La lezione che si può trarre dalla vicenda del norvegese
Anders Behring Breivik è che spesso i fatti di sangue
e le stragi si possono evitare. Il luogo comune che vuole
che dichiarare pubblicamente un atto violento
sia di per sé garanzia che non accada è erroneo. La mente
di queste persone anzi trova nel proposito un irresistibile
spinta a mettere in pratica quanto annunciato in precedenza.
E spesso i canali usati sono quelli di Internet, Facebook e You Tube
Il 22 luglio scorso l’estremista di destra norvegese Anders Behring Breivik, 32 anni, ha dapprima fatto esplodere un’autobomba nei pressi della sede del governo, a Oslo, uccidendo otto persone, e successivamente si è recato nell’isola di Utoya, a 40 chilometri di distanza, dove ha cominciato a sparare ai giovani del partito laburista che si erano lì raccolti per un meeting. Prima di essere fermato e arrestato ha avuto il tempo di uccidere nell’isola ben 69 persone. L’estremista ha detto alla polizia di essere un “fondamentalista cristiano” e di aver agito per difendere la cultura norvegese dall’immigrazione islamica. Ciò che colpisce maggiormente nella vicenda del giovane estremista norvegese è che tutto ciò non è stato frutto di un raptus omicida, come spesso è accaduto in analoghi massacri avvenuti negli USA. Della volontà del massacro e delle modalità per metterlo in atto era già stato tutto scritto su Internet e pubblicato su Facebook nella pagina del profilo di Breivik. Così come spesso accade per i suicidi annunciati e messi in atto in modo clamoroso o in pubblico, anche per gli omicidi e le stragi annunciate, che la cronaca molto spesso ci offre soprattutto nei casi di stalking, quello che prevale nell’opinione pubblica, dopo l’evento delittuoso, è lo stupore e l’incredulità generale. Per tutte le persone vale il luogo comune che chi annuncia pubblicamente di uccidersi o di uccidere poi in realtà non lo faccia. In questo, come già in altri casi, soprattutto dopo l’affermarsi dei cosiddetti “social network”, si è verificata l’ennesima generale e inspiegabile cecità di tutti nei confronti dei numerosi campanelli di allarme che erano stati disseminati su Internet. Non si tratta più, come avveniva in passato, di trovare le tracce delle intenzioni delittuose nelle pagine di un diario gelosamente nascosto. La cronaca spesso ci mette di fronte scenari delittuosi con intenzioni criminali pubblicamente annunciate su più social network e che poi vengono puntualmente portate a termine, nell’indifferenza generale degli altri che si limitano a leggere, ad ascoltare e che nessun peso danno alle pericolose intenzioni espresse. C’è da dire che in generale siamo portati a sottovalutare le intenzioni criminali che vengono pubblicamente preannunciate con il pregiudizio che il vero criminale i suoi progetti li nasconda e li tenga per sé fino al momento di metterli in atto. E invece i pericolosi e minacciosi annunci, reiteratamente resi pubblici, andrebbero tutti presi sul serio, poiché il dirlo, come vedremo, ne rinforza nella mente dell’autore la volontà di metterli in atto. Ciò accade perché nella mente della persona che annuncia l’evento delittuoso alcuni motivazionali meccanismi psicologici entrano in gioco in modo molto potente. Il meccanismo psicologico fondamentale che è alla base delle motivazioni e di questi comportamenti è il rinforzo psicologico continuo e progressivo che genera il dire ad altri, o dire a sé stessi, di voler fare una certa cosa. Scrivere, preannunciare, minacciare, ripetere e ripetersi continuamente un proposito conduce, inevitabilmente, a metterlo in atto prima o poi. E più si ripete e reitera l’annuncio delittuoso più si avvicina il momento critico della sua messa in atto. Entriamo dunque nella dinamica psichica di ciò che accade nella mente di queste persone. Di fronte a un problema personale o relazionale, di fronte a una frustrazione, un malessere, una realtà sgradita, una realtà difficile da accettare e in grado di provocare grande disagio e stress, la mente della persona si mobilita ed è alla continua ricerca di una soluzione o di una via d’uscita. Così come di fronte a una presunta ingiustizia si cercano tutti i modi per poter affermare che “giustizia è stata fatta”. Nella ricerca della soluzione al disagio personale spesso compaiono, accanto alle altre ipotesi fattibili e razionali collegate al “fare giustizia”, anche delle ipotesi dall’apparente irrazionalità. Come a esempio l’eventualità di uccidersi o di uccidere la persona o le persone, vale a dire di aggredirsi o aggredire le fonti da cui origina il disagio, per mettere fine al malessere non più sopportabile. Quel pensiero irrazionale, aggressivo e spesso violento, che inizialmente viene scartato dalla ragione (o dalla coscienza della persona) come non proponibile, torna continuamente alla mente, proponendosi come soluzione definitiva e appagante. Accade quindi che la persona inizi a soffermarcisi più a lungo, con riflessioni e ipotesi sempre più articolate sulla sua fattibilità, vale a dire si inizia a cercare il come e il quando mettere in atto quel proposito aggressivo e violento. Persistendo questi pensieri irrazionali nella mente, si iniziano dunque a elaborare ulteriori ipotesi, finché non solo si trova una modalità realizzabile, ma nell’immaginare il fatto si prova anche una grande soddisfazione (“finalmente l’ho ucciso”), un grande piacere o una pace interiore (“finalmente la fine dell’incubo: ho fatto giustizia!”). Queste emozioni positive liberano nella mente della persona delle sostanze chimiche che rinforzano il piacere e iniziano a incoraggiare il proposito aggressivo e violento, distorcendo la percezione del disvalore sociale per cui da irrazionale lo rendono razionale. Da fantasie e pensieri inizialmente irrazionali si è formato un progetto concreto, uno scenario possibile, e dai pensieri, passando per l’autogiustificazione del “fare giustizia”, si arriva quindi alle parole, per cui si inizia a dirlo, a minacciarlo, a scriverlo agli amici su Facebook. Quando si inizia a dirlo e a scriverlo è già da molto tempo che quel pensiero persiste nella mente della persona. Ciò significa che ha superato l’esame della coscienza con l’alibi dell’affermazione della giustizia e questo presuppone che il soggetto si sta sempre più pericolosamente avvicinando al momento in cui lo sta rendendo attuabile. Ogni volta che il soggetto lo dice o lo riafferma si rinforza il proposito aggressivo e violento, diventa sempre più realizzabile (“lo posso fare”) e si avvicina quindi alla messa in atto del comportamento. Rinforzandosi nella mente ecco che iniziano anche i preparativi pratici, cioè la persona si procura i mezzi per mettere in atto il gesto aggressivo (come a esempio, la raccolta materiale di ciò che serve, come le armi o gli esplosivi) e inizia ad ipotizzare il luogo (dove farlo) e il quando (la data più adatta e significativa per metterlo in atto). Alla fine del non breve percorso mentale e comportamentale, per la persona è naturale e logico mettere in atto quel proposito. Talmente logico e giusto da scriverlo pubblicamente su Internet, da pubblicarlo su Facebook, da registrarlo e collocarlo su Youtube, ritenendo che chiunque, ragionando allo stesso modo, non potrebbe che condividerlo. Quando poi alla fine scatta il momento della sua esecuzione, questa avviene con una determinazione (“lo devo fare”) che spesso genera stupore nelle persone che assistono o ricostruiscono i fatti. Tuttavia, essendo frutto di una lunga gestazione mentale, avviene, a differenza degli atti impulsivi, in modo coordinato e efficace (“lo voglio fare”), incurante delle eventuali conseguenze di legge e della inevitabile galera: il “fare giustizia” è più importante della paura della galera. E questo accade sia per i suicidi annunciati che per gli omicidi e le stragi, contrariamente a quanto comunemente e superficialmente viene da tutti ritenuto. Nella realizzazione di questi clamorosi episodi è significativa pertanto anche la “cecità collettiva” dell’opinione pubblica di fronte a tali minacce. Prenderle sul serio significa reagire, fare qualcosa, responsabilizzarsi, cautelarsi, chiedere spiegazioni, esercitare un controllo sulla persona e sui suoi comportamenti, … vale a dire violare la sua privacy ed entrare nella sua vita per stimare il reale pericolo. Come il terrorismo internazionale degli ultimi decenni ci ha insegnato, la sicurezza collettiva, in questi casi, passa necessariamente anche attraverso la violazione della privacy.
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Il caso di Valentino Di Nunzio
Valentino Di Nunzio è un giovane di 27 anni che abita a Manoppello Scalo (Pescara) e che in un cortometraggio postato su YouTube annuncia di voler uccidere i propri genitori. Dopo circa un anno e mezzo dalla realizzazione del video Valentino ha effettivamente ucciso con cinque coltellate la madre, Maria Teresa Di Giamberadino, casalinga di 55 anni. Nel video, intitolato “La dodicesima vittima”, il giovane si presenta come un killer che voleva “un pollo da sgozzare”, che “cercava sangue e voleva ascoltare il suono della morte”. Nel filmato, di cui il ragazzo, con la passione del teatro, è protagonista e regista, compaiono anche il cugino, da cui Di Nunzio era andato prima di uccidere la madre, e il padre, che non era in casa al momento dell’omicidio. “Mi sentivo un dio castigatore - recita il 27enne nel cortometraggio -, avevo il sangue alla bocca, quanto basta per uccidere, e nel mio giardino c’è sempre carne fresca da macellare. E’ pazzesco come le persone riescano a pensare che un assassino sia qualcosa di lontano da loro e invece no, io c’ero sempre stato”. Prosegue: “comunque era tempo di muoversi: dovevo soddisfare il mio istinto di uccidere. Va avanti: “cercavo sangue e volevo ascoltare il suono della morte, il grido disperato di qualcuno che per tutti è soltanto un innocente. Ditemi un po’ se per voi l’innocenza ha la faccia della mediocrità. Per me no, per me l’innocenza è sempre stata la verità. E se la verità mi spinge a uccidere forse io non sono colpevole”. “E poi colpevole o innocente - recita ancora Di Nunzio - non fa differenza quando si fa qualcosa di più grande di noi. Essere partecipe e regista di quella che è la vita, entrare e comandare quella volontà che ci fa nascere e ci fa morire”. “Tutti sono buoni a far nascere qualcuno. Ma a uccidere?” si chiede. “Sì, è li che ti senti vivo, quando diventi carnefice - dice ancora - perché quando scegli di uccidere hai il potere di entrare nel grande disegno e modificarlo a tuo piacimento, ma forse non è da tutti e va bene così. Mi sono sempre gustato con compiacimento la mia unicità, la mia grandezza e forse il coraggio che manca a tutti”. Di Nunzio, in cura da diversi anni per problemi psichici, secondo gli investigatori avrebbe aggredito la donna senza un apparente motivo. “Ho ucciso mia madre, mi aveva fatto arrabbiare” ha detto ai Carabinieri, al loro arrivo nell’abitazione. (Fonte ANSA).
(www.marcocannavicci.it)
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