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Gennaio-Febbraio/2012 - Interviste
Omofobi/ 2
Servire il Paese in uniforme Anche da omosessuali
di a cura di Michele Turazza

Simonetta Moro, agente di Polizia Municipale
di Bologna, racconta come si è evoluto il lavoro
di Polis Aperta, associazione nata per ascoltare e tutelare
gay e lesbiche appartenenti alle Forze di Polizia e militari. Quello che resta
da fare è ancora molto ma il clima culturale e lavorativo
registra positivi segnali di apertura



“Diversamente uniformi”: è l’efficace slogan che campeggia sullo striscione dell’Associazione Polis Aperta, che ha sfilato agli ultimi Pride. Dietro, un esercito invisibile di uomini e donne in divisa, troppo spesso costretti a vivere in silenzio il loro orientamento sessuale nei luoghi di lavoro. Simonetta Moro è agente di Polizia municipale e membro del direttivo di Polis Aperta, che si prefigge di contrastare l’omofobia all’interno del mondo militare e delle forze di polizia, in modo da creare un ambiente più sereno e più rispettoso delle persone gay e lesbiche che servono il Paese in uniforme.

Come è nata e quali sono gli scopi di Polis Aperta?
Polis Aperta nasce nel 2005 per volontà di un gruppo di uomini e donne omosessuali che prestano servizio nelle forze dell’ordine e nelle forze armate dopo che alcuni di essi avevano vissuto una straordinaria esperienza, l’anno precedente, al primo congresso europeo di polizia LGTB (sigla per Lesbian, gay, bisexual, and transgender people ndr) tenutosi ad Amsterdam e dal quale nacque la European Gay Police Association, cui Polis è federata, e che comprende altre 14 nazioni.
Ci siamo però costituiti ufficialmente in Italia come associazione Onlus solo nel 2009. Scopo principale di Polis Aperta è liberare le caserme dal pregiudizio e dall’omofobia, che spesso hanno accompagnato le esperienze di molte donne e uomini in divisa, e affermare la normalità pur nella diversità di ognuno di noi. Inoltre, favorire un maggiore dialogo tra la comunità LGBT italiana e le istituzioni preposte alla sicurezza dei cittadini. Educare per esempio tutti gli appartenenti alle forze in divisa a un rapporto corretto con i cittadini LGBT, per far emergere tutta una serie di reati commessi contro questa fascia di persone proprio a causa del loro orientamento sessuale, stimolando così anche la creazione di strumenti legislativi adeguati. Diffondere quindi la cultura dell’uguaglianza all’interno dei luoghi di lavoro e nella società, col nostro esempio di persone in divisa omosessuali, esempio che contribuisce a mettere decisamente in discussione gli stereotipi nei confronti dei gay.

Come si manifesta l’omofobia nelle caserme?
In tanti modi, spesso non nei più clamorosi e non tanto diversi da quelli che si possono verificare in qualsiasi altro posto di lavoro. I militari non sono tutti uguali fra loro e, così come accade tra le persone comuni, non esiste un’unica linea di pensiero. Dipende quindi da chi ti sta intorno.
A volte il solo silenzio e l’isolamento da parte dei colleghi, unito a quel chiacchiericcio da bar alle spalle di chi viene preso in causa, sono strumenti sufficienti a distruggere l’autostima di una persona. Nei casi peggiori si è arrivati alla costruzione di false prove per “incastrare” il collega gay e farlo trasferire, o addirittura a ricattarlo, una volta scoperta la sua omosessualità. Nei casi più lievi, in cui magari non ci si è manifestati e scoperti, si è costretti ad ascoltare i soliti pregiudizi sui gay, le battute sconvenienti. La differenza è forse che l’ambiente di caserma è ancora molto maschilista e può succedere che un gay in divisa possa assistere, senza avere il coraggio d’intervenire, a scene in cui i colleghi fanno battute o trattano senza rispetto cittadini LGBT. Occorre trovare dei meccanismi che possano in qualche modo fermare ciò e, sicuramente, è fondamentale l’appoggio degli ufficiali e dei comandanti per arginare queste discriminazioni.
Si è appurato, invece, che la visibilità del gay in divisa in alcune circostanze migliora la situazione: colleghi usciti allo scoperto riportano che il loro coming out ha cambiato le cose in meglio, che a nessuno fondamentalmente interessa chi ti porti a letto e che, anzi, molti fanno dell’amicizia con un collega gay quasi “un valore aggiunto”. Il problema è sempre l’ignoranza, ovvero la mancata conoscenza nei confronti degli omosessuali: le immagini stereotipate che si hanno nei loro confronti (es. tacchi a spillo e piume di struzzo nel caso dei maschi) contribuiscono al pregiudizio. Uscire fuori, quindi, vuol dire anche “spiegare” che non c’è nessuna differenza tra noi e loro.

In che modo vi proponete di combattere le discriminazioni legate all’orientamento sessuale nelle forze armate e di polizia?
Con la visibilità, affermando che esistono gay e lesbiche in divisa che prestano il proprio servizio con professionalità al pari di tutti gli altri colleghi e che, allo stesso tempo, è fondamentale per tutti conquistare la libertà di esprimere la propria condizione affettiva sul luogo di lavoro. E’ dimostrato, infatti, che fare coming out ed essere accolti dai colleghi, ha un effetto significativo sul miglioramento delle proprie prestazioni lavorative. Il lavoro è fatto anche di relazioni sociali ed essere costretti a tacere o a raccontare bugie sulla propria vita personale è frustrante e limita fortemente l’instaurarsi di rapporti di fiducia coi colleghi. Alla luce di tutto questo, è assurdo che qualcuno possa essere offeso o punito per avere rivelato il proprio orientamento e, per combattere questo modo di pensare, chiediamo che si trattino tematiche LGBT e si parli di omofobia e transfobia anche nei corsi per allievi e funzionari delle scuole di polizia e delle caserme, così come nei corsi di formazione organizzati dalle amministrazioni dei vari corpi di polizia. Si tratta di una battaglia culturale per cambiare la mentalità e gli atteggiamenti che siamo pronti a intraprendere personalmente, anche in collaborazione con le altre associazioni LGBT nazionali, mettendo in campo la nostra esperienza con la rete europea e le buone prassi mutuabili da Paesi più avanzati del nostro in questo campo.

Quali servizi offrite e che tipo di richieste di aiuto vi giungono più frequentemente?
Non disponiamo di un budget che ci permetta di offrire servizi ma quello che possiamo fare è ascoltare, comprendere e consigliare al meglio il soggetto che si rivolge a noi, indirizzandolo se necessario anche verso altre associazioni che dispongano di un tipo di assistenza specifica, per esempio legale.
Ci vengono rivolte richieste di chiarimento sul funzionamento di regolamenti e di come ci si debba comportare e/o difendere qualora ci si ritrovi in condizioni in cui la propria omosessualità viene a essere rivelata o scoperta. Nel nostro ambiente vi è ancora molta paura di questo. Si tenga presente che mentre alcune forze di polizia sono civili e quindi possono contare sull’assistenza di sindacati, altre forze militari non hanno questa possibilità. Noi non siamo un sindacato e non vogliamo, né potremmo, porci come tale, ma diamo informazioni che mancano alle persone che ci chiedono aiuto e, se sono isolate, le mettiamo in rete cercando di aprire dei canali per la soluzione dei loro problemi.
Molti cercano, invece, solo una valvola di sfogo per raccontare passivamente la propria amarezza e spesso non riceviamo in seguito altri feedback, ma è chiaro che le nostre porte rimangono sempre aperte. Abbiamo di fatto, contro pochi iscritti ufficiali, moltissimi contatti con colleghi che hanno espresso il loro interesse nell’associazione ma che non hanno il coraggio di iscriversi. Purtroppo è necessario che da parte della persona ci sia una spinta interiore per iniziare a intraprendere un cammino che porti al cambiamento. La nostra esperienza è che chi inizia invece a coinvolgersi attivamente con le attività di Polis Aperta, piano piano acquista sempre più consapevolezza e stima di sé arrivando in modo graduale e naturale a non avere più paura e ad aprirsi. La funzione della nostra associazione è anche questa: creare una rete di persone che si rafforzano a vicenda migliorando contemporaneamente la propria condizione personale e la società.

“Polizia e Democrazia” ha già parlato di Polis Aperta nel 2008: in questi tre anni che tipo di iniziative avete promosso e quali obiettivi avete raggiunto?
Dal punto di vista della comunicazione abbiamo creato un nuovo sito web ricco di contenuti che cerchiamo di aggiornare costantemente (www.polisaperta.it) e abbiamo aperto una pagina su facebook. Abbiamo creato e pubblicato sul sito un vademecum contro l’omofobia e forniamo gli strumenti da usare per farla emergere e contrastare. Ci siamo inoltre registrati ufficialmente come associazione e siamo entrati nel Comitato Direttivo dell’EGPA (European Gay Police Association).
Io e l’attuale presidente dell’associazione (Nicola Cicchitti, finanziere, intervistato da Polizia e Democrazia nell’ottobre del 2008, ndr) abbiamo partecipato alla conferenza sui crimini omofobici dell’EGPA a Vienna nel giugno 2010 indossando la divisa, autorizzati quindi dai nostri rispettivi comandi.
Nell’ottobre 2010 abbiamo organizzato una riunione del Direttivo dell’EGPA a Roma, facendola seguire da una conferenza stampa che presentava ufficialmente la nostra associazione e la rete della gay police europea. A tale conferenza ha partecipato un funzionario dei vertici della Polizia di Stato, oltre a diversi esponenti delle maggiori associazioni nazionali LGBT. Abbiamo partecipato al progetto dell’OSCAD (Osservatorio contro gli atti discriminatori) del Ministero dell’Interno, portando il nostro contributo in termini di consultazione partecipata insieme ad altre associazioni. Alcuni di noi hanno partecipato a trasmissioni televisive rilasciando interviste e abbiamo sfilato con uno striscione ufficiale ai Pride nazionali del 2010 e del 2011.
Quindi, in generale, abbiamo fatto grandi passi rispetto alla visibilità all’associazione e qualcosa si sta muovendo anche rispetto ai temi che portiamo avanti con l’istituzione dell’Oscad, progetto che coinvolge in prima persona i vertici della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri su un tipo di discriminazione che paradossalmente il legislatore sta continuando a ignorare, cioè il movente dell’odio verso persone omosessuali e transessuali in una gamma di crimini che vanno dall’ingiuria all’omicidio. Abbiamo ricevuto molti complimenti e strette di mano, ma come dicevo ancora troppo pochi iscritti e difficoltà a entrare in contatto con gli ambienti sindacali e non di categoria, seppure con qualche eccezione.

Vi è mai stata finora occasione di incontrarvi coi vertici delle forze armate e di polizia?
In occasione delle riunioni per l’Oscad c’è stato un breve, ma cordiale, saluto col Capo della Polizia di Stato col quale contiamo di incontrarci in un prossimo futuro. In due occasioni, alla Commissione Difesa della Camera dei Deputati, nella legislatura del governo Prodi.

Di quali strumenti (normativi e non) dovrebbe dotarsi il nostro ordinamento per una più efficace lotta alle discriminazioni omofobiche negli ambienti di polizia e come vengono combattute negli altri Paesi europei?
Estensione “Legge Mancino” o aggravanti in talune specie di reati per tutti. Purtroppo il Parlamento italiano non ha voluto approvare ancora nulla per superare questa situazione che ci differenzia in negativo dagli altri Paesi europei e non. Occorre, come accennato prima, un’opera di collaborazione con le diverse amministrazioni per introdurre informazioni e conoscenza delle tematiche LGBT all’interno di tutte le FF.OO e FF.AA. In altri paesi europei le istituzioni affrontano queste cose con molto più pragmatismo e senza pregiudizi, pertanto, mentre da loro i risultati sono evidenti su diversi fronti, da noi ancora è un problema il fatto di essere o meno visibili.
In Inghilterra per esempio vi sono nuclei operativi della polizia costituiti da agenti e ufficiali omosessuali che si occupano di creare un clima di fiducia e di collaborazione con la popolazione LGBT dei quartieri di appartenenza per contrastare e reprimere i crimini d’odio.
Si possono inoltre occupare anche di controlli nei locali LGBT, svolgendo un lavoro efficace senza dover umiliare, come avviene in altri Paesi, i frequentatori per il loro orientamento sessuale o la loro identità di genere.

Ora mi parli un po’ di lei: come agente di Polizia municipale a Bologna, qual è stata la sua esperienza e che rapporti ha con colleghi e superiori?
I primi anni sono stati all’insegna delle difficoltà che tutti possono sperimentare, riportate all’inizio: non si ha il coraggio di parlare della propria condizione, si ascoltano battute infelici subendole in silenzio, quando il/la collega ti racconta il suo fine settimana insieme alla sua famiglia o al fidanzato/a, tu non ti senti libera di raccontare, magari ometti per non dire bugie, e anche il non dire diventa alla lunga frustrante e imbarazzante; una parte importante di te viene costantemente negata. Poi un po’ alla volta mi sono aperta, iniziando con pochissimi colleghi con cui era nata un’amicizia importante, vedendo le loro reazioni positive ho preso più sicurezza, inoltre ero certa che qualcuno di loro poteva averne parlato con altri con cui fosse a sua volta in confidenza, e il fatto che il clima attorno a me fosse sempre positivo e di rispetto mi incoraggiava. Ma la consapevolezza è cresciuta e ha abbattuto quasi totalmente quel senso di omofobia interiore, solo quando ho iniziato a impegnarmi attivamente con l’associazione; moltissimo coraggio è stato stimolato dai colleghi stranieri della rete europea. Questo mi ha permesso di chiedere al mio Comandante (della Polizia Municipale di Bologna, dott. Carlo di Palma, ndr) l’autorizzazione a partecipare in divisa al convegno della gay police di Vienna, ad aprirmi nel giro di poco tempo con i colleghi di un nuovo ufficio dove nel frattempo mi ero trasferita, a prestarmi per un servizio televisivo sulla mia storia di persona omosessuale in divisa facendo entrare la telecamera di Raitre dentro al Comando per riprendermi in divisa durante il lavoro, situazione che mi ha prima obbligata a chiedere tutte le autorizzazioni del caso e successivamente a spiegare a tanti colleghi che cosa stava succedendo e il motivo di quella telecamera. Rispetto a tutto ciò, ho trovato sempre molta apertura e rispetto sia nei miei colleghi sia nei miei superiori, il Comandante mi ha fatto anzi i complimenti per il modo trasparente con cui vivo la mia condizione personale nell’ambiente di lavoro ed è stato disponibile a esprimerlo pubblicamente partecipando al servizio di Raitre.
Purtroppo so di molti miei colleghi che vivono in modo nascosto, nonostante l’ambiente in cui lavoriamo sia lo stesso, ma come accennavo sopra è necessario anche, e forse soprattutto, combattere contro la propria sfiducia e disistima (la cosiddetta “omofobia interiorizzata”) per riuscire a fare coming out.

_____________________
Simonetta Moro è nata a Bologna nel 1973, dove vive e lavora come agente di Polizia Municipale e svolge libera professione di psicologa-psicoterapeuta. Si occupa di formazione, pari opportunità e mobbing sia all’interno dell’ente comunale, sia nel sindacato. Sulle problematiche delle donne in divisa ha pubblicato il libro Ma le vigilesse sono più cattive? (coautrice S. Gamberini - ed. Avenue Media). E’ membro del direttivo di Polis Aperta e delegata nazionale presso l’European Gay Police Association. Il sito di Polis Aperta è: www.polisaperta.it.

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