Colossali depistaggi, testimoni inattendibili, documenti
non prodotti: sulla morte di Paolo Borsellino
e dei cinque elementi della scorta si comincia da capo
Diciannove anni senza verità e coi processi da rifare. La strage di via D’Amelio è l’unica del biennio 1992-1993 di cui sappiamo ben poco. Sappiamo che c’è un falso pentito, Vincenzo Scarantino, un balordo di borgata al quale è stato inventato un curriculum da boss di spessore sulle cui propalazioni sono stati istruiti due processi passati in giudicato ma da rifare. Sappiamo che c’è stato un depistaggio colossale, probabilmente messo in atto dal gruppo investigativo Falcone-Borsellino, guidato dall’allora commissario di polizia Arnaldo La Barbera, morto nel 2002; lo stesso gruppo avrebbe “istruito” Scarantino e altri testimoni, non è certo se per ottenere risultati investigativi immediati o per depistare, per allontanare le indagini da esecutori e mandanti della strage. Sappiamo che tanti sono convinti che Paolo Borsellino sarebbe stato assassinato a causa di una presunta trattativa fra settori delle istituzioni e il vertice di Cosa Nostra: o per fare riprendere la trattativa interrotta o perché il magistrato ne sarebbe venuto a conoscenza e si sarebbe opposto.
Sappiamo ben poco, insomma.
Il dubbio che Vincenzo Scarantino non fosse né mafioso né, dunque, coinvolto nella strage, la Procura di Caltanissetta all’epoca guidata da Giovanni Tinebra avrebbe potuto farselo venire negli anni immediatamente successivi al “pentimento”, quando ben cinque collaboratori di giustizia, due dei quali componenti della cupola provinciale di Palermo (Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi) hanno messo a verbale di ignorare chi fosse Scarantino e, messi a confronto col “pentito”, ne avevano minato ogni attendibilità. Invece no. Benché ritenuti attendibili per le altre cose che dicevano, i cinque non lo erano su quel punto. Anzi, i verbali di quei confronti sono stati debitamente tenuti lontani dai processi per un paio d’anni e se qualcuno dei pentiti in questione s’azzardava a parlare in aula di Scarantino veniva immediatamente zittito dal pm di udienza. Scarantino era una fede per il procuratore, gli aggiunti e i sostituti che lo hanno gestito. Una verità rivelata.
Nemmeno dopo che la Corte d’assise del terzo processo Borsellino dimostrò inconfutabilmente (anno 2000) che le sue dichiarazioni venivano aggiustate in corso d’opera, mano a mano che gli investigatori acquisivano nuovi elementi, la Procura cambiò atteggiamento: Scarantino è credibile e non si tocca. Fino al 2008, quando l’organico della Procura era completamente cambiato e un nuovo pentito si è autoaccusato del furto dell’auto, una Fiat 126, utilizzata per la strage. Ed è da qui, dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, il killer del quartiere Brancaccio che ha definitivamente sbugiardato il falso pentito, che ripartono le nuove indagini. E se Spatuzza, un picciotto del clan Graviano, per il suo modesto ruolo nell’organizzazione criminale conosce solo alcuni aspetti della fase esecutiva, ecco che negli stessi giorni salta fuori Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso del «sacco di Palermo», e ci regala “il” movente della strage, legandolo alla trattativa che il padre, Vito Ciancimino, aveva intavolato con alcuni ufficiali del Ros dei Carabinieri: «Dopo le richieste di Riina lo Stato fece un passo indietro. E venne ucciso Paolo Boersellino». Causa ed effetto. Offerti in un’intervista a Panorama, non ai magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi siciliane del 1992. Questi ultimi, però, lo hanno convocato dopo avere letto il settimanale e il «testimone», oltre a confermare il contenuto dell’intervista, ha messo a verbale: «Mio padre riteneva che la morte di Borsellino era in parte addebitabile a lui stesso e ai Carabinieri che non erano riusciti a trattare con Cosa Nostra. Riteneva inoltre che la morte di Borsellino era stata accelerata dall’interruzione della trattativa». Letto, approvato e sottoscritto.
Il 30 gennaio 1992, dopo che il giudice Corrado Carnevale detto «l’ammazzasentenze» aveva dovuto rinunciare a presiedere il collegio giudicante e il suo posto era stato preso dal giudice Arnaldo Valente, la prima sezione penale della Corte di Cassazione conferma l’impianto accusatorio del maxiprocesso di Palermo, incentrato sul cosiddetto teorema Buscetta: fioccano gli ergastoli per i componenti della cupola mafiosa e migliaia di anni di carcere per boss e gregari. Non era mai successo niente del genere: niente assoluzioni per insufficienza di prove, come da prassi consolidata, ma la prospettiva del carcere a vita per chi si credeva invulnerabile.
La reazione di Cosa Nostra, hanno raccontato decine e decine di boss che, dopo la cattura, hanno collaborato con la giustizia, è stata quella di presentare il conto ai politici che non avevano saputo o voluto tutelare l’organizzazione e ai magistrati che avevano istruito il maxiprocesso, a cominciare da Falcone e Borsellino. Vendetta, tremenda vendetta.
Il 12 marzo è Salvo Lima, proconsole siciliano di Giulio Andreotti, a cadere sotto il piombo mafioso. Il 23 maggio è la volta di Giovanni Falcone, per uccidere il quale viene imbottita di tritolo un’autostrada. Il 19 luglio tocca a Borsellino. Il 17 settembre il “conto” viene presentato anche a Ignazio Salvo, amico di Lima e, come lui, uomo-cerniera tra mafia e istituzioni. Due ex amici e i due nemici più acerrimi. Una stagione si chiude definitivamente. E se ne apre un’altra. Sempre che la storia funzioni a compartimenti stagni.
Cancemi e Brusca (quest’ultimo ha partecipato solo alla fase decisionale dell’eccidio, non a quella esecutiva), negli anni Novanta, hanno riferito ai magistrati di una presunta «accelerazione» impressa alla realizzazione dell’attentato a Borsellino, ma nessuno dei due ha saputo esplicitare in cosa sarebbe consistita tale accelerazione. Impressioni, solo impressioni. Anzi, lo scorso 18 maggio, durante il processo Mori-Obinu (quello per la presunta mancata cattura di Provenzano, legato alla trattativa), Brusca è sembrato cadere dalle nuvole quando il pm Nino Di Matteo gli ha chiesto dell’accelerazione.
Accelerazione dovuta all’interruzione della trattativa? Accelerazione dovuta alla necessità di eliminare Borsellino in quanto ostacolo alla trattativa? Non è dato saperlo. Né è dato sapere se realmente ci sia stata tale accelerazione.
La trattativa. Negli ultimi due anni, dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, il virus della memoria ha contagiato diverse autorevoli personalità italiane che, negli anni delle stragi, ricoprivano cariche istituzionali di estremo rilievo (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, Ministro Guardasigilli, Presidente della Commissione Antimafia ecc...). Alcuni di loro, in realtà, sull’argomento erano già stati sentiti nel 2001 dall’allora sostituto procuratore di Firenze Gabriele Chelazzi, morto d’infarto nel 2003. Quelli e altri verbali, rimasti seppelliti per anni, sono riemersi nei mesi scorsi e stanno apportando nuova linfa alle indagini delle tre Procure che indagano sulla strategia stragista del 1992-1993. Fra i colpiti dal virus della rimembranza ce ne sono due che sul tema non erano stati interrogati da Chelazzi e le cui dichiarazioni, almeno sui media, hanno contribuito ad accreditare la suggestiva ipotesi che Borsellino sia stato ucciso perché sapeva della trattativa. I due (s)memorati in questione sono Claudio Martelli e Liliana Ferraro: il primo, Ministro di Grazia e Giustizia al tempo delle stragi; la seconda, Direttore degli Affari Penali dello stesso ministero dopo l’eccidio di Capaci, e prima, vice di Giovanni Falcone (del quale era anche amica) che occupava quell’incarico.
Abbiamo appreso in diretta tv, nel corso di un seguitissimo programma rai, da un giornalista che sosteneva di riportare le parole di Martelli (presente fino a pochi minuti prima), che Borsellino era stato informato della trattativa da Liliana Ferraro. La stessa Ferraro lo aveva detto a Martelli, che, diciassette anni dopo, lo aveva rivelato al giornalista, che lo aveva svelato agli italiani. Roba da Carramba che sorpresa!
Se però andiamo a leggere i verbali di Ferraro e Martelli ai magistrati di Palermo, le loro audizioni in Commissione Antimafia, o ne ascoltiamo le testimonianze al processo Mori-Obinu, ci accorgiamo che l’amica di Falcone non ha parlato a Borsellino di trattativa, ma della confidenza fattale dal capitano Giuseppe De Donno, circa un mese dopo Capaci, su un tentativo in atto (da parte sua e dell’allora tenente colonnello Mario Mori) di avere informazioni sulla strage da Vito Ciancimino e della loro intenzione di indurlo a collaborare con la giustizia. Colloqui investigativi, in parole povere. Identiche, le dichiarazioni di Martelli. Nessuno dei due ha mai usato il termine trattativa né ha ipotizzato qualcosa che vi somigliasse anche alla lontana. Ma i media ci hanno raccontato altro: «La Ferraro smentisce Mori, Borsellino sapeva della trattativa» è stata la sintesi di molti giornali dopo la sua testimonianza a Palermo.
Sappiamo che Gaspare Spatuzza ha confessato di essere stato lui a procurare e trasportare l’esplosivo utilizzato per le due stragi. Tutto insieme. Prima dell’eccidio di Capaci, ovviamente. Un dettaglio che indebolirebbe la già fragile ipotesi dell’accelerazione provocata dalla trattativa, a favore di un progetto unitario che prevedeva la consumazione dei due eccidi a breve distanza di tempo l’uno dall’altro.
La collaborazione di Spatuzza – che ha già collezionato diversi ergastoli per le stragi di Roma, Firenze e Milano, per gli omicidi di don Pino Puglisi e del piccolo Giuseppe Di Matteo, ma era rimasto estraneo ai processi per le stragi del ’92 – ha sollevato parecchie perplessità per via del fatto che i suoi ex capi, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, hanno continuato a manifestare apertamente il proprio «rispetto» per la scelta del loro ex sodale e che lo stesso pentito continui a parlare di «affetto e rispetto» per i due boss e la loro famiglia di sangue. Senza contare che, a Spatuzza, due condanne in più non cambierebbero alcunché. Dell’attendibilità del collaboratore, però, le Procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze sono più che convinte e, dunque, l’ipotesi più plausibile sarebbe che quella dei Graviano sia una tattica mirata a tentare di indebolire la credibilità dell’ex “soldato” di Brancaccio e a inviare messaggi all’esterno.
Insomma: Spatuzza, per i magistrati, è credibile quando sbugiarda definitivamente Vincenzo Scarantino ma anche quando si autoaccusa di avere procurato, contestualmente, l’esplosivo per le due stragi.
Dopo Capaci, Borsellino era consapevole di essere «il prossimo», che dopo Falcone sarebbe toccata a lui e non lo nascondeva ai suoi amici e ai collaboratori più stretti: «Devo fare presto», continuava a ripetere.
Sono tante le testimonianze in tal senso, nel corso dei diversi processi svoltisi in Sicilia (quattro, finora: tre a Caltanissetta e uno a Catania), fra queste, quella del magistrato Leonardo Guarnotta, che con Falcone e Borsellino aveva fatto parte del pool che aveva istruito il primo maxiprocesso.
«Il teste Leonardo Guarnotta – scrivono in sentenza i giudici del “Borsellino Ter” –, nell’udienza del 2.12.1998, ha riferito che dopo la strage di Capaci l’attività investigativa del collega Borsellino era divenuta frenetica; pur essendo stato sempre una persona assai riservata, Paolo Borsellino un giorno gli confidò a tale proposito di volere proseguire il lavoro investigativo di Giovanni Falcone, dicendogli anche che temeva di non riuscire a concludere le indagini in tempo: “Questo fu l’unico accenno che lui mi fece e dove manifestava la sua preoccupazione e io ricordo che gli dissi in siciliano: “Ma che vai dicendo, figurati, noi arriveremo alla fine sani e salvi”.
Inquietante e rivelatrice è la testimonianza del capitano Umberto Sinico, in servizio alla Sezione Anticrimine dei Carabinieri di Palermo: «Ha riferito – ricordano i giudici – che dopo la strage di Capaci venne svolta un’attività investigativa a largo raggio, volta anche a cercare di provocare dissociazioni all’interno di Cosa Nostra; per questo, vennero compiuti taluni colloqui investigativi, fra i quali ha ricordato quello che, alla metà di giugno del 1992, il maresciallo Lombardo, allora comandante della Stazione dei Carabinieri di Terrasini, fece al carcere di Fossombrone con un tale Girolamo D’Anna, originario proprio di Terrasini e quindi conosciuto dal Lombardo; egli ebbe occasione di accompagnare il maresciallo Lombardo al carcere di Fossombrone, ma non assistette al colloquio.
«Teste Sinico: “All’uscita dal carcere, il collega Baudo ed io chiedemmo al maresciallo l’esito di questo colloquio investigativo intrattenuto con il D’Anna e il maresciallo ci disse che nell’ambito carcerario si insisteva molto nel dire che era prossimo un attentato anche al dottore Borsellino. [...] Il giorno del ritorno a Palermo, mi pare che fosse nella tarda mattinata del giorno successivo al colloquio di Fossombrone, andammo nell’Ufficio del Procuratore Borsellino, che era affollatissimo: [...] Non c’era però il capitano Baudo, c’era solo il maresciallo Lombardo. E gli riferimmo l’esito del colloquio soprattutto nella parte che lo riguardava, e il Procuratore ci dette una risposta che considerammo assolutamente inaccettabile, tanto è vero che io personalmente ebbi anche un po’ una reazione di disappunto nei suoi confronti. Ci disse, in pratica, che lui sapeva... questa cosa la sapeva già e che comunque doveva lasciare uno spazio al suo avversario per essere gradito, perché altrimenti avrebbe potuto subirne le conseguenze la sua famiglia”.
Borsellino sapeva di essere «il prossimo», di avere «poco tempo», di dovere «fare presto». A prescindere da qualsiasi trattativa.
In tal senso depone anche l’ultimo elemento che intendiamo sottoporre all’attenzione del lettore. Ultimo per scelta redazionale, non per importanza o come fatto temporale. Anzi: cronologicamente è il primo.
La mattina del 6 marzo 1992, il giudice bolognese Leonardo Grassi riceve una lettera proveniente dal carcere fiorentino di Sollicciano, autore della missiva è Elio Ciolini, un personaggio legato ad ambienti neofascisti, massonici e dei servizi segreti. Ciolini sta scontando una pena di dieci anni per avere depistato le indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980. Il detenuto, nella sua missiva, annuncia una «nuova strategia della tensione in Italia» nel «periodo marzo-luglio 1992», un vero e proprio piano di «destabilizzazione» con omicidi, sequestri di uomini politici e stragi indiscriminate. Il giudice Grassi sa chi è Ciolini e non gli dà credito, ma sei giorni dopo, in seguito all’omicidio Lima cambia idea e informa della lettera (tacendo la fonte) il Ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti. Che allerta tutte le prefetture italiane in relazione al possibile piano di destabilizzazione. Il 18 marzo tutta la stampa italiana titola sul «rischio di golpe», ma il giorno successivo, le prese di posizione del Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, fanno rientrare l’allarme: «Ciolini è un pataccaro», sentenzia Andreotti.
Il 20, davanti alle Commissioni riunite Affari costituzionali di Camera e Senato, Scotti chiarisce che la sua circolare non era fondata solo sulle dichiarazioni di Ciolini, ma anche su una informativa del Sisde, del 5 febbraio: «Non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive stipulino con la criminalità organizzata accordi di collaborazione ai fini operativi per la destabilizzazione del Paese».
Ciolini sarà anche stato «un pataccaro», per dirla con Andreotti, ma se già dopo l’omicidio Lima la sua “previsione” sembrava fondata, anche perché concordante con la nota del Servizio segreto civile, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, la collocazione temporale della strategia destabilizzante nel «periodo marzo-luglio» diventa di una precisione agghiacciante: o Ciolini aveva capacità divinatorie o era informato su fatti che sono stati sottovalutati dalle istituzioni che avrebbero dovuto e potuto prevenirle.
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Quel 19 luglio del 1992
Alle cinque del pomeriggio di domenica 19 luglio 1992 l’esplosione di un’autobomba in via Mariano D’Amelio, a Palermo, provoca la morte del procuratore aggiunto Paolo Borsellino (vittima designata) e degli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cusina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto è il poliziotto Antonio Vullo. Erano trascorsi solo 57 giorni dall’eccidio di Capaci, in cui avevano perso la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie, anche lei giudice, Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.Dopo l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza e la definitiva certezza che Vincenzo Scarantino era un falso pentito, due dei tre processi già passati in giudicato sono da rifare. Scarantino sarà processato per calunnia e autocalunnia. La posizione dei poliziotti che lo avrebbero manovrato è stata archiviata per prescrizione del reato.Spatuzza ha anche fornito ai magistrati elementi d’accusa nei confronti di alcuni partecipanti alla fase esecutiva della strage, di cui prima della sua collaborazione non si sapeva quasi nulla. Ha anche fornito elementi sul possibile coinvolgimento nella strage di via D’Amelio di uomini delle istituzioni.
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La presunta trattativa con lo Stato
Il primo a parlare di una trattativa fra mafia e istituzioni è stato Giovanni Brusca, nel 1996, all’inizio della sua collaborazione, mettendo a verbale una confidenza di Totò Riina risalente a dopo le stragi: «Quelli si sono fatti sotto e io gli ho presentato un papello di richieste lungo così». Brusca non sa chi fossero «quelli», ma nel 2001, dopo avere spostato la consegna del papello a prima della strage di via D’Amelio, aggiunge che Riina gli avrebbe fatto anche il nome del destinatario: il Ministro dell’Interno, Nicola Mancino.
Certo è che se il papello presentato da Riina ai suoi interlocutori (e rigettato dalle istituzioni) è quello consegnato ai pm di Palermo da Massimo Ciancimino, non può essere stato redatto prima del 19 luglio 1992, che non si poteva chiedere la «chiusura super carceri» (Asinara e Pianosa), dove i boss sono stati trasferiti dopo la strage di via D’Amelio.
All’inizio del 1998, al processo di Firenze per le stragi del 1993, emerge che dopo la strage di Capaci, il capitano dei Ros Giuseppe De Donno e il tenente colonnello Mario Mori incontrarono più volte Vito Ciancimino, con l’intento di ottenere informazioni finalizzate alla cattura dei boss latitanti e alla collaborazione con la giustizia dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Di questi rapporti, nel 1993, aveva già parlato ai pm di Palermo Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia, lo stesso Ciancimino.
Secondo i giudici di Firenze, questa “trattativa” e un’altra – iniziata prima delle stragi e conclusasi dopo, condotta da un killer neofascista reggiano, Paolo Bellini, legato alla ’ndrangheta e ai Servizi, nonché amico di Elio Ciolini – avrebbero rafforzato «nei capi mafiosi dell’epoca, il convincimento che la strage fosse pagante» e, grazie a tale convincimento, Cosa Nostra avrebbe continuato, nel 1993, la sua campagna stragista fuori dalla Sicilia.
Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino arrivano come il cacio sui maccheroni a colmare le lacune di un puzzle che vedrebbe i Ros trattare con Riina, tramite don Vito (e Bernardo Provenzano), per conto degli ex ministri Rognoni e Mancino, con l’intento di fermare le stragi. Poi, di fronte all’irremovibilità del «capo dei capi», sarebbero stati Ciancimino e Provenzano a “consegnare” Riina ai Carabinieri, in cambio della mancata perquisizione del covo e dell’impegno a lasciare in pace lo stesso Provenzano. Don Vito, invece, sarebbe stato «tradito» dai suoi interlocutori e dallo stesso boss e s’è ritrovato a Rebibbia, a scontare una condanna a dieci anni di carcere per associazione mafiosa. Una volta scarcerato, fra il 2000 e il 2002 l’ex sindaco avrebbe affidato le proprie memorie al figlio Massimo, corredandole coi «documenti» necessari a dimostrare il racconto. Ma quelle carte, perlopiù fotocopie, non dimostrano un bel niente e hanno portato in carcere anche il figlio.
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