James Sveck ha diciassette anni e nessuna voglia di essere raggiunto. Dal cellulare, che butta in un bidone artistico, e dagli adulti che lo vorrebbero consumatore di oggetti e affetti. Figlio di genitori separati e fratello minore di una sorella maggiore invaghitasi di un professore di teoria del linguaggio, James rifugge il mondo e comunica soltanto con Nanette, nonna di buon senso e di buon cuore, e Miró, un cagnetto nero che si crede umano. Deciso a non frequentare l'università e ad acquistare una vecchia casa nel Midwest in cui leggere libri e lavorare il legno per il resto della vita, il ragazzo è incalzato da mamma e papà che lo vogliono cool e realizzato. Gallerista con tre matrimoni falliti alle spalle, la madre, Peter Pan incallito col vizio della chirurgia estetica, il padre, i genitori di James corrono ai ripari e lo invitano a incontrare una life coach che gli indichi la via per il successo (sociale). Sensibile e umana la sua terapista ne accerterà la grande sensibilità, esortandolo a vivere secondo le regole del suo cuore.
Come il celebre Holden di Salinger, James ha pochi anni e poca stima per quel mondo adulto che vede approssimarsi con la sua arrogante apparenza. Come Holden, ancora, è sospeso tra ‘un'infanzia schifa' e le ‘cose da matti' dei grandi, tra le panchine di Washington Square e i laghetti di Central Park, da dove partono ma non si sa mai “dove vanno a finire le papere”. Dietro James però c'è una New York meno accessibile alla narrazione che prova a ricostruire la sicurezza in se stessa ricominciando a raccontare e a raccontarsi. Trasposizione del romanzo omonimo di Peter Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile” è il secondo film americano di Roberto Faenza, che guarda agli adolescenti della solidissima tradizione letteraria statunitense e realizza il ritratto di un ragazzo complesso, profondo e curioso che ha il volto e la sensibilità di Toby Regbo. Dalla New York indagata dal tenente di Harvey Keitel (Copkiller – L'assassino dei poliziotti), il regista torinese procede a indagare un adolescente che in quella stessa città avvia una ribellione silenziosa provocata dalla sua inquieta e dolorosa esplorazione. James ha la saggezza e la pulizia che manca agli adulti in scena e intorno a lui, mai giudicati dal regista ma accolti con le loro ossessioni, quella di adescare mariti o quella di collezionare sottane. A equilibrare una genitorialità eccentrica e la sua grottesca simulazione di giovinezza, ci pensa la nonna di Ellen Burstyn, che esclude il modello del ‘si fa così' incoraggiando nel nipote la capacità di produrre la sua differenza e di spiazzare quello che la società si aspetta da lui.
Asciutto e lineare, il film di Faenza aderisce al romanzo di formazione di Cameron cogliendone l'anima, le percezioni sociali, le relazioni interpersonali, le visioni sulla realtà, l'aria del tempo, la ‘normalità' intesa come rinnovamento morale e non come routine sclerotizzata. Nell'attesa di non andare al college e dentro una galleria in cui nessuno compra mai niente, il giovane James capirà che non ci si può sottrarre alla vita anche se ancora non si sa che cosa si vuole da quella vita. Ma per viverla un giorno il dolore accumulato gli sarà utile insieme a quelle cose che la nonna gli ha lasciato. Un tesoro custodito nel cuore e in un deposito climatizzato di Long Island City.
Nella trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Peter Cameron, Roberto Faenza ha compiuto alcune scelte abbastanza curiose. Per esempio, ha dinamizzato il rapporto tra la psicologa interpretata da Lucy Liu e il protagonista, spostando la terapia dal salotto di casa all’arte del footing. Inoltre – sebbene l'omosessualità di James appaia evidente anche su grande schermo – viene espunta dal lungometraggio l'ammissione del ragazzo.
Ancor più interessante è però un'altra omissione. Nel romanzo, la life coach di James insiste nel domandargli come ha vissuto l’11 settembre, visto che la sua scuola si trovava proprio di fronte alle Torri Gemelle. James rifiuta di rispondere, e anche l’io narrante, improvvisamente, si dimostra reticente. Ecco, quando Faenza, nelle interviste di queste settimane, ha ribadito che anche al cinema la voce fuori campo del protagonista è utile, e nulla toglie alla quintessenza cinematografica della pellicola, forse si è dimenticato che su grande schermo molto più difficile è esercitare la reticenza. Al cinema si vede tutto, e i personaggi, se esitano o mentono, devono in ogni caso essere guardati.
Perché Faenza ha eliminato l’allusione alla tragedia del World Trade Center? Nel romanzo, Cameron la fa cadere un po' di sbieco, in modo che sia il lettore a decidere se raccoglierla o meno. Chi scrive, per esempio, ha deciso di tenere quel dialogo in grande considerazione, e valutare che anzi rappresenti il cuore del libro, laddove troviamo una nascosta origine del malessere e della unicità di James. Il film, però, non sembra del tutto inconsapevole di questo aspetto. Anzi, più ancora che nel volume – forse grazie alla capacità vivificatrice del racconto per immagini – sembra farsi strada una radiografia della società fragile e ferita della Grande Mela anni Duemila, dove agli attentati terroristici ha fatto seguito una devastante crisi economica. Gli adulti che James osserva sono, è vero, tipici di certa letteratura statunitense (una madre immatura, un padre narciso, un patrigno sventato, una sorella svampita, una nonna alternativa, una terapista atipica, e così via), tuttavia assumono le sembianze di una galleria dell’incertezza e della provvisorietà. Non è un caso che James reagisca istericamente e si lasci prendere dal panico proprio durante il viaggio a Washington, quello che viene imposto alle scuole superiori americane per celebrare il patriottismo a stelle e strisce, i valori della nazione, e così via. La sequenza al Korean War Memorial, da questo punto di vista, con i soldati di pietra bianchi come fantasmi, segna uno scarto visionario rispetto allo stile trasparente del film, mostrando così di sottolineare l’aspetto dell’identità collettiva e della gioventù che si affaccia a questa America ferita. Evidentemente, Faenza – che ha cercato per anni di portare al cinema Il giovane Holden – ha enfatizzato, pur senza nominarlo, il rapporto di filiazione tra James e il protagonista di Salinger, proiettandolo nella luce incerta dell’America obamiana, pur senza nominare l’11 settembre, come invece ha fatto Cameron. Segno che il lavoro della trasposizione, oggi come ieri, continua a riservare sorprese a chi lo analizza.
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