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Marzo/2012 - Interviste
Contesti sociali
Provare a prevenire piuttosto che reprimere
di a cura di Michele Turazza

Carlo Ciarlini, comandante del Corpo unico di Polizia
municipale di una serie di Comuni in provincia
di Ferrara ha dato vita al progetto Zerbino con il sostegno
dell’Amministrazione comunale. Lo scopo è analizzare
le varie forme di conflittualità urbana per affrontare
situazioni di litigiosità e intolleranza


Abitazioni di cittadini immigrati ed italiani con cortili in cattive condizioni igieniche. Vicini che lasciano terreni incolti di loro proprietà creando degrado urbano. Famiglia pakistana con bambini che arrecano disturbo al vicinato. Anziane signore assegnatarie di alloggi di edilizia popolare che litigano per ogni piccolo motivo, ricorrendo anche all’uso delle mani. Cani che abbaiano tutta la notte. Confinante che colloca in una stalla senza acqua e senza fogne un maiale, provocando cattivi odori. Anziano signore che teme che il vicino abbia impianti di riscaldamento a gas non a norma. Fornaio che non riesce a dormire di giorno per la presenza di corsi di batteria presso la scuola di musica, attigua alla sua abitazione.
Sono tutti casi di attriti e screzi tra vicini di casa: la lista potrebbe continuare all’infinito. Troppo spesso ci si accorge di questi dissidi solo quando il rancore, magari covato per mesi o anni, deflagra e rompe gli argini della sopportazione reciproca, causando danni, a volte irreparabili. In questi casi la risposta non può che essere repressiva. E prima, come intervenire? Sembra banale, ma la risposta è una sola: con la prevenzione. C’è chi la fa seriamente, o, perlomeno, ci prova. Si tratta del Corpo unico di Polizia municipale dei Comuni di Argenta, Portomaggiore, Voghiera e Masi Torello (Ferrara), guidato dal Comandante Carlo Ciarlini, che ha fortemente voluto e seguito il “Progetto Zerbino”, realizzato con il sostegno dell’Amministrazione comunale di Portomaggiore.
I corpi di Polizia solitamente reprimono; in questo caso fanno prevenzione. Cercano di capire, assieme ad altri operatori sociali, le cause dei dissidi, analizzandole e proponendo alle parti forme di mediazione. Talvolta riescono a ristabilire rapporti civili di vicinato, altre volte no. Ma quello che conta, appunto, è provarci, consapevoli del proprio ruolo di agenti di Polizia municipale, promotori di convivenza civile. Abbiamo incontrato il Comandante Ciarlini.

Dott. Ciarlini, quali sono gli obiettivi del “Progetto Zerbino” e perché questa curiosa denominazione?
Progetto Zerbino ha rappresentato per noi un esempio significativo di come un percorso di ricerca-studio possa connotarsi in modo fortemente operativo, non limitandosi a teorizzare soluzioni, ma mettendole in pratica. Originariamente intitolato Prevenzione dei conflitti interetnici e rassicurazione sociale nelle piccole comunità, il progetto, cofinanziato dalla regione Emilia Romagna, si propone di analizzare le conflittualità urbane, con l’obiettivo di affrontare e prevenire, da parte degli operatori preposti – in particolare, quindi, in seno al corpo di Polizia municipale – situazioni di insicurezza ed insofferenza sociale.
I fenomeni legati all’aumento della complessità sociale e i mutamenti strutturali che una città inevitabilmente vive (invecchiamento della popolazione, immigrazione, crisi economiche cicliche, ecc.) indicano infatti l’emergere di nuovi bisogni e nuove dinamiche che richiedono risposte in grado di prevenire ed affrontare situazioni di conflittualità e intolleranza. Attraverso un percorso di affiancamento da parte di un mediatore sociale esperto in dinamiche di risoluzione dei conflitti, il corpo di Polizia municipale ha costruito una ricerca sulle dinamiche conflittuali di comunità, mettendo in atto azioni e pratiche di mediazione sociale, di prevenzione e gestione dei conflitti interculturali e di vicinato riassunte in un volume dal taglio descrittivo piuttosto originale, contenente schede sintetiche e semplificate che evidenziano il buon utilizzo pratico degli strumenti teorici volti alla gestione dei conflitti, e che rappresentano ora paradigmi e buone prassi da condividere con altri operatori.
Lo zerbino diventa quindi un’icona dell’incomunicabilità, del non voler guardare oltre, del pregiudizio che si forma senza la volontà di accettare e capire in profondità, fermarsi all’apparenza del colore, della provenienza, dell’odore: in una parola, del pregiudizio. Lo zerbino è il primo elemento di contatto, di valutazione di chi c’è dietro la porta. Capire perché qualcuno arriva alle mani col vicino – fino all’oltraggio razzista di natura etnica – è anche rendersi conto che il motivo del contrasto spesso va oltre le apparenze e quindi va trattato con strumenti diversi.

Quali enti, associazioni e professionalità hanno preso parte al gruppo di lavoro?
Questo è uno dei punti di novità del progetto: la volontà di uscire dallo schema classico di ricerca da posizionare sul polveroso scaffale dell’ufficio, coi suoi numeri snocciolati ed impilati, senza un’anima che la pervada. Abbiamo costruito una squadra con personale operativo sul campo, Polizia municipale e servizi sociali, costantemente a contatto con la vera realtà delle cose. Poi, per la gestione professionale della mediazione e della ricostruzione del contesto, ci siamo affidati ad una cooperativa sociale ricca di esperienza (“Camelot officine cooperative”, di Ferrara, ndr) che in stretta sinergia ci ha guidati nel percorso.

Come si è svolta la ricerca?
Il gruppo di lavoro, con l’obiettivo di promuovere strategie di risoluzione dei problemi affrontati, ha operato sulla ricerca e sulla valutazione dei casi di studio. Stilata una scheda per la raccolta dei dati necessari alla loro analisi, l’obiettivo è stato poi quello di individuare gli indicatori utili alla stesura del testo di ricerca. Si è poi proceduto alla fase di mediazione vera e propria, con precise modalità e in momenti ben distinti: prima convocando le parti singolarmente, poi, a seguito dell’approfondimento del conflitto e del suo stato, convocandole insieme per la fase di risoluzione.

Con quali criteri sono stati scelti i casi da trattare?
E’ stata considerata una nutrita serie di segnalazioni in un determinato periodo di tempo (2009-2010, ndr); poi sono stati approfonditi tredici casi specifici che potessero rappresentare un spettro abbastanza eterogeneo di situazioni, partendo dall’assunto – ampiamente dimostrato – che le conflittualità all’interno di una comunità non hanno origine solamente dalla convivenza tra popolazioni aventi abitudini diverse, quindi legate all’immigrazione. La vicinanza che genera insofferenza e ansia (possiamo chiamarla paura sociale), se è pur vero che si accelera a fronte di un contatto tra etnie diverse – ampiamente alimentata anche dalla gestione spesso pilotata che i media fanno del fenomeno – non ha colore né patria, ma discende da tutta una serie di derive culturali che sono il bagaglio negativo che ci portiamo dietro in quest’epoca di crisi economica e di destrutturazione delle storiche categorie sociali. I casi trattati, apparentemente incredibili, sono lo specchio della realtà in una provincia ancora a connotazione agricola, dove il campanile svetta tuttora alto nel cielo e il proprio orizzonte non si pone gli interrogativi della globalizzazione e della progressiva scomparsa di confini geografici e politici.

Che risultati avete ottenuto?
Il lavoro non si poneva l’obiettivo di raggiungere dei risultati, ma di dare l’esatta percezione della reale prospettiva in cui deve agire il lavoro pubblico per uscire dal cortocircuito che rende talvolta incomunicabili il mondo della pubblica amministrazione e la comunità rappresentata: noi questo cortocircuito sociale l’abbiamo inquadrato all’interno della divergenza tra paese reale e pubblica amministrazione, dove il primo evidenzia straordinaria capacità di adattamento ma anche irrazionalità ed arretratezza, e la seconda mette in campo un’idea – anche culturalmente elevata – di ordine sociale ma che si incarta spesso nella burocrazia, operando necessariamente per “schemi”, che diventano obsoleti e inefficaci in tempi davvero molto rapidi.
Il vero risultato, peraltro insperato, è stato l’entusiasmo del personale impegnato nel lavoro, che lo ha etichettato come “il progetto più bello e stimolante a cui abbia partecipato”.

Il progetto di cui ci ha parlato, assieme ad altri che sono stati realizzati nel corso degli ultimi anni, sono indicativi di un modo originale e innovativo di concepire la Polizia municipale: un ruolo diverso da quello delle altre forze di Polizia, ma non per questo secondario, né marginale. Solitamente, i sindaci preferiscono vigili “tutti paletta e distintivo”; nel caso delle iniziative che porta avanti come Corpo unico di P.M., lei ha sempre trovato l’appoggio dei “suoi” sindaci?
Devo dire assolutamente di sì, senza remore. Qui ormai è scontato – ma abbiamo dovuto fare molto lavoro al riguardo – vedere la Polizia municipale come terminale finale di una serie di iniziative che prendono atto che la prevenzione sociale e comunitaria è la migliore forma di anticipazione dei conflitti. Lavorare sulla prevenzione e sul dialogo ha tempi medio lunghi, ma ha effetti duraturi sulla composizione delle scosse che ormai da tempo minano le consolidate mura delle struttura sociale delle comunità circoscritte. Lavorare in quello spazio tra norma e vita di tutti i giorni – quello che un bravo collega ha definito “l’ultimo miglio”, dove si crea l’ansia sociale di cui dicevo prima – è dove si deve manifestare tutta la nostra capacità, autorevolezza, intelligenza, utilità. Ruolo secondario o marginale? Nemmeno per scherzo! Essere gli unici a fare questo è il fondamento del nostro ruolo presente e soprattutto futuro. Poi siamo conosciuti anche per fare un uso importante della paletta e del distintivo.

Come è cambiata la figura del “vigile urbano” negli ultimi anni?
E’ cambiata molto, non sempre in meglio, ma in un’epoca in cui la tecnologia e lo sviluppo relativizzano il concetto di tempo, questo era inevitabile. Al cambiamento concorre anche la normativa, la sensibilità degli organi od enti di riferimento – credo di dover attribuire alla nostra Regione una capacità di traguardare davvero unica a livello nazionale – ed anche noi stessi.
Le tendenze in atto, tuttavia, sono due, divergenti: da una parte l’idea del rafforzamento della Polizia locale come strumento dei sindaci – sovente (è comprensibile) impreparati – per l’equilibrata gestione delle problematiche attinenti alla sicurezza urbana intesa nella sua accezione più ampia, che va dal presidio dell’ “ultimo miglio” ad essere il rabdomante del mutamento sociale, al controllo e regolamentazione dell’ordinato svolgersi della vita nei paesi e nelle città; dall’altra il tentativo, tutto centralista, di attrarla nell’area “polizia” delegandole – ed opponendosi peraltro ad un sostanziale riconoscimento di ruolo e diritti – funzioni, compiti e aree di intervento che ne snaturerebbero la vera funzione di prossimità sottraendola di fatto al governo locale.

Quali sono le peculiarità dell’agente di Polizia municipale rispetto agli operatori delle altre forze dell’ordine e quali le competenze richieste, in particolare per far fronte all’impatto di fenomeni sociali complessi, come ad es. l’immigrazione, sui contesti urbani?
Credo che la vera peculiarità sia l’esclusività, ovvero la storica capacità di conoscere ed interpretare bene il cambiamento sul territorio, al di là dei tanto sbandierati servizi di prossimità svolti da apparati dello Stato che si sono fatti sapientemente accompagnare da una improponibile (per noi) campagna mediatica. Credo che l’Arma dei Carabinieri e la Polizia dovrebbero lasciarci campo libero in questo settore dove meglio di noi non opera nessuno, e avvalersi di questa nostra strutturata capacità di penetrare la società per affrontare e leggere meglio i fenomeni della piccola e grande criminalità – in tutti i settori – che mina la fiducia nel nostro Paese.
L’immigrazione è un fenomeno complesso e inarrestabile, e a nulla varrà ogni tentativo di fermarla: i muri verranno abbattuti in qualunque parte del mondo. La motivazione che spinge l’uomo a ricercare migliori condizioni di vita – a volte la disperazione – è un istinto che, al pari di una grande onda, travolgerà qualsiasi gretto nazionalismo, sia esso stupido o strutturato per la salvaguardia di una identità culturale a cui tutti noi siamo – più o meno – legati. Ma, essendo un fenomeno globale, la Polizia locale non ha strumenti se non quello di porsi sempre dalla parte dell’uomo, non della nazione o della bandiera.
L’esperienza mi ha insegnato che le forze di polizia non sono esenti da responsabilità, e nemmeno la Polizia locale deve sottrarsi dal riconoscere talvolta degli errori nell’approccio alla cultura dell’ “altro” nostro vicino; noi tuttavia abbiamo più responsabilità dei normali cittadini nel ricercare quella capacità di comunicazione ed inclusione, perché abbiamo ruolo e potere per orientare le comunità verso la deriva dello scontro o l’opportunità dell’accettazione.

Quanto incide una formazione continua (e seria) sull’operato degli agenti di Polizia municipale?
La formazione è fondamentale e ben conosco la fatica sovrumana al cambiamento che – almeno per la mia Regione – ha visto in campo persone lungimiranti e coraggiose: la nostra Scuola interregionale (istituita dalle Regioni Emilia Romagna, Liguria e Toscana, ndr.), di grandissimo spessore, ed il Servizio regionale competente in materia di Polizia locale e sicurezza. Distinguerei però due fasi nella formazione: l’accesso al lavoro, che deve essere preceduto da una chiara rappresentazione di chi siamo e cosa facciamo – tanti si avvicinano a questo lavoro con una visione semplificata e distorta! – ed il lavoro continuo di ricerca di valori etici fondanti e che devono permeare tutto il nostro agire. Credo sia importante lavorare sull’essere prima che sul fare: persone consapevoli, prima che professionisti del diritto. Amo richiamarmi ad una citazione piuttosto esemplificativa tratta da un testo orientale: “Un uomo la cui reputazione si basa sulla sua abilità in una tecnica è uno stupido. Concentrando tutta la sua energia in un solo campo, certamente vi eccelle, ma non è interessato ad altro. Un uomo così è inutile”. Ecco, ci servono uomini e donne che conoscano i valori della tolleranza, del rispetto e dell’inclusione, non solo dei decisi tutori dell’ordine costituito. Ma il tema ci porterebbe molto lontano.

Quali riforme sarebbero necessarie per garantire sempre più elevati livelli di professionalità in realtà che cambiano rapidamente, ponendo l’agente di fronte a problematiche sempre nuove?
Non vorrei addentrarmi nell’ormai ventennale dibattito sul dovere di darci una identità che ci viene negata. Piuttosto penso che, semplificando, ciascuno sia in parte arbitro di ciò che fa: se sei un operatore in gamba non c’è norma che te lo negherà, viceversa non c’è norma che trasformerà una persona piccola in un agente stimato. Tutti sappiamo la differenza tra autorità e autorevolezza, non tutti sappiamo applicarla. Detto questo, credo ci voglia coraggio e si debba dire che è fuori luogo trattarci da semplici dipendenti dei comuni o delle province: si voglia o non si voglia in prima linea ci siamo noi – e i Sindaci lo sanno bene – per questo farebbero cosa buona a resistere alle sirene che ci attirano verso una visione statalista del fare polizia.

La sua opinione sulla riforma della Polizia municipale ferma in Parlamento?
L’iter della riforma – condotta invero da alcune persone di buon senso – naviga tra l’indifferenza generale del paese e dei palazzi romani, la contrapposizione di chi ci vede come un pericolo per la sacrale centralità ed esclusività delle competenze in materia di ordine pubblico e sicurezza, e parte della categoria che ancora non ha capito che la nostra peculiarità è essere noi stessi, sospesi tra polizia e gestori del buon governo locale.

Un suo consiglio ai giovani che vogliono intraprendere questa professione.
Primo, leggere molto del dibattito dottrinale che ci sospende tra polizia e “facilitatori” del vivere in comunità: non sono testi normativi, ma riflessioni sul senso di portare una divisa e sull’etica equilibrata e consapevole che li dovrà sostenere nel loro percorso. Secondo, scegliere dei modelli positivi, il che vuol dire parlare con operatori e comandanti, avendo il coraggio di non fermarsi al proprio paese, e chiedendo se possibile di “vivere” qualche momento all’interno di una struttura. Come? Se qualcuno mi chiedesse di poter fare da osservatore per capire, sarebbe una sorpresa ed un onore, e darebbe il senso di una persona curiosa ed intelligente! Poi dovrà fare il concorso, è vero – secondo regole che ritengo superate e anacronistiche – ma questo non ne sminuirebbe l’immagine di persona che diventa uomo. Terzo, studiare, ma solo dopo che ci si è decisi dopo i primi due passi: il concorso è difficile, il lavoro è difficile, ma le motivazioni – sapientemente dosate e giocate tra la consapevolezza di poter svolgere un servizio pubblico importante e la variabilità del ruolo – accompagneranno per il resto della carriera.



___________________________
Carlo Ciarlini è laureato in giurisprudenza. Dirigente di ruolo della Polizia municipale del Comune di Argenta dal 1990, è stato il primo Comandante della provincia di Ferrara ad avviare, nel 2001, l’esperienza associativa per la Polizia municipale, ottenendo successi organizzativi e professionali andati ben oltre i confini provinciali, tali da porre la sua struttura come uno dei primi esempi esportabili per le politiche regionali in tema di associazionismo, efficienza organizzativa e avanzamento tecnologico. Dal gennaio 2002 è Comandante del Corpo unico di P.M. dei Comuni di Argenta, Masi Torello, Portomaggiore e Voghiera, per i quali è anche responsabile tecnico dei progetti in materia di sicurezza urbana e polizia locale. Nel 2008 riceve l’incarico di seguire la costituzione del servizio associato di Polizia municipale dei Comuni di Copparo, Berra, Jolanda di Savoia, Tresigallo, Formignana, Ro, i quali successivamente hanno dato vita all’Unione dei Comuni “Terre e fiumi”, con un proprio Corpo unico di Polizia municipale. E’ docente e componente del Comitato tecnico-scientifico della Scuola interregionale di Polizia locale delle Regioni Emilia Romagna, Toscana e Liguria. Collabora con enti di formazione per l’educazione stradale e alla legalità nelle scuole, e con numerose riviste di settore, anche online, in particolare per quanto riguarda la materia ambientale ed edilizia.


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Questi gli obiettivi

Sugli obiettivi del Corpo unico di Polizia municipale che dirige, il Comandante Ciarlini scrive:
“Vorremmo essere una struttura poliedrica, in grado di mischiare operatività e capacità di leggere il contesto territoriale in cui vive e lavora, dove “leggere” significa ragionare non solo con codice, paletta e distintivo.
Vorremmo essere anche consapevoli e orgogliosamente portatori del fatto che non siamo un’altra forza di polizia dello Stato, anche se talvolta ci accomunano ruolo e competenze, e che questo ruolo peculiare vada insegnato senza incertezze a chi si avvicina a questo lavoro.
Vorremmo essere dei terminali sensibili, e credibili per i nostri amministratori, su come si evolve la nostra comunità sul fronte della multietnicità e dell’ansia sociale crescente che rischia di creare un rapporto di stretta dipendenza aldilà di ciò che è reale.
Vorremmo rivoltare lo stereotipo che vede le strutture di vigilanza e controllo non a favore dell’integrazione: noi ci crediamo e ci lavoriamo, e vorremmo contribuire a costruire un decalogo condiviso di regole, in parte derivanti da una tradizione locale e nazionale da preservare ed in parte da scrivere a quattro, sei, otto, dieci mani.
In ultimo, vorremmo essere apprezzati e conosciuti per privilegiare comunque – anche in periodi di incerta deriva e riconoscibilità dell’impiego pubblico – la cultura del lavoro che, sempre, mette in primo piano l’organizzazione ed il servizio rispetto agli obiettivi individuali ed agli interessi di “corporazione”, che pur hanno una loro ragione d’essere quando vogliono dire “appartenenza”.
Dal sito internet del Corpo unico di P.M. www.poliziamunicipale.info

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