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Gennaio-Febbraio/2012 - Articoli e Inchieste
Giovani in Italia/1
Generazione perduta
di Carlotta Rodorigo

Rispetto all’Europa sono 4 volte tanti quelli
tra i 15 e 24 anni che decidono di restare al di fuori
sia del mondo del lavoro che di quello
della formazione; quelli che lavorano sono meno
di un terzo dei coetanei europei. E ancora più drammatico
è il fenomeno di quelli tra i 15 e 29 anni che non studiano
e non lavorano e che la crisi economica ha portato in un anno
dal 20 al 22%. E anche con la casa non va meglio: in un Paese
di proprietari, sono costretti a ricorrere all'affitto pagando
i canoni più alti dell'Unione Europea



Sindrome di Hourglass; questo il nome dell’unica malattia che potete contrarre se siete giovani e se aspettate di lavorare in Italia. I tassi di disoccupazione sono così alti che la nostra società, vecchia e immobile, vi può offrire solo un disturbo che colpisce chiunque si sia seduto davanti a un monitor ad aspettare che la sabbia nella clessidra del proprio pc abbia finito di scendere.
Ormai viviamo in una società “fragile, isolata ed etero diretta”, con una classe politica più o meno “prigioniera del primato dei poteri finanziari”: nel suo quarantacinquesimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese il Censis ci vede così. È “illusorio” pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo, perché lo sviluppo “si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive”. E noi, parlo del “sistema Paese” sembriamo aver smarrito la via, siamo fermi a parlare di articolo 18 senza nemmeno capire che ai nostri giovani nemmeno interessa, loro non ne hanno e non ne avranno mai diritto.
Anche quest’anno l’ultimo rapporto del Censis, reso noto il 2 dicembre scorso, ci aiuta a capire il cambiamento “geografico, antropologico, dell’economia e del lavoro, del rapporto tra vecchie e nuove generazioni - scrive Sebastiano Malamocco, presidente di “Geograficamente: conservazioni e trasformazioni virtuose del territorio” -, che caratterizzano la forte crisi dell’Italia (come soggetto multiplo culturale ed economico nel mondo) e della sua società, che sembra non capire più bene chi sia e dove voglia andare”.
Per il sociologo Giuseppe De Rita, dal 1993 Direttore Generale del Censis, “l’Italia non si evolve”, anzi è in uno stato di profondo declino. Se prima era legittimo urlare ai propri figli: «Se non studi finirai a pulire i gabinetti», oggi si rischia di finire a pulire i gabinetti anche se un titolo di studio lo si ha (è uno dei settori professionali dove torna a salire la quota di italiani). “D’altra parte - scrive La Stampa -, le imprese innovano poco; e che si può pretendere, se solo il 15% tra gli imprenditori sono laureati? De Rita si inquieta che, coscienti di queste prospettive, gli italiani smettano perfino di desiderare: il 28% pensa che in futuro starà peggio, il 34% che i figli staranno peggio dei genitori. Per la maggioranza, l’obiettivo è tutelare il benessere di cui già godono. I soli ottimisti sembrano essere gli immigrati, che al 65% vedono l’Italia di domani più ricca e più giusta”.

L'economia svuotata dalla finanza
Tutti ripetono lo stesso mantra: bisognerebbe smetterla con un sistema finanziario che privilegia movimenti speculativi ed economie “non reali”, oppure investimenti sul mattone, edilizi, immobiliari, quando lì oramai non c’è più mercato. Il problema è che continuare a ripeterlo non farà cambiare nulla. Il sistema politico-economico è troppo intrecciato, la politica dei grandi e medi nomi è ormai una costola del potere economico, finanziario o meno, delle lobby nostrane e internazionali. Il mantra, anche se ripetuto dai grandi giornalisti che lavorano per Spa, e le loro parole influenzano le curve della borsa, è solo un esercizio di stile. I risultati di politiche neoliberiste, che hanno puntato sul “rigore” e sui tagli, hanno dimostrato la loro inefficacia.
“Nel picco della crisi 2008-2009 – si legge nel rapporto del Censis -, avevamo dimostrato una tenuta superiore a tutti gli altri, guadagnandoci una buona reputazione internazionale. Ma ora siamo fragili, a causa di una crisi che viene dal non governo della finanza globalizzata e che si esprime, sul piano interno, con un sentimento di stanchezza collettiva e di inerte fatalismo rispetto al problema del debito pubblico. Siamo isolati, perché restiamo fuori dai grandi processi internazionali”. Di conseguenza ci sentiamo prigionieri dei poteri finanziari: “in basso vince il primato del mercato, in alto gli organismi del potere finanziario”. Di conseguenza, “viviamo esprimendoci con concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva, default, rating, spread”.
Agli inizi degli anni ‘80 il reddito da lavoro era il 70% del reddito familiare complessivo, nel 2010 la percentuale è scesa al 53,6. La classe dirigenziale, invece, è passata da 553 mila a 450 mila, e sono sempre quasi soltanto uomini, pochissime le donne, il Pil è cresciuto in termini reali solo del 4 per cento mentre in Germania e in Francia cresce rispettivamente del 9,7 e dell’11,9. L’occupazione stenta, i livelli occupazionali dei 45-54enni tengono e anzi aumentano trascinando i giovani in una spirale fatta di precariato e disoccupazione. Centomila posti di lavoro in meno per chi ha tra i 35 e i 44 anni ma la crisi colpisce «come una scure», ha detto il presidente del Censis Giuseppe de Rita, soprattutto i giovani sotto i 35 anni, che in quattro anni hanno perso un milione di posti di lavoro. Tanto che il Censis non esclude un aumento delle tensioni sociali e il rischio di una “deriva nazionalpopolare”.
L’Italia delle “caste”, quindi, non ha nessuna intenzione di cedere il passo al nuovo che avanza e anzi si rafforza con matrimoni e alleanze, stiamo tornado a livelli medioevali. «Il divario tra ricchi e poveri - scrive il Corriere della Sera - è andato ampliandosi negli ultimi decenni; in base a uno studio dell’Ocse, la Penisola è all’ottavo posto tra i 34 Paesi aderenti all’Organizzazione per il divario dei redditi tra le persone in età lavorativa ed è quinta per l’allargamento del gap tra la metà degli anni ‘80 e la fine degli anni 2000. Inoltre, scrive ancora l’Ocse, si è ridotta la mobilità sociale per matrimonio: sempre più persone si sposano con persone con redditi da lavoro simili ai loro. Professori che sposano professori, medici che sposano medici: in tempi di crisi, anche l’Italia rischia di scoprire le caste”.

Sempre meno e sempre più poveri
Generalmente, in processi economici e sociali di grande respiro sono sempre i gruppi minoritari e con scarsa visibilità a farne le spese. In Italia tale gruppo minoritario viene definito “giovani”. Nel giro di trenta anni le storielle che hanno raccontato ai bambini, oggi adulti, sono state sempre molto fantasiose. Anni ’90: «Se studi farai un lavoro creativo». Anni 2000: «Se studi lavorerai». Oggi: «Se studi potrai almeno fuggire all’estero». Non c`è da stupirsi dunque se il 38% degli italiani fra i 15 e i 30 anni ritengono poco attraente la scelta di studiare all’Università: è la percentuale più alta d’Europa. E non è nemmeno complicato capire il perché della scelta per la copertina del settimanale Time. “Un cappello di lana giallo - scrive La Repubblica -, una sciarpa per coprire il volto e gli occhi accessi dalla protesta. Un viso senza identità diventato simbolo di un intero anno” e di una generazione che in parte è confluita nei «movimenti di sommossa esplosi in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al nord Africa. Il personaggio dell’anno è stato ora identificato come Sarah Mason, una ragazza americana di 25 anni che ha partecipato al movimento Occupy di Los Angeles”.
Il nostro sistema produttivo invecchia, non riesce ad assorbire i laureati, chiede lavoratori manuali, autisti, meccanici, magazzinieri. Metà dei laureati e quasi metà dei diplomati al primo impiego svolgono mansioni per le quali il titolo di studio non era necessario. La crisi economica, poi, ha accentuato questa sconfortante tendenza. “La crisi si è abbattuta come una scure su questo universo: tra il 2007 e il 2010 il numero degli occupati è diminuito di 980.000 unità e tra i soli italiani le perdite sono state pari a oltre 1.160.000 occupati”, scrive il Censis. “Investita in pieno dalla crisi, ma non esente da responsabilità proprie, la generazione degli under 30 – si legge nel Rapporto Censis – sembra incapace di trovare dentro di sé la forza di reagire. La percentuale di giovani che decidono di restare al di fuori sia del mondo del lavoro che di quello della formazione è in Italia notevolmente più alta rispetto alla media europea: se da noi l’11,2% dei giovani di età compresa tra 15 e 24 anni, e addirittura il 16,7% di quelli tra 25 e 29 anni, non è interessato a lavorare o studiare, la media dei 27 Paesi dell’Unione è pari rispettivamente al 3,4% e all’8,5%. Di contro, risulta da noi decisamente più bassa la percentuale di quanti lavorano, pari al 20,5% tra i 15-24enni (la media Ue è del 34,1%) e al 58,8% tra i 25-29enni (la media Ue è del 72,2%)”.
Oltre la disoccupazione il quarantacinquesimo Rapporto annuale Censis descrive anche l’inattività di questa generazione. Si sta infatti progressivamente “riducendo (dal 19,2% al 18,8%) il numero dei giovani che, con la sola licenza media, non sono inseriti in alcun percorso formativo, pur se siamo ancora lontani dall’obiettivo europeo del 10% nel 2020. Si tratta comunque di un fenomeno che manifesta la sua drammaticità in particolare al Sud e nelle isole. Peraltro, il 25% dei giovani 19enni che si iscrivono alle superiori non  riesce a raggiungere il diploma.
Ancora più drammatico è il fenomeno dei giovani tra 15 e 29 anni che non studiano e non lavorano e che la crisi economica ha contribuito ad accentuare portandolo dal 20,5% al 22,01%”.
Relativamente alle scelte scolastiche, il rapporto rivela che le iscrizioni per il corrente anno scolastico hanno premiato gli istituti tecnici con un incremento dello 0,4%; di contro, hanno penalizzato i professionali con un decremento del 3,4%. I giovani che si rivolgono ai percorsi triennali di IeFp (Istruzione e Formazione professionale) sono circa 38.000 e costituiscono solo il 6,7% del totale degli iscritti al secondo ciclo di istruzione. L’attenzione ai percorsi professionalizzanti in Italia è pari al 50% dei giovani in età compresa tra i 15 e i 35 anni, molto distante dal 95% di Germania e Austria.
Se questi sono i dati, drammatici, i nostri media cercano di capire le conseguenze di questa crisi e si pongono alcuni quesiti, a volte superflui. Le scelte fatte dal “governo tecnico” di Monti non faranno altro che accentuare le problematiche dei giovani, soprattutto di quelli che dovevano entrare nella pubblica amministrazione. Con l’eliminazione delle Provincie, ad esempio, “le funzioni ed il personale dovranno essere assorbiti da Comuni e Regioni. Che nel frattempo - scrive Dario Ferri sul giornale online Giornalettismo - dovranno tagliare le loro spese di funzionamento. Tra queste, ci sono anche tutti i vari “precari” che lavorano in questi enti. In genere giovani. A volte “imbucati”, ma spesso in gamba. E dunque, che succederebbe? Molti giovani “precari” – assunti per supplire alla non elevata efficienza dei dipendenti “regolari”, tra cui si annidano i cosiddetti “fannulloni” – se ne andranno. E al loro posto arriveranno dipendenti “regolari”, magari non più giovanissimi, magari demotivati, magari un po’ “fannulloni”. In definitiva, provvedimenti teoricamente giusti finiranno in pratica per peggiorare il livello di efficienza delle Pubbliche amministrazioni locali, caricando sul groppone un numero eccessivo di dipendenti espellendo quelli più giovani e spesso più in gamba”. Questo articolo ha scatenato i commenti dei lettori. Alex scrive: «Ecco il classico pensiero di lotta tra poveri. I precari, ultima catena sociale del mondo del lavoro vengono assunti dalle pubbliche amministrazioni (e sfruttati anche qui) per sopperire alle carenze di organico». Adolo gli risponde: «La tesi è opinabile ma l’ipotesi è giusta. Alla fine avverrà comunque quanto predetto, ossia che i precari spariranno nel nulla». Insomma, qualunque sia la visione la questione rimane la stessa. I giovani o combattono contro i vecchi (sempre poveri) o spariscono dalla scena politica.
A sparire sono anche le case in affitto per chi è appena entrato nel mondo del lavoro e non si può permettere un mutuo. In un Paese di proprietari, solo i giovani infatti sono costretti all’affitto: il 36,3% fino ai quarant’anni, il 13,7% dopo i quaranta. Loro pagano i canoni più alti d’Europa. I giovani italiani vivono una condizione di svantaggio economico che finisce inevitabilmente per riflettersi anche sul mercato delle case. “Le famiglie più giovani - scrive Il Fatto Quotidiano - sono quelle più vulnerabili sotto il profilo abitativo: pagano alti canoni d’affitto oppure usano alloggi di famiglia, e in misura molto minore sono proprietarie. Le famiglie con persona di riferimento fino a 40 anni, infatti, vivono in affitto a prezzi di mercato nel 36,3% dei casi, contro il 13,7% delle famiglie over 40, mentre l’affitto da un ente riguarda il 2,6% delle famiglie over 40 e solo l’1,1% di quelle più giovani, che più spesso delle altre si trovano ad usufruire a titolo gratuito di una casa di proprietà di un parente (6,8%). L’affitto a prezzi di mercato è diffuso soprattutto tra le famiglie giovani che risiedono in Lombardia, Piemonte e Liguria (50%) e nel Centro Italia (39,3%), mentre nel Nord-Est e nel Mezzogiorno si registra una maggiore incidenza di casi in cui le famiglie più giovani vivono in una casa che appartiene a un parente, di fatto appoggiandosi al patrimonio della famiglia allargata. Una variabile decisiva è rappresentata dalla dimensione demografica del Comune di residenza. Nei centri di dimensioni più contenute, fino a 30 mila abitanti, e anche nelle città di piccole e medie dimensioni, l’accesso alla proprietà appare meno problematico per le famiglie più giovani (il dato sfiora il 60%), così come è più frequente che si realizzino meccanismi di supporto abitativo da parte della famiglia allargata (quasi il 9% dei casi nei centri fino a 30 mila abitanti). Ma nelle grandi città il quadro evidenzia tutta la sua complessità. L’affitto a prezzi di mercato è infatti la modalità in cui fruisce dell’abitazione il 47,5% delle famiglie con persona di riferimento fino a 40 anni, mentre il dato relativo alla proprietà scende al 49,2% e anche l’uso di una casa della famiglia rappresenta una fattispecie meno frequente (1,6%). Situazione diversa in Europa, dove i giovani trovano condizioni migliori, tanto che per essi sono disponibili contratti d’affitto a prezzo calmierato che riguardano il 28,7% dei trentenni in Francia e il 13,8%, nel Regno Unito, mentre in Italia il canone concordato viene concesso solo al 7,8%. Il modello italiano resta quello familista, visto che il 18% dei trentenni, secondo l’indagine Eu-Silc, abita in un alloggio di proprietà di familiari, contro il 6,3% in Francia e l’1,2% nel Regno Unito”.

Un peso enorme sulle famiglie
Da “Le colpe dei padri ricadranno sui figli”, a i costi dei figli ricadono sui padri. “L’humus economico” delle famiglie, ancora fortunatamente presente, permette di far crescere figli che spesso troveranno lavoro ad età sempre più avanzata, o non lo trovano per niente. Ma questa ricchezza accumulata in anni di sacrifici sta lentamente svanendo, senza nemmeno creare un “cambiamento” nella mentalità degli italiani.
Per continuare sul tema casa, ad esempio, sempre più persone decidono di ipotecarsi la casa per ottenere liquidità e così tirare avanti. A darne conferma è una ricerca del portale Mutui.it, che ha esaminato oltre 25.000 preventivi di mutuo compilati sul sito negli ultimi mesi, “scoprendo - riporta Marco Letizia - che il 4% delle domande riguarda la richiesta di liquidità. Un dato quello di Mutui.it che trova conferma anche in una precedente ricerca di un altro portale Mutuionline.it che sottolinea come ci sia stato un incremento di questo tipo di richieste dal 3% al 4,1% nell’ultimo anno. Un dato preoccupante perché è stato anche a causa di richieste di questo tipo che è partita la crisi generata dai subprime americani”.
Non è un caso che per affrontare la crisi le famiglie italiane facciano ricorso alla loro maggiore ricchezza, la casa. Nell’ultimo decennio è anche cresciuto il valore dello stock di abitazioni possedute, stimato in oltre 4.800 miliardi di euro, con un incremento che sfiora il raddoppio (+ 93% nominale) nell’arco di un decennio. “Una quota di questo incremento – spiega il Censis - è attribuibile all’effetto dei prezzi ma una quota rilevante è il risultato della scelta delle famiglie di destinare all’investimento in abitazioni una parte consistente dei propri risparmi”. E non è un caso che proprio la prima casa sia sta colpita dalle varie finanziarie. “La manovra - scrive Fabio Savelli, giornalista del Corriere della Sera - con i tagli lineari alle detrazioni fiscali era stata già licenziata a luglio dal Parlamento. Prevedeva una riduzione del 5% dei benefici fiscali per i contribuenti nel 2013 e del 20% (in caso di una mancata riforma del fisco con legge-delega) nel 2014. Poi la lettera della BCE inviata al governo italiano l’8 agosto scorso, nella quale invitava l’esecutivo a inasprire i contenuti del decreto di correzione sui conti pubblici, ha finito per complicare il quadro. Anticipando di un anno le misure previste, in modo da ottenere il pareggio di bilancio nel 2013. E a rimetterci sembra essere soprattutto chi ha il “lusso” di una prima casa, data la forbice alle decine di detrazioni fiscali che riguardano gli immobili”.
Poi è arrivato il governo Monti e la nuova Imu e per il Censis è allarme povertà per 4 milioni di famiglie italiane, “un numero cresciuto di mezzo milione (+14,6%) solo negli ultimi 5 anni, mentre la crisi ha colpito soprattutto i giovani (secondo la Caritas sono 8 milioni i poveri, due milioni e 700.000 famiglie, un dato minore di quello prospettato dal Censis, forse dovuto a parametri di soglia di “limite di sussistenza” un po’ più elevata per il Censis per considerare una famiglia “non povera”…ndr). La crisi economica degli ultimi anni ha ridotto il reddito disponibile delle famiglie e ha provocato conseguentemente una caduta della propensione al risparmio anche a causa dell’irrigidimento di alcuni consumi”.

Soluzioni digitali
Come uscire dalla crisi? Come ormai è facile intuire, siamo in recessione, le tasse e i tagli servono solo per far sì che la situazione si stabilizzi, le soluzioni quindi sono altre. La ricetta del Censis è quella di “mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia”. Internet e le sue attuali potenzialità potrebbero aiutarci.
Oltre la metà degli italiani naviga quotidianamente su internet: per informarsi, cercare lavoro, pagare le bollette e consultare lo stradario. Lo rileva il Censis, “l’utenza del web nel 2011 ha finalmente superato la fatidica soglia del 50% della popolazione italiana, attestandosi per l’esattezza al 53,1% (+ 6,1% rispetto al 2009)”. “Il dato complessivo - riporta Il Fatto Quotidiano - si fraziona tra l’87,4% dei giovani e il 15,1% degli anziani (65-80 anni), tra il 72,2% delle persone più istruite e il 37,7% di quelle meno scolarizzate. Tutti i dati inoltre confermano l’affermazione progressiva di percorsi individuali di fruizione dei contenuti e di acquisizione delle informazioni da parte dei singoli, con processi orizzontali di utilizzo dei media in base a palinsesti multimediali personali e autogestiti, basati sulla integrazione di vecchi e nuovi media”. Vista la disoccupazione non c’è certo da stupirsi se la ricerca di lavoro è la quarta attività, per ordine di rilevanza, che i giovani svolgono sul web. “Naturalmente - scrive il Censis -, fra i giovani sono presenti anche quanti un lavoro ce l’hanno già oppure non intendono cercarlo, perché ancora studenti o per altri motivi. Infatti, i dati articolati per condizione professionale portano al 41% il tasso di utilizzo di Internet per la ricerca di un lavoro proprio tra i non occupati. La ricerca di un lavoro attraverso la rete, a livello nazionale, interessa il 12,3%, che sale al 26,8% tra i giovani. Le attività di una certa rilevanza pubblica, come sbrigare pratiche con uffici amministrativi (9,7%) o prenotare una visita medica (3,9%), appaiono invece decisamente meno praticate. I giovani si differenziano dagli altri in modo significativo, quando si vuole individuare l’uso preminente che fanno di Internet. Si connettono principalmente per ascoltare musica (52,5%), per trovare le strade (46,5%), per guardare film (34%)”.
Questi dati sono certo incoraggianti ma non sono ancora sufficienti per colmare il Digital divide: ovvero il divario che esiste tra coloro che hanno accesso all’Information Technologies (computer e Internet) e tra coloro che ne sono esclusi. Ad analizzare la situazione in Italia, ne viene fuori un quadro decisamente poco confortante, leggiamo i dati che Il Sole 24 Ore pubblicava nell’aprile del 2010: “Al 2010, una famiglia italiana su 2 non ha un collegamento e solo una su 3 possiede Internet in banda larga. Il numero di italiani del tutto privi di copertura on line è di 2,3 milioni. Un numero che raggiunge quota 23 milioni (il 38% della popolazione), se si considerano i servizi d’accesso più tecnologici in grado di consentire fino a 100 Megabit al secondo”.
Ne esce fuori un quadro desolante, un Paese al palo della competitività, un Paese dove non è assicurata a tutti i cittadini (e imprese) una connessione alla rete veloce, la cosiddetta banda larga. Ma oggi, per essere competitivi con i Paesi Ocse, è necessaria la cosiddetta banda ultra-larga, “cioè una tecnologia di accesso alla rete con velocità superiore a quelle garantite dai migliori Adsl in circolazione (obiettivo 50-100Mb/s)”. Uno studio di Ericsson, svolto in collaborazione con i consulenti di Arthur D. Little, evidenzia come: “Il raddoppio della velocità media di connessione alla rete in un Paese aumenta il Pil dello 0.3%, ogni 1.000 nuove connessioni alla rete si creano 80 posti di lavoro. Per ogni incremento del 10% della penetrazione della banda larga il Pil aumenta di circa l’1%”.
Un’Europa sempre più digitale non può permettere che l’Italia rimanga indietro, nell’immediato dobbiamo affrontare la crisi, ma questo non ci deve fare abbandonare il progetto di creare le condizioni per uno sviluppo sostenibile nel medio-lungo termine. Quello sul digitale e banda larga può essere un formidabile investimento per uscire dal guado. L’accesso a Internet a banda larga, oltre a essere considerato un servizio universale, deve essere inteso anche come bene comune, al mantenimento e allo sviluppo tecnologico al quale tutti gli operatori dovranno contribuire. Occorre creare la società della Rete sostenuta anche da fondi della Cassa depositi e Prestiti e lanciare un grande e ambizioso progetto di passaggio da una rete oggi in rame a una in fibra ottica.

Conclusioni
La Rete, l’esplosione dei social network, la diffusione di aggregazioni spirituali e la crescita di forme amicali collettive non sono solo modi per far ricrescere l’economia, sono anche metodi per supplire alle carenze del welfare pubblico. “Il vuoto lasciato - scrive il Censis - nella fascia intermedia della società dalla polarizzazione tra il mercato e la finanza può essere riempito soltanto dalla rappresentanza”.
E se nel prossimo futuro potrebbero esserci tensioni sociali e conflitti, “a causa della tendenza all’aumento delle diseguaglianze e dei processi che creano emarginazione”, il “disinnesco” delle tensioni passa attraverso l’arricchimento dei rapporti sociali: “è nel binomio più articolazione, più relazione che la società italiana può riprendere respiro”.
Il Censis infatti guarda all’economia reale come unica strada per uscire dalla crisi, perché in fondo “siamo ancora una realtà in cui vige il primato dell’economia reale, nonostante l’attuale trionfo dell’economia finanziaria”. Anche l’Ocse sottolinea che l’occupazione è il modo migliore di ridurre le disparità, tramite la creazione di posti di lavoro “qualitativamente e quantitativamente migliori”. È essenziale - indica L’Organizzazione – “investire nelle risorse umane, fin dalla prima infanzia e per tutto il ciclo dell’istruzione e occorre fornire incentivi sufficienti sia ai lavoratori, sia ai datori di lavoro, affinché investano nelle competenze lungo l’intero arco della vita lavorativa”.

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