Per Forze Armate e Forze di Polizia denunciarlo
comporta immediatamente la perdita dell’idoneità
al servizio e l’avvio di una procedura
medico-legale che condurrà alla riforma dell’interessato
e quindi alla perdita del lavoro, connotandolo
come un fenomeno sommerso, che sfugge a qualsiasi statistica
RRecenti episodi avvenuti nell’ambito delle Forze Armate e delle Forze di Polizia, di cui si è immediatamente occupata la magistratura ordinaria, hanno posto in evidenza la scomoda realtà del fenomeno del mobbing nel personale che indossa una uniforme. Finora il mobbing era stato osservato come un fenomeno prevalente nelle aziende private, nelle banche, nelle piccole organizzazioni imprenditoriali e scarso peso statistico hanno avuto i casi registrati nella Pubblica Amministrazione. Tuttavia negli ultimi tempi è stata osservata una inversione di tendenza, non tanto collegata al fatto che il fenomeno sia in diminuzione nell’ambito privato rispetto all’ambito pubblico, quanto al fatto che l’azienda privata, soprattutto se di profilo commerciale elevato con ampia visibilità sui media, per non incorrere nella negativa pubblicità di una sentenza di condanna della magistratura, preferisce ricorrere a mediazioni ed arbitrati che chiudono la vicenda prima di ogni eventuale sentenza. La volontà di chiudere la questione mediando con indennizzi o altri benefici non è presente nella pubblica amministrazione per cui sono prevalse le sentenze di condanna in ambienti quali ad esempio gli ospedali, le forze armate e le forze di polizia. Ospedali e forze di polizia, pur se distanti come settori operativi, si somigliano per due caratteristiche fondamentali: la rigida strutturazione gerarchica ed il contatto quotidiano con il dolore, la sofferenza, il disagio sociale, il crimine. Peculiare tuttavia per l’ambito militare e di polizia è la caratteristica che l’atto di denunciare il mobbing comporta immediatamente la perdita dell’idoneità al servizio e l’avvio di una procedura medico-legale che condurrà alla riforma dell’interessato e quindi alla perdita del servizio. Ciò rende il mobbing in uniforme un fenomeno sommerso, che sfugge a qualsiasi statistica e che non emergerebbe nemmeno con i classici “sportelli di ascolto” contro il mobbing e lo stalking che sono sorti in quasi tutte le pubbliche amministrazioni. Ma il mobbing cos’è? Quando parliamo di mobbing, di cosa parliamo? Ne parlò per primo l’etologo Konrad Lorenz, nel 1971, descrivendo alcune modalità tipiche dei branchi animali, come un “fenomeno di attacco ed eliminazione di un animale dal gruppo”. Il termine è inglese, viene da to mob, che significa “attaccare in massa, aggredire tumultuosamente”, tuttavia la radice viene dal latino “mobile vulgus”, movimento della gentaglia. Varie forme di mobbing sono state descritte nella scuola, come bullismo, nella vita militare, come nonnismo, e nelle aziende, come bossing. Nel mondo del lavoro la prima descrizione è stata effettuata dallo psicologo tedesco Leymann, in uno studio del 1992, quale violenza psicologica effettuata attraverso “una comunicazione ed un comportamento ostile”, messo in atto in modo continuo e sistematico, che suscita impotenza nella vittima per mancanza di difese e protezioni. La prima definizione è dello psicologo del lavoro Harald Ege: “forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte dei colleghi o superiori, attuati in modo ripetitivo e protratti per un periodo di almeno sei mesi”.
Le varie forme di mobbing, riportate nella Tabella I, implicano, a carico della vittima, sindromi e patologie che la costringono ad assentarsi dal posto di lavoro per curarsi comportando, le violenze psicologiche e morali perpetrate, gravi danni alla salute ed alla professionalità. I criteri per definire la condotta come “mobbing” devono prevedere una continuità nel tempo, almeno 1 volta a settimana per almeno 6 mesi continuativi (criterio della persistenza e sistematicità), con attacchi alla comunicazione, alle relazioni sociali, all’immagine sociale ed alla situazione professionale, per terminare poi con il perturbamento dello stato psico-affettivo e quindi la salute del dipendente. In genere il mobbing si sviluppa attraverso una serie di fasi temporali che prendono origine da un iniziale conflitto non risolto con i superiori o i colleghi, da qui nascono attacchi continui cui segue un atteggiamento difensivo da parte della vittima; compare quindi stress cronico, i sintomi psichici e fisici da stress e si iniziano ad effettuare assenze per malattia. A questo punto le prestazioni lavorative del mobbizzato diminuiscono, le assenze per malattia diventano frequenti e con le assenze scatta l’etichetta di persona “difficile”. Il mobbizzato diviene un “caso”, il capro espiatorio per i problemi legati all’ambiente di lavoro e viene chiesto il suo trasferimento, cui seguono trasferimenti continui, incarichi minori ed alla fine il “prepensionamento” per malattia o il licenziamento per dimissioni volontarie. La vittima viene quindi esclusa dal mondo del lavoro ed iniziano le problematiche sociali, come la disoccupazione, il disagio personale, le malattie croniche e l’isolamento relazionale.
Le modalità con cui si effettua il mobbing in ambito lavorativo possono andare dalla massima sorveglianza e controllo su tutti gli atti lavorativi, al boicottaggio e sabotaggio del lavoro, ai “pettegolezzi” sulla vittima e sulla sua famiglia, alla retribuzione inferiore, al fomentare voci e diffamazioni, al demansionamento e dequalificazione, alla disinformazione dolosa, alle sanzioni amministrative e disciplinari, alle provocazioni, alle intimidazioni ed alle molestie sessuali, fino al disporre visite fiscali a raffica durante il periodo di malattia. I costi sociali per il dipendente mobbizzato comportano una spesa per la comunità sociale pari al 190% in più del suo stipendio (salario medio annuo). Tali costi sono correlati all’improduttività, alle spese mediche, alle spese legali, alle spese previdenziali, al pre-pensionamento. Tutto nasce, come abbiamo detto, con l’esordio di conflitti interpersonali sul luogo di lavoro ed in una struttura gerarchica, come quella militare o di polizia, con le difficoltà comunicative che le differenze di grado e di anzianità comportano, incorrere in conflitti interpersonali è particolarmente facile. In ogni luogo di lavoro troviamo persone dalle psicologie differenti, in quelli militari o di polizia ciò viene amplificato dal livello gerarchico, dal grado, dall’anzianità, dall’origine etnica e culturale, dalla responsabilità del servizio. E’ inevitabile che tra persone che hanno tutti questi aspetti di differenza possano emergere dei conflitti: la normalità è affrontarli, chiarirli e superarli, soprattutto se al grado corrisponde anche una formazione sulla gestione degli uomini e delle situazioni operative; patologia è invece cronicizzarli ed amplificarli inglobando negli aspetti gerarchici e relazionali anche gli aspetti lavorativi. In tutti i luoghi di lavoro la composizione ed il superamento dei conflitti interpersonali porta ad un cambiamento ed alla crescita personale, sociale e professionale. Quando ciò non accade, per la presenza di rigidità caratteriali o di ruolo gerarchico, ed il conflitto da episodico diviene continuo, si passa da aspetti lavorativi a quelli personali, familiari e sessuali (con la comparsa di molestie sessuali, nel caso di differenza di genere tra i poli del conflitto). La vittima, la parte più debole del conflitto, per la paura di perdere l’idoneità al servizio e quindi il lavoro, soffre in silenzio ed è per questo che il fenomeno nel comparto Difesa e sicurezza è sommerso e le statistiche riportano solo la punta dell’iceberg. Da un punto di vista normativo c’è da dire che non esiste una legge che punisca penalmente il mobbing, come invece è avvenuto di recente per lo stalking. La condotta che produce mobbing non è quindi penalmente perseguibile, tuttavia, producendo dei danni all’integrità psicofisica della vittima, questi danni, detti “danni biologici”, sono civilmente risarcibili, ai sensi degli articoli 2087 (obbligo tutela salute del dipendente) e 2043 (risarcimento del danno) del Codice Civile. Se poi nella condotta da mobbing sono comparsi anche atti che possono inquadrare reati penali, questi possono essere perseguiti anche in sede penale: art. 609 bis (violenza sessuale), art. 582 (lesioni personali), art. 590 (lesioni personali colpose), art. 594 (ingiurie, diffamazioni), art. 323 (abuso d’ufficio), art. 610 (violenza privata) del Codice Penale. In assenza di adeguate normative di rango di legge possono essere fatte valere alcune sentenze, quale quella ad esempio della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 184/1986, ha messo in relazione gli effetti lavoro-salute, definendo il mobbing come un danno biologico di tipo psichico. Può essere citato anche il Tribunale del Lavoro di Torino che, con la sentenza del 16 novembre 1999, ha sancito il risarcimento per danno biologico da mobbing, ai sensi dell’art. 2087 cc, nei confronti di un datore di lavoro che non aveva garantito l’integrità psico-fisica del dipendente. Con questa sentenza il giudice ha disposto un risarcimento di 10 milioni di lire, quale danno biologico, a carico del datore di lavoro, riconosciuto inadempiente ai sensi dell’art. 2087 cc, per i maltrattamenti durati circa 8 mesi ad opera di un capo turno nei confronti di un dipendente che ha subito “stress emotivo, … sindrome ansioso-depressiva con frequenti crisi di pianto, vertigini, senso di soffocamento, tendenza all’isolamento …” migliorata dopo la risoluzione del rapporto di lavoro. Anche la Cassazione si è pronunciata su diversi aspetti inerenti il mobbing, come ad esempio: il surmenage lavorativo, che compromette la salute del dipendente (sentenza n. 8267/97); l’intento persecutorio del superiore sul dipendente (sentenza n. 475/99); i licenziamenti causati da false accuse (sentenza n. 3147/99); l’eccessivo impegno lavorativo come causa di incidenti (sentenza n. 3970/99). Anche l’INAIL riconosce la sindrome clinica da mobbing alla stregua di un infortunio sul lavoro (D.l. n. 38 del 23.02.2000), considerandolo alla pari di un danno biologico che, per la lesione dell’integrità psico-fisica, corrisponde ad una invalidità permanente che va dal 6 all’11%. Il Tribunale di Milano, con sentenza del 31.07.2003, ha riconosciuto che “il mobbing si identifica in atti e comportamenti ostili, vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere dai colleghi (m. orizzontale) e/o dal datore di lavoro o superiori (m. verticale) nei confronti di un dipendente, individuato come vittima, atti e comportamenti intenzionalmente volti ad isolarla ed emarginarla nell’ambiente di lavoro e spesso finalizzati ad ottenerne l’estromissione”. Il danno psichico da mobbing è quindi un danno alla salute, inteso quale “menomazione psichica in conseguenza a fatto illecito di terzi, consistente nella turbativa dell’equilibrio mentale determinante una modificazione della salute psichica, con alterazioni, temporanee o permanenti, delle funzioni psichiche”. Il danno biologico consiste nella “menomazione, temporanea o permanente, all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti soggettivi dinamico-relazionali, passibile di accertamento e valutazione medico-legale ed indipendente da ogni riferimento alla capacità di produrre reddito, …”. Con la legge 626/94 è stato sancito il passaggio dalla tutela dell’integrità fisica a quella psico-fisica del lavoratore, introduce il concetto di salute non più intesa solo come assenza di malattia, ma come benessere fisico-psichico-relazionale ed identifica, differenziandole per competenze, le figure professionali responsabili della sorveglianza della salute del lavoratore (medico competente, medico del lavoro).
Il risarcimento del danno biologico
Art. 2087 cc – “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. La responsabilità e l’onere del risarcimento in caso di inadempienze, sia mediante comportamenti commissivi che omissivi, spetta al datore di lavoro. L’articolo 2087 cc configura al datore di lavoro un obbligo di protezione del lavoratore da includere non solo l’adozione delle misure richieste dalla legge, dall’esperienza e dalle conoscenze tecniche, ma anche la predisposizione di tutte le generiche misure di prudenza e di diligenza necessarie per la tutela dell’incolumità ed integrità psico-fisica del lavoratore.
Il risarcimento del danno biologico da mobbing, il cui principio è stato più volte confermato da numerose sentenze, avviene a condizione che sia accertata l’esistenza di un nesso causale fra il comportamento mobbizzante, doloso o colposo, ed il danno che ne deriva. Il protocollo diagnostico degli accertamenti medico-legali prevede un colloquio clinico finalizzato allo studio della personalità e dei disturbi psichici e fisici subentrati, con la somministrazione di test psicodiagnostici mirati, una visita neurologica (tesa ad escludere la presenza di patologie organiche neurologiche), la somministrazione di questionari specifici per lo stress, il disadattamento ed i disturbi correlati alla tipologia lavorativa. Nel corso degli accertamenti fondamentale è la dimostrazione del rapporto di causalità esistente tra le cause, che devono essere cronologicamente, qualitativamente, quantitativamente e modalmente idonee a produrre l’effetto dannoso, e la sindrome clinica che sarà analizzata nella sua natura, entità e nelle conseguenze che ha provocato. Il danno biologico da mobbing riconosce una genesi multifattoriale che comprende la specifica ed individuale costituzione del soggetto, la sua personale suscettibilità e capacità di reazione ad un determinato evento dannoso, ed a diversi stimoli relazionali ed ambientali. L’approccio multidisciplinare deve coinvolgere diversi profili professionali, quali il medico del lavoro, che valuta tutti i “rischi lavorativi” analizzando tutte le noxae di tipo tecnico ed organizzativo in grado di alterare la condizione del benessere psico-fisico del lavoratore; lo psichiatra, che effettua una diagnosi clinica differenziale tra un disturbo dell’adattamento (condizione transitoria che cessa con il cessare dello stimolo stressante) ed un DPTS (Disturbo Post Traumatico da Stress, condizione maggiore di cronicizzazione che permane anche dopo il cessare dello stimolo stressante), valutando la personalità, i meccanismi di difesa e di adattamento all’ambient; il medico-legale, che valuta lo stato anteriore del soggetto, lo stato attuale del soggetto, il nesso tra lo stato attuale ed i comportamenti subiti, il nesso causale tra l’azione lesiva ed il danno, nonché la quantificazione del danno. Per dimostrare il mobbing e la violenza subita è necessario provare i seguenti elementi: il dolo (l’intenzione del molestatore) o la colpa (il comportamento non diligente); il nesso di causa (la condotta del superiore e le conseguenze sulla vittima); l’ingiustizia (deve essere stato violato un diritto garantito dalla legge); il danno (il cambiamento peggiorativo della salute e delle condizioni economiche). Se la vittima di mobbing riesce a dimostrare tutte queste cose ha diritto al risarcimento (ai sensi dell’art. 2043 cc). Se non riesce a dimostrarlo, non è successo niente.
(cannavicci@iol.it)
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Tabella I
Forme comportamentali del Mobbing
Prepotenze e vessazioni
Isolamento sociale
Mancanza di informazioni inerenti il lavoro
Voci negative e calunnie
Reputazione lavorativa compromessa
Assegnazione di incarichi “vuoti” o privi di senso
Isolamento lavorativo
Isolamento familiare
Isolamento sociale
Espulsione dall’ambito lavorativo e perdita del lavoro
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Tabella II
Sindrome clinica da Mobbing
Fasi
Esordio: 1 – 6 mesi, con ansia, nervosismo, insonnia
Stato clinico: 6 – 24 mesi, con depressione, somatizzazioni, attacchi di panico, diminuzione libido
Cronicizzazione: dopo i 24 mesi, con sintomi fobici ed ossessivi, isolamento affettivo, bulimia, alcolismo, farmaco-dipendenze, ideazione suicidaria
Conseguenze
Sulla persona: patologie organiche e psicopatologiche
Sulla famiglia: conflitti familiari, isolamento sociale
Sul lavoro: aumento degli infortuni e delle assenze per malattia, più errori
Sulla collettività: aumento dei costi sanitari, dei costi previdenziali e dei comportamenti devianti
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Tabella III
Mobbing
Elementi di costrittività organizzativa: i compiti
Banalità del compito
Complessità del compito
Rigida determinazione dei tempi
Eccessiva ripetitività dei compiti
Eccessiva varietà dei compiti
Eccezioni non note nei compiti
Elevata velocità
Non accettabilità dell’interruzione
Limitazione dei tempi di pausa
Necessità elevata di verifiche e regolazioni
Elementi di costrittività organizzativa: la struttura sociale
Impropria fonte informazioni
Inadeguatezza dei tempi di emissione
Contrasti tra fonti diverse
Imposizione delle prescrizioni
Labilità delle prescrizioni
Imprecisione delle informazioni
Scarsa comprensibilità delle informazioni
Eccessiva formalizzazione
Scarsa tolleranza di scostamento dalle prescrizioni
Elevata quantità di verifiche
Assegnazione di compiti non corrispondenti alle abilità
Scarsi compensi ed incentivi
Insufficiente addestramento e formazione
cannavicci@iol.it
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