nelle quali era impegnato, prima di essere posto in libertà. Improvvisamente, verso le 11, venne segnalato, tramite altoparlante, la cosiddetta e da tutti temuta “permanenza” in caserma, che anticipava l’immediata partenza per un servizio di ordine pubblico del battaglione (400 uomini), sul territorio nazionale; in quel caso la destinazione era Bologna. Siamo stati il primo reparto inquadrato ad arrivare nel capoluogo emiliano, a parte ovviamente i presidi territoriali, già tutti impegnati in una febbrile quanto dolorosa opera di soccorso. Alle 10.25 la stazione ferroviaria situata in piazza Medaglie d’Oro era piena di persone, presa d’assalto da turisti che andavano e venivano perché Bologna, mia città natale, è il crocevia d’Italia: da qui si passa per andare al Sud o al Brennero. Uno snodo ferroviario che smista famiglie intere, giovani ed anziani, coppie di sposi e fidanzati, bambini in sandali con il sacchetto dei giochi, impazienti di raggiungere il mare o la montagna, ma ignari che l’orologio del destino aveva già decretato la loro sorte. Nella sala d’attesa di seconda classe scoppia improvvisamente una borsa con 200 chili di esplosivo. Provocherà 85 morti e 200 feriti. Al nostro arrivo, non dimenticherò mai i corpi orrendamente mutilati, che, anche in caso di salvezza, sarebbero restati per sempre mutilati nell’anima. Ho pianto, con il cuore straziato dal dolore, ma ho continuato, anche se malvolentieri, a svolgere il mio delicato compito di ordine, sicurezza e soccorso pubblico. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, al suo arrivo nel primo pomeriggio sul luogo del disastro, riuscì solo a dire, con la voce strozzata: “non ho parole”. Quando ripenso a quei momenti mi torna alla mente l’odore acre della polvere da sparo e il caos generale nel quale tutti cercavano di portare il proprio aiuto, a volte intralciando, involontariamente, l’opera dei soccorsi. Non vi erano ambulanze a sufficienza per fare fronte all’emergenza, per cui gli autobus - in particolare quello della linea 37 - sfrecciavano per le vie della città a tutta velocità diretti agli ospedali, con la speranza di salvare più vite possibili. Un lenzuolo bianco, che fuoriusciva dal finestrino, segnalava l’allarme, mentre trasportavano il loro carico di cadaveri e di corpi che ancora respiravano: straziati, dilaniati, carbonizzati… Le persone che ricordo di avere soccorso mi chiedevano quale inferno si fosse spalancato sotto i loro piedi. Allora i telefonini ancora non c’erano. Anche per questo le novità, sulle varie ipotesi della tragedia, così come le richieste di notizie da parte di famigliari, parenti, amici e conoscenti, veicolavano molto lentamente. Rimanemmo a Bologna per dieci giorni, con quelle poche cose che eravamo riusciti a preparare prima della partenza, ma all’epoca, purtroppo, eravamo abituati a questi disagi, ma non ancora a queste terrificanti tragedie! Personalmente, in tutti questi anni, ho partecipato diverse volte alle commemorazioni e come sempre ho sentito la vicinanza con le vittime, con i loro famigliari e con la mia città, Bologna. Una città che da allora non è stata più quella aperta, gioviale e gioiosa degli anni sessanta, ma che dopo la strage del 2 agosto è diventata più chiusa, più preoccupata. Credo che non si sia più ripresa. Oggi con coraggio e con la solita perseveranza occorre non dimenticare. Ma continuare a sperare che finalmente possa emergere la verità “vera”, fugando tutti i dubbi che da oltre trent’anni continuamente ricorrono, anche se questo non restituirà, purtroppo, le tante vite spezzate o irrimediabilmente segnate da questo evento doloroso.
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