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Gennaio-Febbraio/2012 - Interviste
Giovani in Italia/2
Il mondo del lavoro deve entrare a scuola
di a cura di Barbara Notaro Dietrich

Giovanni Casalegno, insegnante in un istituto
professionale, analizza la situazione di un settore
scolastico che era il fiore all’occhiello dell’istruzione, sottolineando
carenze e positività. E auspicando che diventi il canale perché molti giovani
trovino il lavoro di cui il Paese e le aziende hanno bisogno



Giovanni Casalegno, insegnante in un istituto professionale, analizza la situazione di un settore scolastico che era il fiore all’occhiello dell’istruzione, sottolineando carenze e positività. E auspicando che diventi il canale perché molti giovani
trovino il lavoro di cui il Paese e le aziende hanno bisogno



Giovanni Casalegno insegna all’Istituto Professionale “Pietro Andriano” di Castelnuovo Don Bosco, in provincia di Asti, ma più vicino a Torino. E’ un uomo schietto e pratico, sicuramente avrà una sua ideologia politica, che tuttavia non traspare dai suoi discorsi, improntati sulla realtà del mondo che affronta tutti i giorni, quello scolastico.

Lei che insegna da 26 anni, come vede i ragazzi-allievi con cui si confronta?
Rispetto alla politica, in provincia, la militanza è stata sempre più debole che nella realtà urbana. Questa è una zona di forte leghismo ma non militante. I giovani rispecchiano una visione nazionale di delusione, che si può chiamare anche in altri modi. I giovani spesso non hanno nessun tipo di appiglio. L’idea di andare fuori dall’Italia, per esempio, la si sente di continuo, anche se tutta l’Europa ormai sente la crisi che morde ovunque. Però conosco ragazzi che, da neolaureati, in Italia non facevano nulla e che all’estero hanno trovato situazioni migliori.

Che tipo di cambiamento ha visto nei giovani in questi suoi 26 anni di insegnamento?
Ci sono tratti costanti dovuti alla giovane età. Nell’ultimo ventennio un fenomeno che ha coinvolto un’ampia fascia di giovani è stato sicuramente il berlusconismo, non soltanto come fenomeno politico. La sua ha suscitato, e questo va detto anche se dall’ottica della sinistra è stato capito, un forte entusiasmo perché rappresentava un’ondata di cambiamento. Il “vecchio” per molti ragazzi di 20 anni fa era anche certo sinistrume che continuava a circolare, specie nella scuola, dove molti erano gli insegnanti, specie di materie umanistiche, che appartenevano a quell’area e proponevano certi valori. Adesso anche quell’illusione lì si è sgonfiata, e ai giovani di sogni ne sono rimasti ben pochi.

E le famiglie?
Mi pare che in tal senso ci sia un aumento dell’interesse nei confronti dei figli. In passato, magari con strumenti economici, culturali e sociali più modesti, i genitori avevano un valore della scuola piuttosto alto. Certi ragazzi pur lavorando molto anche a casa, se non portavano risultati, in termini di studio ma anche di comportamento e rispetto, ricevevano forti sgridate, se non addirittura botte. E non parlo del medioevo. Nelle famiglie era più radicata l’idea del rispetto per le istituzioni e la scuola era una di queste. Adesso, da parte di parecchi genitori c’è un forte disinteresse. A scuola si viene giusto per il titolo di studio. Il fatto poi che tante famiglie siano separate fa sballottare i ragazzini da una parte all’altra. Dimenticano compiti e libri dall’altro genitore, mai il telefonino.

Rispetto alla formazione, in generale e nel suo specifico, quali sono gli aspetti che dovrebbero cambiare e quelli che invece funzionano?
Dall’ottica di una scuola tecnico-professionale quale è la mia, è da anni che continua e peggiora un paradosso: i dati, anche internazionali, dicono che in l’Italia c’è un forte gap nell’istruzione intermedia tra la manovalanza pura o poco specializzata e l’iper-specializzazione universitaria. Le scuole che dovrebbero fornire questo tipo di preparazione, che sono gli istituti tecnici e professionali, negli ultimi anni sono stati tartassati, in ultimo dalla cosiddetta riforma Gelmini. Gli istituti professionali erano diventati il fiore all’occhiello dell’istruzione secondaria italiana, anche se pochi lo sapevano, perché è stata l’unica scuola superiore veramente riformata negli ultimi 20 anni, con il Progetto ’92. Era stata una riforma non politica ma ministeriale. Il Direttore generale dell’Istruzione professionale, Giuseppe Martinez, aveva completamento cambiato questo settore introducendo stages obbligatori, rapporti con il territorio, revisione profonda dei programmi e tanto altro. Il Ministero aveva anche promosso moltissimi incontri con gli insegnanti, ma non come quelli di due ani fa sostanzialmente di propaganda, ma finalizzati a preparare gli insegnanti a questo cambiamento epocale.

Quali erano i punti cardine di questa riforma?
Intanto il forte potenziamento delle materie di base: per esempio, prima italiano e storia erano insieme sotto la dicitura Cultura generale, e sono aumentate e nelle ore e nei contenuti. E’ stata introdotta per esempio la storia settoriale, legata a ogni indirizzo. Chi frequentava un istituto agrario per esempio, in quarta e quinta studiava anche la storia dell’agricoltura; o industriale o del costume a seconda degli indirizzi; c’è stata l’introduzione degli stages, 200 ore per due anni; l’introduzione della cosiddetta terza area, cioè un monte ore nel biennio in cui la scuola doveva organizzarsi tramite la Regione per preparare corsi molto specifici rispetto all’indirizzo, che avessero un aspetto sia teorico sia soprattutto pratico. Questi corsi venivano fatti anche all’esterno, in questo modo gli studenti potevano confrontarsi con attrezzature e tecnologie diverse rispetto ai laboratori d’uso quotidiano. C’erano ovviamente finanziamenti a disposizione che sono andati via via diminuendo fino a scomparire del tutto.

Quindi il lavoro dell’istituto che dipendeva dallo Stato si integrava con la Regione…
Sì e tutto ciò è poi stato ufficializzato dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Anche se è ancora tutto da chiarire perché lo spostamento, che non c’è stato, prevede che istruzione e formazione professionale debbano essere gestiti dalla Regione. Tutto ciò, detto in maniera piuttosto vaga e alla fine il “come”, nessuno lo ha ancora messo in pratica. Le Regioni ovviamente non vogliono accollarsi il costo di circa un quarto del personale docente (il 23 per cento circa).

Che cosa sono i corsi regionali di cui ogni tanto si sente parlare?
I CFP, i corsi di formazione professionale, sono gestiti da privati in cui sono molto potenti gli istituti di religiosi, come i salesiani, anche perché hanno tutta una storica tradizione di formazione al lavoro. Sono corsi presentati alla Regione che, se seguono i parametri indicati, li approva e li finanzia. Infatti sono gratuiti per gli utenti e da qualche anno, e ciò dimostra come questa sia tra virgolette una lobby, hanno ottenuto la validità come espletamento dell’obbligo scolastico. Ottenuto ciò, sono ovviamente aumentati. Durano tre anni e rilasciano un diploma di qualifica, dopodiché si può passare a una quarta superiore nell’indirizzo affine, dico affine perché c’è divergenza tra questi corsi e quelli professionali. Infatti per tornare alla riforma Gelmini, uno dei punti deboli e molto criticato è quello che partendo dal principio, in parte giusto, di ridurre le troppe specializzazioni che c’erano, ha deciso però di fare tagli netti. Ha ad esempio annullato i settori elettrico meccanico elettronico termico che prima erano separati, riunendoli in un blocco unico che si chiama Manutenzione e assistenza tecnica. In un mondo ideale un manutentore bravo deve sapere un po’ di tutti questi aspetti, però nel mondo reale un ragazzo non può apprendere tutto in cinque anni. Un bravo manutentore lo si diventa dopo anni di esperienza sul campo e di fatto alla fine il rischio è che invece di sapere tanto di tutto, si sappia poco o nulla. Però qualcuno ha capito l’errore e si sta rimediando: dall’anno scorso è stata data l’opportunità agli istituti di riattivare questi corsi, incrociandosi con i famosi corsi regionali di cui si diceva prima.

Mi spiega un paradosso che ogni tanto salta fuori, ovvero che da una parte si dice che non c’è lavoro, dall’altra ogni tanto si legge che mancano moltissimi addetti di un settore?
La motivazione è molteplice. Da una parte queste mancanze sono virtuali. Si sa che mancano gli infermieri ma gli ospedali non fanno concorsi, però è vero che ci sono settori potenzialmente più interessanti di altri e che invece non sono seguiti. C’entra anche l’appeal del periodo. In questo momento sta andando benissimo, come istituto professionale, l’alberghiero. Personalmente mi chiede se tutti gli studenti che seguono questo percorso riescano poi a trovare un’occupazione consona. Spesso le scelte vengono fatte sulla base della comodità logistica. Ora c’è il boom del liceo scientifico. In parte perché alcune famiglie medio istruite ritengono che sia sminuente dire che i propri figli frequentano un istituto tecnico o professionale. In parte perché in un momento in cui è difficile fare una scelta si opta per un liceo che comunque dovrebbe fornire delle basi solide per qualsiasi futuro indirizzo. Però i dati di abbandono dal liceo sono alti, così come quelli dall’università. Mettendo insieme tutte queste concause, si spiega anche come certe professioni richieste poi non abbiano un’adeguata offerta.

Gli istituti professionali potrebbero avere un contatto diretto con le aziende qualora queste volessero riconvertirsi o aggiornare, se non formare, il personale interno?
Certo, e in parte è già così. La nostra scuola, per esempio, ha organizzato dei corsi di cad rivolti a chi già lavorava e voleva una competenza ulteriore o a chi, già diplomato, voleva attrezzarsi maggiormente.
La riforma di Martinez, cui accennavo prima, già prevedeva un forte legame tra scuola e azienda, attraverso la forma degli stages. In certa opinione pubblica purtroppo c’è ancora la tendenza a non volere che il mondo del lavoro entri nella scuola. I nostri ragazzi, quando tornavano dai loro stages, dovevano raccontare la loro esperienza sotto forma di relazione. Alcuni erano molto soddisfatti, altri delusi perché avevano svolto compiti ritenuti non consoni. La maggioranza però è sempre stata soddisfatta. Nel settore tecnico l’esperienza dello stage è indispensabile perché è una formazione che la scuola non può dare, perché nascono sinergie scuola-territorio importanti e perché per i ragazzi è comunque il primo appiglio al mondo del lavoro. Le aziende del nostro territorio sono medio-piccole e quindi hanno modo di “fotografare” il ragazzo che fa uno stage. Per loro è importante la capacità professionale ma anche il carattere della persona, per esempio se è volitivo, disposto a imparare, serio, puntuale, ecc. Quindi se poi hanno bisogno di qualcuno invece di cercare nel buio, chiamano quelli che già conoscono. Certo che chi va a fare uno stage in una grande azienda è soltanto un numero, nessuno si accorge di lui.

Allo stato attuale delle cose quali sono le principali necessità per far funzionare ancora meglio gli istituti professionali?
Anzitutto più finanziamenti, le nostre scuole necessitano di un ammodernamento delle attrezzature. Con una lavagna luminosa per ogni scuola hanno certo offerto uno strumento utile, ma non è sufficiente per le reali esigenze. Nelle scuole italiane oggi ci sono priorità assolute. Molti istituti non sono a norma in tema di sicurezza. Si stanno poi facendo classi sempre più numerose, quelle che chiamano classi pollaio, e questo significa che i precari saltano e chi resta lavora male. L’anno scorso avevo 35 studenti in una classe prima, di cui 2 certificati, 4 stranieri di primissima ora, nel senso che non sapevano una parola di italiano, due corsi diversi accorpati, studenti e studentesse con un’età che andava dai 14 ai 31 anni…. Forse è un caso estremo ma ormai classi con 28/30 studenti sono la norma. Quelli che vengono penalizzati ovviamente sono i più deboli che nel tritacarne vengono lasciati indietro. E alla fine, comunque la si pensi, il mandato della scuola è quello di aiutare tutti. Non è un discorso ideologico il mio, ma di puro buon senso. Gli istituti professionali spesso sono l’ultima occasione di essere scolarizzati. E non dimentichiamoci che a livello economico un bravo tecnico guadagna più di un laureato! Di fatto nella scuola, partendo dall’alto, c’è stato molto lassismo perché con l’obiettivo di avere più diplomati e laureati, si è abbassato il tiro. E un anno dopo l’altro, le cose sono andate peggiorando. La scuola italiana in certi settori, tipo le elementari, aveva delle eccellenze, oggi sfasciate.

Una cosa positiva e una negativa della riforma Gelmini?
Lo stesso Monti ha fatto dichiarazioni positive per quanto riguarda la riforma in ambito universitario. Nel mio settore la diminuzione delle ore era necessaria. Per un ragazzo che fa le superiori, secondo i ritmi attuali, erano troppe 40 ore a scuola, che fossero su un banco o in laboratorio; quindi la riduzione a 32, può avere senso. E’ stata studiata male perché c’è stato un crollo delle ore pratiche. Che poi, con altri discorsi tipo integrazione con la Regione o facendo altre acrobazie, si riesca ad aumentarle, è vero, però questo è la dimostrazione che chi ha curato la riforma non aveva tanto il polso della situazione reale. Ricordiamo poi che questa è una riforma partita dal ministero delle Finanze e che quindi come obiettivo primario aveva i tagli, soprattutto i tagli, quasi esclusivamente i tagli.

Avete un rapporto diretto con le camere di commercio per acquisire dati e orientarvi alle esigenze professionali?
Non abbiamo un rapporto diretto, nel nostro caso con le Camere di Commercio di Asti e Torino. Ogni tanto le consultiamo per quanto riguarda la questione tuttora irrisolta degli Albi professionali.

Cioè?
In Italia gli Albi professionali sono lobbies potentissime. Nell’ambito tecnico la grande distinzione epocale è tra i periti, che sono quelli che escono dagli istituti tecnici e che sono stati i primi a farsi gli Albi, e gli altri. Quando gli istituiti professionali dai tre anni son passati ai cinque, ovviamente son nati dei duplicati di diplomati con, grosso modo, le medesime competenze. Però gli Albi erano chiusi a chi proveniva dai professionali. L’iscrizione all’Albo comporta anche il poter firmare o no certi progetti. A livello di lavoro dipendente non comporta alcun problema, ma a livello di lavoro autonomo, sì. Avere un rapporto con le Camere di commercio significa anche sapere come cambiano le condizioni e le necessità in questione e quindi essere più chiari e precisi quando ci si domanda che tipo di offerta si può dare a un ragazzo che sceglie un determinato corso. L’attuale governo a quanto si sente vuole intervenire anche sugli albi. Staremo a vedere.

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