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Marzo/2012 - Interviste
Meno e meglio
Se crescere sempre non rende felici
di a cura di Barbara Notaro Dietrich

Maurizio Pallante, fondatore del Movimento
per la Decrescita Felice, spiega perché occorre cambiare
i parametri odierni che tengono conto unicamente
delle merci e non dei beni. La questione non è solo
economica, né attiene unicamente alla serenità
dell’umanità perché a rischio è la sopravvivenza del pianeta Terra


Si parla molto di decrescita in questo periodo, ma mi sembra ci sia una sostanziale differenza tra la definizione che dà ad esempio Serge Latouche e quella che dà lei…
Nella fase nascente di un movimento di idee che si propone di costruire un paradigma culturale diverso da quello che uniforma i Paesi industriali da 250 anni è inevitabile che si manifestino posizioni parzialmente diverse. Questa è una ricchezza, paragonabile alla biodiversità. Nello specifico le differenze tra Latouche, che io considero un maestro, e il sottoscritto dipendono dalla diversità dei nostri percorsi culturali. Lui è un economista e viene dal mondo accademico. Io ho una formazione umanistica che si è intrecciata con l’approfondimento di conoscenze tecnologiche. Lui svolge le sue riflessioni prevalentemente a livello teorico, mentre io sono più portato a elaborare proposte pratiche, sulle tecnologie, sulle politiche economiche e industriali, sui cambiamenti degli stili di vita.

Con quale indice si potrebbe sostituire il Pil?
Ci sono molti studi e proposte in merito, che, tuttavia, considerano il pil un indicatore insufficiente, perché prende in considerazione solo gli aspetti materiali e quantitativi, e pertanto si propongono di integrarlo con indicatori qualitativi. Noi riteniamo che il pil non sia un indicatore insufficiente, ma sbagliato, perché prende in considerazione solo le merci, ovvero gli oggetti e i servizi scambiati con denaro, per cui calcola come fattori positivi le merci che non hanno utilità o generano danni (gli sprechi) e non prende in considerazione beni reali che non vengono scambiati con denaro perché autoprodotti o scambiati in base alla logica del dono e della reciprocità. Occorre pertanto elaborare un indicatore realmente alternativo al pil, che a noi sembra possa essere individuato nel benessere dei bambini dalla vita intrauterina ai tre anni, gli anni dell’imprinting. In sostanza noi riteniamo che il ruolo di genitori debba prevalere sul ruolo di produttori di merci e che, più in generale, la società debba organizzarsi su una scala di valori in cui la quantità della produzione di merci è posta più in basso della qualità delle relazioni umane. Gli esseri umani non devono più essere considerati i mezzi per raggiungere il fine della crescita del pil, ma le attività economiche devono tornare a essere il mezzo che consente di raggiungere il fine di una più piena realizzazione degli esseri umani.

Non crede che il pianeta sia destinato a un punto di non ritorno?
Purtroppo credo che le cose stiano così. La crisi climatica è arrivata a un punto di irreversibilità e si rischia l’estinzione della specie umana. Ma la mia volontà non accetta di piegarsi senza reagire a questa prospettiva che sembra ineluttabile. Del resto se non si fa nulla, la strada è segnata. L’unica possibilità di invertire la rotta, ammesso che ci sia ancora tempo, è impegnarsi come se ancora fosse possibile farlo.

Lei pone due questioni molto forti nel suo ultimo libro “Meno e meglio”, la crescita dei figli e la Chiesa cattolica quale sostenitrice del passaggio da economia solidale e economia di consumo. Può illustrarcele?
La crescita dei figli è sempre stato l’obbiettivo più alto della specie umana. La sostanza dell’idea stessa di progresso rettamente inteso. Come può una generazione non porsi l’obbiettivo di lavorare per lasciare in eredità alla generazione successiva un mondo in cui si viva meglio? Purtroppo nella nostra società la cura dei figli è stata subordinata alle esigenze della crescita economica. Noi ci proponiamo di invertire questo processo. Anche la Chiesa cattolica si è adeguata all’evoluzione economica in corso, sostenendo dal secondo dopoguerra un partito che ha posto al centro della politica economica la crescita della produzione di merci, vista come un progresso in sé. Ma se l’obbiettivo della vita associata è produrre quantità sempre maggiori di merci, queste merci non possono non essere comprate. Così gli esseri umani sono stati appiattiti sulla dimensione di produttori e consumatori di merci. Come si è potuto pensare di condannare il consumismo se si esaltava la crescita al punto di utilizzare una definizione blasfema come quella di “miracolo” economico? A me sembra che il concetto di miracolo attenga ad altre sfere.

La cosiddetta fase 2 del Governo sembra che vada anche nella direzione che lei contesta, ovvero privatizzazione di beni pubblici (sotto forma di liberalizzazioni) e infrastrutture. Perché ritiene dannosi questi due elementi?
In primo luogo non è accettabile moralmente che la fornitura di servizi essenziali alla vita sia sottoposta alla logica del profitto. I beni comuni vanno gestiti in maniera sicuramente più efficiente (basti pensare agli sprechi d’acqua potabile in reti di distribuzione colabrodo), ma non al fine di incrementare i profitti di chi le gestisce, bensì al fine di ridurre i costi di chi ne usufruisce. Per questo motivo sono state costituite le società municipalizzate all’inizio del Novecento (da Giolitti, un liberale). L’esperienza delle liberalizzazioni dei servizi pubblici e della loro sottomissione alla concorrenza dimostra che dovunque ciò è avvenuto sono aumentati i costi per gli utenti, è diminuita la qualità del servizio (oltre l’aumento dei prezzi, anche la riduzione dei costi delle manutenzioni comporta un aumento dei profitti per i gestori) e, di conseguenza è anche diminuita l’occupazione.

Si sta chiudendo la fase storica iniziata con la rivoluzione industriale. Che cosa prevede?
Tutto lascia prevedere un crollo drammatico, con lo scatenamento di una violenza diffusa a livello internazionale, una diminuzione della sicurezza sociale all’interno, la generalizzazione di una penuria dei beni di prima necessità. Come è accaduto con il crollo dell’impero romano, ma in tempi molto più brevi e con una portata mondiale. La decrescita è l’unico modo per avviare una fase di transizione più morbida, anche se non priva di problemi, verso un’epoca storica più evoluta, verso un nuovo Rinascimento in cui gli esseri umani tornino a essere il fine di un fare connotato qualitativamente e non siano più i mezzi di un fare finalizzato a fare sempre di più fino all’esaurimento della capacità della terra di sostenerlo.

Perché la decrescita è alternativa alla destra e alla sinistra?
Perché destra e sinistra sono due varianti dell’ideologia della crescita. Entrambe si pongono come obbiettivo di fondo la crescita della produzione di merci e poi si scontrano sui criteri di distribuzione del reddito monetario derivante dalla crescita. La più efficiente delle due varianti è stata la destra e la sinistra, dopo aver perso, si è adeguata al modello vincente. Ormai lo scontro è soltanto sulla quantità di tasse e di servizi sociali da sostenere con i proventi delle tasse. Meno tasse e meno servizi sociali per la destra. Più tasse e più servizi sociali per la sinistra. La decrescita si propone di elaborare un nuovo paradigma culturale che introduca criteri di valutazione qualitativi e non quantitativi di ciò che si fa. Non il meno contrapposto al più, ma il meglio anche quando coincide col meno. Per esempio la riduzione dei consumi di energia in case ben coibentate.

Nel suo libro sostiene che i tempi sono maturi perché nasca l’omologo nazionale della cosiddetta lista civica perché allora non nasce effettivamente una forza politica nazionale di questo tipo?
I tempi di questa alternativa purtroppo non sono ancora maturi, perché il salto culturale che occorre fare viene ostacolato dalle incrostazioni ideologiche del secolo scorso. Tuttavia è innegabile che settori sempre più ampi della popolazione dei Paesi industriali lo stanno facendo e un aiuto molto forte viene dalla crisi, che sta diffondendo la consapevolezza che nulla tornerà come prima, nonostante i messaggi fuorvianti che vengono mandati da politici, economisti, industriali, sindacati e mass media. La costruzione di un soggetto politico al di fuori dei partiti è comunque inevitabile e si stanno facendo passi in avanti in questa direzione.

La crisi che vive il mondo viene percepita o fatta percepire come finanziaria e non economica. Lei però sostiene non sia così…
La crisi è causata dal fatto che si produce molto di più di quanto si può comprare perché le tecnologie finalizzate alla crescita aumentano la produttività, ovvero consentono di produrre sempre di più con sempre meno addetti. Ma se si produce sempre di più aumenta l’offerta di merci, mentre se diminuisce il numero degli addetti che ricevono una retribuzione, diminuisce la domanda. È per sostenere la domanda che sono sistematicamente aumentati i debiti pubblici e i debiti privati che, sommati insieme, hanno ormai raggiunto il 200 per cento del pil di tutti i Paesi industriali. Su questi debiti si è scatenata la speculazione finanziaria. Da questa crisi non si esce con gli strumenti tradizionali della politica economica perché, se si punta a ridurre i debiti pubblici diminuisce la domanda e la crisi di sovrapproduzione si aggrava, se si punta a superare la crisi occorre aumentare la domanda e si aggravano i debiti pubblici.

In che osa consiste la green economy e perché è diversa dalla decrescita?
La green economy è un tentativo di rilanciare la crescita potenziando la produzione di merci meno impattanti sull’ambiente col sostegno del denaro pubblico, in particolare le energie rinnovabili. Questa ipotesi è destinata a fallire, in primo luogo perché richiedendo denaro pubblico accresce il debito. Certo è meglio accrescere i debiti per finanziare i pannelli fotovoltaici che il nucleare, ma se si parte dall’idea di ridurre gli sprechi (il 70 per cento dell’energia prodotta nel nostro Paese si spreca), si libera del denaro per gli investimenti senza accrescere i debiti pubblici. Una politica energetica fondata, prima sulla riduzione degli sprechi, poi sulla soddisfazione del fabbisogno residuo di energia con fonti rinnovabili, farebbe diminuire i consumi senza peggiorare il benessere. Ma se i consumi di ciò che si spreca diminuiscono, il pil decresce. Soltanto una decrescita selettiva del pil ci può consentire non solo di ridurre la crisi ambientale, ma anche di liberare il denaro necessario a rilanciare l’economia senza accrescere i debiti pubblici.

Che cosa risponde a chi dice che tutte le energie alternative non coprirebbero il fabbisogno degli italiani?
Le energie alternative non sono in grado di coprire l’attuale fabbisogno degli italiani, che però è costituito al 70 per cento di sprechi. Se si riducono gli sprechi, sono in grado di soddisfare le esigenze energetiche reali della popolazione. Chi sta facendo i passi necessari in questa direzione (riduzione delle perdite energetiche della propria casa e installazione di fonti rinnovabili) già ne gode i vantaggi e ne godrà sempre di più man mano che aumenteranno i prezzi delle fonti fossili.

Si dice da più parti che la crescita economica sia l’unico sistema per creare occupazione. Perché sostiene che invece sia la decrescita a creare occupazione?
La crescita economica non crea occupazione perché la concorrenza richiede l’adozione di tecnologie che riducono i costi e aumentano la produttività, per cui consentono di produrre sempre di più con sempre meno occupati. La decrescita correttamente intesa, ovvero la riduzione degli sprechi, delle merci che non sono beni secondo la nostra definizione, richiede moltissimo lavoro, utile e che paga da sé i suoi costi. Pensi a un piano di ristrutturazione energetica dei nostri edifici, che consumano il triplo dei meno efficienti edifici tedeschi. Per ridurre le loro dispersioni termiche si creerebbe moltissima occupazione in tanti settori. Il costo di questa occupazione si pagherebbe con i risparmi energetici. Ma se i nostri edifici consumassero un terzo di quanto consumano attualmente, il nostro pil diminuirebbe. La decrescita selettiva della merci che non sono beni è l’unica strada per creare occupazione nei paesi industrializzati.

Quale rapporto c’è tra decrescita e welfare state? E quindi che cosa significa meno Stato, meno mercato?
Nel welfare state ci sono servizi pubblici che devono essere resi più efficienti, come la sanità, l’istruzione e il sostegno delle fasce più deboli. Ma ci sono anche servizi di cura ai neonati e agli anziani finalizzati a liberare da questi compiti le persone nelle fasce d’età produttiva. Se i servizi di cura venissero svolti per amore all’interno delle famiglie, da parte sia degli uomini che delle donne, il pil crescerebbe di meno. Se invece le persone in età lavorativa dedicano tutto il tempo alla produzione di merci e spendono una parte del loro reddito per fornire un reddito a persone che svolgono le attività di cura per i propri familiari a pagamento, il pil cresce molto di più, ma stanno peggio, psicologicamente e a volte anche fisicamente, tutti. In quei casi il welfare non è un sostegno alle famiglie, ma alla crescita sotto le mentite spoglie di un sostegno alle famiglie. Meno Stato e meno mercato significa riportare la centralità del dono del tempo e della reciprocità nelle relazioni umane e nelle famiglie. Significa liberare quote significative della propria vita dalla dipendenza da mercato e dalle istituzioni. Significa ridare agli affetti la centralità che meritano per rendere una vita degna di essere vissuta.

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