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Gennaio-Febbraio/2012 - Interviste
Omofobia/1
A che punto è la legge? Affossata due volte
di a cura di Michele Turazza

Matteo Winkler e Gabriele Strazio nel loro
libro “L’abominevole diritto” fanno il punto
sulla situazione del riconoscimento dei diritti civili
e legali delle persone omosessuali in Italia. E mentre
nel nostro Paese una legge in tal senso non è ancora
stata varata, in altre nazioni europee sì. E così la Ue sollecita il governo ad agire


“Questo è un libro sull’eguaglianza, la grande e inadempiuta promessa della modernità” – scrive il professor Stefano Rodotà nella prefazione al volume di Matteo Winkler e Gabriele Strazio “L’abominevole diritto” (il Saggiatore, 2011, pagg. 323). E ancora: “Coglie l’eguaglianza nel suo momento più profondo, nel tessersi delle relazioni personali e affettive, nella libera costruzione della personalità. Qui, dunque, all’eguaglianza è dovuto un particolare rispetto: per la delicatezza delle situazioni che le sono affidate le garanzie devono essere più intense e sincere. Sappiamo che così non è, massime in Italia. Ma sappiamo pure che, visitando il mondo, il diritto non è sempre così abominevole. Un altro diritto, dunque, è possibile”... con un altro Parlamento, verrebbe da dire.
La classe politica attuale, infatti, non sembra minimamente consapevole della posta in gioco, arroccata com’è dietro a un fantomatico diritto naturale che non consentirebbe alcun riconoscimento giuridico di coppie gay, né un’efficace protezione contro odiose discriminazioni legate all’orientamento sessuale. Leggendo il resoconto della seduta della Camera dei Deputati del 26 luglio scorso, durante la quale è stata affossata per la seconda volta la proposta di legge “anti-omofobia”, risulta evidente l’assoluta inconsistenza delle argomentazioni addotte a supporto della pregiudiziale di costituzionalità. Uno dei pilastri della nostra Costituzione, l’art. 3, viene travolto dall’ignoranza di molti “onorevoli”, che citano l’uguaglianza per promuovere l’esatto opposto: disuguaglianza.

Winkler e Strazio, il nostro Paese non si è mai particolarmente distinto in tema di riconoscimento dei diritti civili delle persone omosessuali e anche recentemente i parlamentari si sono dimostrati incapaci di affrontare seriamente la questione, proponendo e votando assurde pregiudiziali di costituzionalità per affossare l’introduzione dell’aggravante omofobica. Ma andiamo con ordine: quali sono per voi i fattori socio-culturali che da sempre ostacolano un dibattito maturo e una reale presa di coscienza della questione da parte della gente comune?
Che l’Italia sia tradizionalmente lontana dal riconoscimento dei diritti civili non è un’affermazione che vale in assoluto. Essa è certamente valida oggi, ma se pensiamo alla grandezza e alla lungimiranza della nostra Costituzione (Calamandrei la chiamava “la Costituzione presbite”, da tanto essa è in grado di guardare lontano) e al carattere innovativo di certe leggi, come ad esempio quella del 1982 sulla riassegnazione di sesso, chiaramente all’avanguardia nel panorama europeo, ci accorgiamo che la capacità d’intervento legislativo nell’ambito dei diritti civili dipende dall’attenzione della classe politica ai problemi quotidiani delle persone. Mai come oggi questa classe politica è lontana dalla vita del popolo italiano. La loro è l’assenza più lampante dei nostri giorni.
D’altra parte, la percezione dell’omosessualità come “problema” giuridico dipende dalla percezione che ne ha la società. A noi sembra che oggi l’atteggiamento della gente nei confronti dell’omosessualità e delle persone omosessuali sia mutato rispetto a qualche decennio fa. Gli italiani non pensano più, come allora, che gli omosessuali siano persone strane, bizzarre o immeritevoli di un trattamento eguale a quello garantito a tutti gli altri cittadini. Proprio in questo la popolazione si distanzia dalla classe politica, che è, e resta, decenni indietro rispetto alla realtà.
Il problema è che la politica veicola messaggi sbagliati, superati, discriminatori. Pensiamo alle dichiarazioni di Pier Gianni Prosperini, che auspicava pubblicamente il supplizio della garrota per i gay, o a Massimo D’Alema, il quale continua a ribadire, come ha fatto pure recentemente, che i matrimoni tra persone dello stesso sesso, che esistono sotto diverse forme in tutti i Paesi considerati “civili”, offendono “le convinzioni religiose di tanta gente”. Frase rivelatrice dell’atteggiamento tutt’altro che laico dei nostri politici.

Quale il ruolo del Vaticano e della Chiesa?
Nel nostro libro analizziamo a fondo quelle proposizioni della dottrina della Chiesa che si trovano nel Catechismo. Vi si dice che le persone omosessuali devono essere trattate “con delicatezza” e che nei loro confronti non è ammissibile alcuna forma di violenza o di “ingiusta discriminazione”. Nondimeno, la Chiesa giustifica la discriminazione in alcuni casi, ad esempio per quanto riguarda gli insegnanti e, ovviamente, i seminaristi. L’omosessualità è sempre considerata un “disordine morale”.
Per questo la Chiesa si schiera sempre contro ogni tipo di riconoscimento dei diritti dei conviventi omosessuali. Ad esempio, nel documento Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni omosessuali, emesso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2003 e firmato da Joseph Ratzinger, si legge che “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”.
Questa direttiva, che non lascia dubbi sulla posizione della Chiesa sul punto, trascura un dato fondamentale: che il “disegno di Dio” non è sufficiente a limitare quel principio di uguaglianza scritto a chiare lettere all’art. 3 della nostra Costituzione, che vieta ogni forma di disuguaglianza fondata su caratteristiche personali come l’omosessualità. Il richiamo al Parlamento deve venire dalla Costituzione, non dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. E’ alla prima che il legislatore deve rifarsi.
Oltretutto, nel documento citato la Congregazione si scaglia contro la “tolleranza” dello Stato e a favore della “necessità di contenere il fenomeno”. Sono parole pesanti. Esse delineano un disegno inquietante, perché comunicano idee profondamente sbagliate e, queste sì, immorali: che gay e lesbiche sono persone per le quali il dovere di castità travalica la coscienza individuale per diventare un problema di “moralità pubblica”; che la dignità delle persone omosessuali, può essere oggetto di un rifiuto dettato non dalla libera discussione politica, ma da un imperativo categorico di natura religiosa; che, infine, le richieste di gay e lesbiche, pur sempre minoranza talvolta silenziosa ma nondimeno sostanziosa, “non possono essere tollerate”. Non è difficile vedere, nella posizione della Chiesa sulla questione delle unioni omosessuali, una vera e propria minaccia alla democrazia e al dibattito democratico.
D’altro canto, è la classe politica che lascia che le direttive della Congregazione per la Dottrina della Fede entrino in Parlamento. Se il dibattito sulla disciplina delle unioni omosessuali è arenato ormai da nove anni (è del 2002 il primo disegno di legge in materia) e se non abbiamo ancora una legge contro i delitti a stampo omofobico (affossata, non a caso, proprio per iniziative delle correnti della maggioranza più vicine alla Chiesa, come i deputati Buttiglione e Volonté) lo dobbiamo proprio alla classe politica attuale, più attenta a quello che dice la Chiesa piuttosto che alle legittime richieste dei propri elettori. Ciò offre chiaramente l’idea dello stato della nostra democrazia, purtroppo.

Cos’è l’omofobia?
L’omofobia è “una paura e un’avversione irrazionale” nei confronti delle persone omosessuali. L’ha definita così il Parlamento europeo in una risoluzione del 2006. Nella stessa risoluzione si legge che l’omofobia è analoga alla xenofobia e al razzismo: è una caratteristica della persona che non ha niente a che vedere con le scelte o con la statura morale di un individuo.
L’omofobia è la ragione della violenza e della discriminazione. La violenza non è solo quella fisica (come tanto per citare un esempio tra i molti, l’aggressione a una donna che si trovava con la compagna in un ristorante) ma anche quella verbale, dunque anche quella di alcuni politici, che si scagliano con una frequenza inquietante contro le persone omosessuali.
Col tempo la letteratura ha creato diverse categorie, “sfumando” questa definizione e introducendo il concetto, meno intenso, di “omonegatività”. Quest’ultima si riferisce agli atteggiamenti che, pur non sfociando nell’omofobia in senso stretto, comprendono varie forme di pregiudizio nei confronti di gay e lesbiche. Al di là delle etichette, spesso create ad hoc per rendere più gentile — o meglio più politically correct — un dato concetto, a noi sembra che ove l’ordinamento giuridico sancisca un trattamento diversificato in virtù dell’orientamento sessuale, si abbia una chiara manifestazione di omofobia.
Si pensi al fatto che in molti Paesi dichiararsi gay o lesbica implica la perdita del posto di lavoro. La Corte Europea dei diritti dell’uomo si è occupata in ben quattro occasioni di casi come questo, dichiarando sempre l’illiceità della discriminazione. E il Paese convenuto in giudizio era il Regno Unito, che non può certo definirsi illiberale. Per non parlare della vita di coppia: essere una coppia dello stesso sesso significa spesso subire un trattamento deteriore rispetto alle coppie sposate in termini di benefici pensionistici. In questo campo diverse sentenze della Corte di giustizia europea hanno analizzato questa forma di discriminazione.
Se tutto questo sia omofobia o omonegatività poco ci importa: la ragione delle discriminazioni solitamente risiede nell’odio o nello storico pregiudizio nei confronti delle persone omosessuali. Non c’è discriminazione, in questo campo, che non si fondi sulla convinzione che le persone omosessuali siano esseri inferiori, e dunque non siano meritevoli degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini.

Perché è necessaria una legge anti-omofobia e, nel concreto, cosa dovrebbe prevedere?
Le leggi contro l’omofobia ci sono in quasi tutti i paesi civili. Esse riconoscono che alcuni delitti perpetrati a danno di persone omosessuali (violenze fisiche e verbali, ingiurie, bullismo, danneggiamenti ecc.) si caratterizzano proprio in virtù dell’orientamento sessuale della vittima, nel senso che se la vittima fosse eterosessuale, essi non sarebbero stati commessi. Pensiamo ai bulli che qualche anno fa hanno imbrattato le saracinesche della libreria Babele, oppure al pestaggio di due ragazzi che camminano tenendosi per mano. La ragione vera di questi reati è l’omosessualità: perché non riconoscerlo?
Da questa premessa, gli strumenti sono molteplici e tutti utili. Anzitutto, bisognerebbe che chi commette un crimine dettato dall’omofobia si renda conto che l’ordinamento disconosce questo suo obiettivo, e quindi applicare una pena maggiore prevedendo un’apposita circostanza aggravante.
Inoltre, sarebbe necessario prevedere la perseguibilità d’ufficio, evitando che le vittime siano costrette a denunciare le violenze che hanno subito, cosa che infatti non avviene per il timore di dichiararsi di fronte alla polizia o di subire vendette da parte dell’aggressore. Se riflettiamo a fondo, in molti contesti sociali il coming out è una rarità non perché dichiararsi sia impossibile, ma perché essere gay è pericoloso.
Si dovrebbero infine reprimere i discorsi d’odio, che si hanno quando una persona incita alla discriminazione e all’odio in ragione dell’orientamento sessuale. L’esempio della garrota di Prosperini, già citato sopra, è calzante.

Nel vostro libro argomentate sull’insufficienza di una semplice aggravante da applicare ai reati commessi per odio verso gli omosessuali...
Vi sono ragioni tecniche che supportano la nostra conclusione, che è nel senso di estendere la legge Mancino (del 1993), che si occupa dei crimini e dei discorsi d’odio, alla tutela dell’orientamento sessuale, accanto alle caratteristiche già protette quali etnica, razza e religione.
L’aggravante infatti non basta. Occorrono anche la perseguibilità d’ufficio e la repressione dei discorsi d’odio, come avviene in molti Paesi.
Ovviamente, nel nostro Paese questa soluzione richiede di superare una barriera intellettuale molto forte: quella che impedisce di assimilare l’orientamento sessuale alle altre caratteristiche personali protette come l’etnia, la razza e la religione. La gerarchia ecclesiastica, ovviamente, non è d’accordo ad assimilare la religione all’orientamento sessuale, anche se dal punto di vista della tutela giuridica andrebbe notato che un individuo può decidere di cambiare religione ma difficilmente cambierebbe orientamento sessuale. Se si protegge la religione, dunque, perché non farlo anche per l’orientamento sessuale? Anche il Parlamento europeo, dal 2006, ci chiede di legiferare in questo senso.

A fine luglio, in un dibattito di bassissimo profilo, la maggioranza dei parlamentari ha “utilizzato” le norme della Costituzione (sic!) per bloccare l’iter della proposta di legge sull’aggravante omofobica: a tal proposito, il professor Rodotà, che ha curato la prefazione al vostro volume, ha efficacemente parlato di “mondo capovolto”: come sono state motivate le pregiudiziali votate dal Parlamento?
Le “pregiudiziali di legittimità costituzionale” sono delle questioni il cui voto impedisce una valutazione del merito di una proposta di legge, prevenendo così un sano dibattito. E’ chiaro che se le pregiudiziali sono mal poste, è molto facile incorrere in un voto negativo, e quindi nella bocciatura del disegno di legge.
E infatti la proposta di legge in questione è caduta per ben due volte alla Camera sotto la scure delle pregiudiziali, una nell’ottobre 2009 e una lo scorso luglio 2011.
Le pregiudiziali sostenevano fondamentalmente due cose. La prima è che non risultasse definito il termine “orientamento sessuale” e la seconda che il disegno di legge discriminasse “alla rovescia” gli eterosessuali, rendendo gli omosessuali “più uguali” degli altri.
Queste obiezioni non hanno nessun pregio.
Da un lato, infatti, l’orientamento sessuale è una categoria già conosciuta nel nostro ordinamento, ad esempio nel decreto del 2003 sulle discriminazioni sul luogo di lavoro. Inoltre, il Trattato di Lisbona, numerose normative dell’Unione europea e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo contemplano l’orientamento sessuale come caratteristica protetta. Quindi dire che esso non sia definito dal diritto è una pura falsità.
Dall’altro lato, una legge contro l’omofobia non discrimina nessuno. Essa semplicemente prende atto della caratteristica tipica di un reato, cioè la sua origine omofobica. Leggi che proteggono da reati a sfondo razziale e religioso già esistono: perché solo coi gay si solleva una tale questione pregiudiziale?

Siamo ormai giunti a una forma di “omofobia istituzionalizzata”?
Potremmo dire di sì. L’omofobia è “istituzionalizzata” quando proviene dalle stesse istituzioni e trova terreno fertile nel silenzio della legge. E’ proprio la condizione dell’Italia di oggi, dove la RAI (la televisione per così dire istituzionale) si può permettere di censurare una puntata della serie tedesca “Un ciclone in convento” nella quale appariva un matrimonio tra due persone dello stesso sesso. La giustificazione della dirigenza della RAI è stata che si volevano evitare polemiche. Cancellare una realtà che esiste in tutti i paesi civili è un puro atto di censura omofobica. E di chiara omofobia istituzionalizzata.

Il passo dai “discorsi” d’odio a una sorta di “giustificazione” di svariate forme di vie di fatto (violenze, aggressioni...) sembra assai breve. In altri termini, un contesto politico-culturale discriminante, che prontamente non stigmatizza e non reprime manifestazioni verbali aggressive può favorire altre forme di violenza.
E’ corretto. Lo Stato ha il dovere di proteggere i propri cittadini e il Parlamento quello di legiferare per assicurare norme chiare e funzionali allo scopo. Questo dovere diventa ancora più impellente e urgente ove si consideri che, quando si verificano attacchi omofobici, alcuni pubblici ministeri chiedono una condanna dell’autore aggravata dai “futili motivi”, come può essere una motivazione omofobica. Si tratta di una scelta sicuramente coraggiosa e utile, ma che richiama il legislatore alle sue responsabilità.

A questo punto, l’unica speranza sembra l’Europa, uno dei cui principi fondanti è quello di non discriminazione (anche a causa dell’orientamento sessuale). L’Unione europea ha una posizione ufficiale in materia di convivenze di fatto?
Il problema che abbiamo con l’Europa riguarda le sue competenze. L’Unione europea succede alle Comunità europee, che sono nate con competenze puramente economiche. Anche se col passare del tempo queste competenze si sono estese, resta il fatto che l’Europa non possiede ancora capacità di legiferare in ogni ambito. Uno degli ambiti esclusi è quello del diritto di famiglia.
Tra le competenze dell’Unione, nondimeno, vi sono materie che tangenzialmente toccano il diritto di famiglia: pensiamo alla circolazione delle persone, all’immigrazione, alle regole sulle controversie giudiziarie. Qui l’Unione è molto attenta a rispettare le scelte dei singoli Stati.
E’ anche vero che nel 2010, in un diverso ambito, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito a chiare lettere che la Convenzione europea dei diritti umani, la quale riconosce a tutti il diritto di sposarsi, non impone agli Stati l’obbligo di riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso. Il caso che ha dato origine a quella sentenza, però, riguardava l’Austria, che ha già una disciplina delle unioni civili. Sulla situazione di quegli Stati, come l’Italia, che invece nulla prevedono al riguardo, la Corte deve ancora pronunciarsi e la partita è ancora aperta.
L’unica voce chiara è quella del Parlamento europeo, che più volte ha sollecitato gli Stati membri ad introdurre normative apposite in materia di unioni omosessuali. Voce inascoltata nel nostro Paese.

Come sono regolate le convivenze tra persone dello stesso sesso negli altri Paesi europei e in quali è previsto il matrimonio?
In sintesi, l’Europa conosce tre modelli. Anzitutto, le partnership domestiche o registrate, introdotte in Danimarca nel 1989 e poi adottate in breve tempo in tutta l’area scandinava. Questo modello equipara in toto le unioni omosessuali registrate alle coppie coniugate, ma mantiene un nome diverso per ciascuna: partnership da un lato e matrimonio dall’altro.
Il secondo modello è per così dire “dettagliato”: il legislatore introduce non un’equiparazione quasi totale, ma norme ad hoc ispirate dal modello matrimoniale. E’ il caso di Irlanda, Regno Unito, Germania, Svizzera e Austria.
Il terzo modello è quello del matrimonio puro, come in Spagna, Portogallo, Svezia, Norvegia, Olanda e Belgio. Qui l’uguaglianza è totale.
Accanto a questi modelli ve n’è uno “spurio”, che si applica anche alle coppie eterosessuali. E’ il PACS, che però esiste solo in Francia. Si tratta di un modello isolato, perché la scelta della maggioranza dei Paesi è nel senso di dedicare alle coppie gay e lesbiche un’apposita forma di unione. Per questo quando in Italia si parla di PACS viene un po’ da ridere. Ciò dimostra come siano poco informati i nostri politici.

Coloro che si dichiarano contrari al matrimonio gay si appellano all’art. 29 della Costituzione che stabilirebbe il divieto di riconoscere anche ogni altra forma di convivenza: perché una tale interpretazione non può reggere dal punto di vista giuridico?
Perché l’art. 29 ha avuto un percorso di elaborazione molto complesso. La norma è una contraddizione in termini: parla di famiglia come “società naturale” ma poi la fonda su un istituto che in natura non esiste, cioè il matrimonio. Poi i proponenti volevano che la previsione servisse a impedire l’introduzione del divorzio, tanto che accanto a “matrimonio” compariva l’aggettivo “indissolubile”, ma la relativa formulazione non è passata.
La ragion d’essere della norma è che lo Stato riconosce la famiglia, che gli preesiste. Si voleva quindi evitare che la famiglia servisse allo Stato come strumento di controllo dell’individuo, come sotto il regime fascista. L’art. 29 è proprio questo: ci impone di non usare la famiglia a scopi politici.
Ed è proprio questo che fanno i partiti oggi: usano l’art. 29 contro il riconoscimento delle unioni omosessuali. Si tratta di un ragionamento evidentemente fallace, alla luce di quanto detto sopra. E pericoloso, com’è sempre pericoloso usare la Costituzione contro un gruppo di cittadini, contro una minoranza. Come Carlo Giovanardi che da sottosegretario alla Famiglia, sosteneva che le coppie gay sono fuori dalla Costituzione.
Non dimentichiamo che accanto all’art. 29 ve ne sono altri due che tutelano invece le coppie omosessuali: l’art. 2, rispetto al quale la Corte costituzionale ha precisato che alle unioni gay e lesbiche “spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente la loro condizione di coppia”, e l’art. 3, che vieta le disuguaglianze fondate su caratteristiche personali. Citare solo l’art. 29 significa strumentalizzare la Costituzione, cioè fare proprio ciò che gli autori della norma volevano evitare.

Credete che anche nel nostro Paese, un giorno, il diritto cesserà di essere “abominevole”?
Lo speriamo e auspichiamo. Certamente, la situazione non fa ben sperare. La bocciatura della legge contro l’omofobia del luglio 2011, per la seconda volta e nell’occasione con una maggioranza allargata a PDL e Lega, oltre all’UDC, ci preoccupa molto. Così come ci preoccupano le prese di posizione di alcuni esponenti dell’opposizione, in particolare del PD, che si arroccano su posizioni parallele a quelle della Chiesa, giustificandosi con la volontà di non “offendere” lo spirito cattolico che albergherebbe nella maggioranza del popolo italiano.
Solo se la classe politica iniziasse ad informarsi sul tema delle coppie omosessuali, magari — consentici la battuta — leggendo il nostro libro o comunque documentandosi, forse si potrebbe superare l’ostacolo politico maggiore a un’adeguata comprensione di ciò che va fatto sul tema: l’ignoranza.



________________________
Matteo Winkler, avvocato, ha conseguito un master presso la Yale Law School e un dottorato di ricerca in diritto internazionale dell’economia presso l’Università Bocconi, dove insegna come docente a contratto. Si occupa di tematiche legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere, anche in qualità di socio di Rete Lenford - Avvocatura per i diritti LGBT, l’associazione di avvocati e praticanti che si occupa della tutela giuridica delle persone omosessuali, bisessuali e transgender. Collabora come blogger con il Fatto quotidiano in materia di diritti civili e libertà fondamentali.
Gabriele Strazio, militante per i diritti Lgbt, da anni si occupa di cultura omosessuale, collaborando con i maggiori siti e riviste di informazione gay e scrivendo di letteratura, cinema e politica. Conduce su Radio Lupo Solitario il programma Bye bye, baby di musica rock e tematiche Lgbt.
Il blog del libro è: http://abominevolediritto.wordpress.com

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