Ennio Di Francesco racconta come nacque
il movimento “carbonaro” dei poliziotti democratici
che ottennero dopo lunghe battaglie la legge 121 del 1981
che ha sancito una svolta epocale per le Forze
dell’Ordine. E sollecitare nuovo impegno per attuarne i principi
Nel corso dell’incontro organizzato dalla Fondazione Buozzi, l’Upter e l’Associazione Emilio Alessandrini, svoltosi il 3 novembre 2011 presso la sala della Mercede della Camera dei Deputati sul tema “Trentennale della Riforma di Polizia, una riforma incompiuta”, abbiamo intervistato l’ex vice questore Ennio De Francesco, uno dei protagonisti del Movimento dei poliziotti che portò alla legge 121/81.
Quando il I aprile del 1981 è stata approvata la legge 121, da quanto tempo ci si stavate lavorando?
La legge è stata la conclusione di un lungo percorso di lotte dure e sofferte iniziate a cavallo dei tremendi anni ’60-’70 quando pochi “poliziotti carbonari” iniziarono a riunirsi in varie città d’Italia, spontaneamente e segretamente, per chiedere una polizia più professionale, inserita tra la gente, più moderna e democratica. Possono sembrare concetti scontati oggi, ma occorre andare con la mente e col cuore a quegli anni tremendi scanditi da scontri di piazza, odio e violenza, attentati, uccisioni, stragi. Si pensi solo al “buco nero e insanguinato” aperto il 12 dicembre 1969 dalla madre di tutte le stragi, quella di Pizza Fontana a Milano.
Quali sono stati i contenuti più innovativi della legge?
Le principali conquiste sono state culturali: essere riusciti a cambiare la cultura prevalente di allora per cui i “tutori dell’ordine” (poliziotti, carabinieri..) erano dall’altra parte, separati dalla gente e utilizzati sovente come forza bruta per risolvere conflitti sociali politicamente non voluti affrontare. E’stato un graduale tenace percorso di coinvolgimento dell’opinione pubblica e della forze politiche, sociali e sindacali. Una presa di coscienza straordinaria e contagiosa: gli “sbirri” avevano scoperto da loro quel che Pasolini avrebbe poi detto nel 1968 al partito comunista, venendone rimproverato, dopo gli scontri di Valle Giulia: “io sto dalla parte dei poliziotti”. Insomma avere colmato il solco che divideva i “poliziotti” dalla gente. Inoltre: avere affermato il concetto di “civilizzazione della polizia”, nel senso che la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico, la lotta alla criminalità non si combattono con eserciti, cannoni, carri armati, ma con strutture sempre più professionali, socialmente inserite nel tessuto sociale, capaci di prevenzione, partecipazione, intelligence. Ciò, si badi bene, nel massimo rispetto del ruolo degli apparati militari di difesa dello Stato; e in questa visione trasparente sviluppare la più efficace sinergia con e tra le Forze di polizia a statuto militare, come soprattutto i Carabinieri.
E normativamente?
A questi valori basilari sono ispirati gli articoli della legge 121/81. Sarebbe lungo ricordare tutti gli aspetti innovativi. Ne ricordo alcuni: avere reso obbligatorio in tutte le Scuole di polizia l’insegnamento della Costituzione; affermato il carattere civile della Polizia di Stato; creato per la prima volta un ufficio di coordinamento di tutte le Forze di polizia, a cui fare partecipare Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia carceraria, Forestale; sancito la rappresentanza dei diritti dei poliziotti attraverso loro associazioni e sindacati; creato migliori condizioni di professione, vita e dignità (si pensi solo che prima della legge i “tutori dell’ordine” non potevano sposarsi se non dopo avere compiuto 28 anni (si può immaginare la situazione umiliante di mogli e figli clandestini); sancito la parità di ruolo e funzioni tra donne e uomini; migliorato la formazione e istituita la Scuola di perfezionamento comune tra dirigenti delle Forze di polizia; aver sviluppato le professionalità scientifiche; quelle internazionalistiche; avere regolato il sistema delle Banche date con la tutela della privacy; introdotto i concetti di controllo del territorio e poliziotto di quartiere. Insomma è una legge che ha segnato un tornante nel campo della sicurezza, e non solo.
Come avete lavorato, lei e gli altri carbonari, all’interno della Polizia per ottenere questi cambiamenti?
In ciascuno dei “poliziotti carbonari” si era accesa dentro per esperienze o sentimenti personali la scintilla (parafrasando Gaber) di partecipazione come libertà verso il bene pubblico. Nel 1968, giovane sottotenente dell’Arma a Siracusa, ero stato trasferito da pochi giorni a una Compagnia speciale antimafia, quando nella vicina Avola carabinieri e polizia spararono sui braccianti che dimostravano per le dure condizioni di lavoro. Nel ’69, divenuto vice-commissario di polizia, piansi dinanzi al giovane poliziotto Antonio Annarumma con cranio spappolato in uno scontro di piazza con studenti e operai a Milano. Nel ’72 portai sulle spalle il feretro di Luigi Calabresi. La scintilla era diventata fiamma. Mi ha portato a cercare altri che ugualmente la sentivano dentro. Eravamo pochi, ma determinati. Mi piace ricordare il collega Iuliano, carbonaro di primi tempi che iniziò e venne punito per questo le prime indagini sulle cellule neofasciste di Freda e Ventura a Padova. Divenni amico di Franco Fedeli, un giornalista che a Roma con la rivista Ordine pubblico aveva sposato la nostra causa. Cominciammo a costituire una rete clandestina, a riunirci braccati quasi dai nostri colleghi dell’ufficio politico o carabinieri. Ci incontrammo di nascosto con i primi sindacalisti e politici più sensibili, con magistrati e giuristi. Andammo dove possibile nelle fabbriche e nelle scuole, spesso tra operai e studenti prevenuti, a parlare del nostro sogno. Come dimenticare l’incontro nel 1970 in cui il maresciallo Raffuzzi, un pioniere di democrazia che girava sempre con le tasche traboccanti di fotocopie della Costituzione, citando Di Vittorio, rintuzzò Luciano Lama che con la sua flemmatica pipa ci aveva chiesto “Ma quanti siete?”. E l’incontro nel ’72 vicino al Panteon a Roma con i primi politici, da Balzamo a Fracanzani, da Mammì a Galluppi? Intanto continuavano gli “anni di piombo” dei magistrati, poliziotti, giornalisti uccisi dalle “brigate rosse” e da “ordine nuovo”, dello stragismo e della strategia della tensione. Avevamo costituito, forse senza rendercene pienamente conto, una magari piccolissima rete di “vigilanza democratica”. Mi commuovo ancora oggi a pensare ai tanti “poliziotti carbonari” che in quegli anni vennero puniti, arrestati, cacciati via dall’Amministrazione. Per non parlare di quelli uccisi dal terrorismo e dalla criminalità con questa fiamma dentro, penso ai brigadieri Antonio Custra e Giuseppe Ciotta, ai marescialli Rosario Berardi e Mariano Romiti, ai commissario Antonio Esposito e Ninni Cassarà…e a tanti altri.
Quale era la speranza che vi muoveva?
Di contribuire umilmente alla costruzione di un convivere sociale più sicuro, più partecipato e solidale, senza l’odio e gli orrori di quegli anni. Per le nuove generazioni. Meglio di ogni parola esprimono questa lotta di speranza le centinaia di vedove e orfani, che dal 2004, il 9 maggio di ogni anno si riuniscono al Quirinale nella “Giornata della memoria delle vittime del terrorismo” dinanzi al Capo dello Stato.
Quali le difficoltà, gli ostacoli più gravi?
Gli inevitabili nemici di qualsiasi innovazione che, magari in buona fede, ci vedevano come “sovversivi” o comunisti, e più spietatamente con calcolo coloro che con la riforma avrebbero perso non pochi poteri e privilegi. Una banalità: pensi ai tanti politici e prefetti che utilizzavano poliziotti e carabinieri come inservienti a casa per servire i pasti o portare le mogli a fare la spesa e i figli a scuola, e i cani a fare pipì.
Dopo trenta anni da quella legge, come giudica la sua efficacia?
Essa ha indubbiamente cambiato il nostro “sistema sicurezza”. Ha fatto sì che la nostra polizia avesse uno scatto in avanti, lungimirante per quei tempi, diventando una delle più preparate e professionali al mondo. Lo dico non per piaggeria, ma avendo lavorato come ufficiale di collegamento europeo per anni al Segretariato Generale dell’Interpol in Francia, essendo stato capo dell’Europol italiana, e da ultimo rappresentante italiano con un bravo generale, poi Comandante generale, dei Carabinieri nell’Accademia europea di Polizia. Purtroppo non tutti i valori della riforma sono stati attuati ed essa è rimasta una “riforma incompiuta”, anzi per certi versi sono sati favoriti germi di involuzione. Pensi alla prefettizzazione in settori peculiari professionali investigativi e tecnici, alla rimilitarizzazione strisciante della Polizia di Stato, alla gestione premiale di carriera a discapito della trasparenza (le vicende del G8 di Genova, ma ancor prima a Napoli, ne sono solo una spia), alla rinata conflittualità tra corpi di polizia, alla frammentazione sindacale. Resta un fatto certo però: i valori della riforma sono ancora un patrimonio che appartiene al Paese.
La Polizia è davvero cambiata?
Certamente e ciò nonostante. Lo dicono i risultati che le forze di polizia ogni giorno ottengono nella lotta contro la criminalità comune, organizzata, terroristica. Ciò, malgrado le condizioni difficili e spesso contraddittore in cui debbono operare. La gratitudine degli italiani è evidente in ogni sondaggio, nonostante a volte brutti episodi interni (penso ai casi Marrazzo, Alibrandi, Sandri..). C’è oggi un paradosso di gestione di polizia che meriterebbe una seria riflessione, ma questa è questione politica. La domanda che mi pongo con amarezza è: quali risultati più efficaci si sarebbero ottenuti se tutti i valori della 121/81 fossero stati applicati? Se si fosse andati avanti col discorso di un vero coordinamento tra le forze di polizia, con sale operative comuni, con la formazione professionale comune a tutti i livelli, con il controllo del territorio? Con una diversa gestione di chi di fatto si è impadronito verticisticamente della riforma?
Cosa resta da fare?
Semplicemente riprendere il discorso interrotto, con uno spirito di realismo e lungimiranza che tenga conto dei cambiamenti intervenuti sullo scenario di una globalizzazione che accanto alle potenzialità di sviluppo del convivere sociale, offre anche tante opportunità ad aggressioni criminali sempre più sofisticate e corruttive nell’economia, nella politica, nei traffici di ogni genere. E’ stata creata dal Ministro Maroni un mese fa (ottobre 2011 ndr) una Commissione di rivisitazione della legge 121/81. Noi (vedi box a lato ndr) vorremmo dare un contributo perché non rischi di diventare ulteriore mortificazione dei suoi valori democratici di base. Staremo attenti, con animo costruttivo.
___________________
Ora lavorare alla riforma
Incoraggiati dall’interesse suscitato, dalle riflessioni svolte nonché dai messaggi giunti in relazione all’incontro organizzato dalla Fondazione Buozzi, l’Upter e l’Associazione Emilio Alessandrini, svoltosi il 3 novembre 2011 presso la sala della Mercede della Camera dei Deputati sul tema “Trentennale della Riforma di Polizia, una riforma incompiuta”, si è deciso di dare vita a un’aggregazione volontaria e informale, in sinergia con le citate associazioni organizzatrici, con eventuali altre, nonché con quanti hanno a cuore il rapporto partecipato e democratico tra Forze di Polizia e collettività, al fine di stimolare un movimento culturale di testimonianza, memoria, riflessione che possa riprendere il percorso avviato con la legge 121/81 verso la ricerca, tenace e lungimirante alla luce, nel rispetto di ogni dialettica, di “fondamentali valori unitari di democrazia e di rispetto della persona” per la tutela della sicurezza della gente e delle Istituzioni repubblicane.
Significative sono le frasi del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel messaggio inviato il 19 maggio 2011 in occasione della Festa della Polizia di Stato: “Con la legge 121/81 di riforma della pubblica sicurezza sono state compiute scelte fondamentali per coniugare l’esigenza di salvaguardare lo straordinario patrimonio di professionalità e di tradizione delle diverse forze di Polizia con l’altra non meno avvertita ed imprescindibile di ricondurre tutte le risorse ad un più efficace impegno comune per accrescere le capacità di risposta alle esigenze di sicurezza dei cittadini”.
Illuminante è stato il messaggio inviato dal Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, Antonio Manganelli , laddove auspica: “Oggi, a trent’anni dalla riforma, nel ribadire che si trattò di una legge di straordinaria lungimiranza, ricca di contenuti e di lucida visione delle forze in campo, è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche per continuare l’opera avviata trent’anni fa e portarla a termine”.
I valori della legge 121/81 sono un patrimonio acquisito non solo per ogni ”tutore dell’ ordine” (carabinieri, poliziotti, finanzieri, guardie carcerarie e forestali, polizie locali ) ma di tutto il Paese. Occorre valorizzarne l’essenza democratica e moderna, in un contesto sempre più globalizzato per evitare che devianze di criminalità comune, organizzata, terroristica e di ordine e sicurezza pubblica possano inserirsi alterando il pacifico convivere sociale.
In questo senso il Ministro dell’Interno Roberto Maroni ha mesi addietro istituto una Commissione ministeriale per l’aggiornamento della legge 121/81.
Nel quadro sopra enunciato il Movimento culturale si propone di stimolare e fornire ogni contributo, nella migliore sinergia possibile con Istituzioni, Forze sociali, sindacali, espressioni della Società civile, specie con i giovani, per contribuire ad una società sempre più sicura, più partecipata e più democratica.
|