Claudio Giardullo, segretario generale del Silp, ci racconta
come dopo mesi passati a denunciare gli effetti negativi
dei tagli lineari effettuati dal governo Berlusconi, oggi assistiamo
agli effetti pratici. Se osserviamo l’universo ‘sicurezza’
non possiamo non notare un deciso declino. Le scelte di tagliare
le risorse economiche alle forze dell’ordine influiscono sul tema
della legalità, in un periodo che oltretutto richiederebbe
un maggior controllo del territorio
Rispetto alle due manovre finanziarie estive, quale è l’atteggiamento del governo rispetto al tema della legalità? Le decisioni della Maggioranza hanno permesso d’intensificare la lotta al crimine?
Il governo irresponsabilmente ha continuato per tutta l’estate a tagliare in modo lineare e indiscriminato, colpendo così solo marginalmente gli sprechi, mentre rischiamo di compromettere per lungo tempo alcune funzioni essenziali dello stato di diritto. Con l’ultima manovra si è deciso, per la quarta volta in tre anni, di ridurre le risorse per le Forze di polizia e gli uffici giudiziari. Con i tagli previsti arriviamo a 3 miliardi di euro: 1 miliardo con la manovra del 2008, 650 milioni con quella del 2010, 500 milioni con quella di luglio e di quest’anno e 850 con quella di settembre che avrà effetti per il 2012 e 2013. In questo modo assisteremo a un inevitabile ridimensionamento della capacità del sistema delle Forze di polizia di rispondere alla domanda di sicurezza. Ormai sempre di più le attività di polizia si fondano sull’impegno e il senso di sacrificio dei singoli operatori e sempre meno su una capacità strategica e strutturale. La sola Polizia di Stato ha un deficit di organico di 11 mila unità. Sono 30 mila, invece, gli operatori mancanti sul totale delle Forze di polizia. Il rischio maggiore è quello della perdita progressiva di conoscenza e capacità di controllo del territorio, insomma un modello diverso di presenza, a maglie più larghe. Tutto questo produce alcuni effetti visibili che danno il senso di difficoltà, e cioè il fatto che gli operatori si debbano comprare i giubbetti antiproiettile o parti di divise, computer e che debbano usare le loro auto per le investigazioni o il più noto problema della benzina. La parte più inquietante è la perdita progressiva di conoscenza e capacità di controllo di ciò che sta avvenendo sul territorio, che non potrà essere recuperata in tempi brevi, anche se ripartissimo domani. Ma anche la giustizia ha subito tagli analoghi. È sufficiente verificare che le spese per l’innovazione sono quasi azzerate e che mancano i fondi per proseguire in quei progetti (dagli stagisti ai distacchi di personale da altre amministrazioni) che erano stati avviati per fronteggiare la drammatica carenza di personale amministrativo e di supporto all’attività dei magistrati. Già adesso molti uffici stanno riducendo le attività ordinarie, assomigliamo sempre meno ad un Paese del G8. Siamo destinati nei prossimi anni, salvo svolte miracolose, a correre maggiori rischi sul versante della legalità.
Seguendo il solco delle sue parole, l’ennesimo taglio alle risorse della Dia, struttura voluta da Giovanni Falcone, e il nuovo codice antimafia, fortemente criticato, sono prove concrete cha al governo interessa poco la legalità?
La decisione strategica del governo rischia oggettivamente di minare le capacità dello Stato di controllare la legalità. Non è solo una questione economica, che comunque ha il suo peso, sotto c’è anche una specifica volontà politica. L’abolizione della Tea, il trattamento economico aggiuntivo, ovvero un’indennità operativa riconosciuta per legge agli operatori in ragione della particolare professionalità richiesta e per le condizioni di rischio e disagio, è pari al 20% del loro trattamento economico complessivo. Anche il tipo di impiego della Dia, molto al di sotto delle sue possibilità rende evidente la volontà del governo di ridurre uno strumento fondamentale per il contrasto al crimine mafioso. A dimostrare le mie parole c’è stato anche l’ennesimo tentativo di svuotare di contenuto e di efficacia lo strumento delle intercettazioni. Tentativo che per fortuna anche questa volta, merito della reazione di buona parte del Paese e della società civile, tra cui il Silp, non è andato assegno.
Per quanto riguarda il ‘nuovo codice antimafia’, nome quantomeno pomposo, mi sembra che sia l’ennesima riprova il governo si limita solo agli annunci e a campagne pubblicitarie. Il codice non è altro che una sistemazione di norme già esistenti, spesso peggiorandole, che non dà, tranne nel settore della confisca dei beni, nuovi strumenti alle Forze di polizia e alla magistratura. Basti citare quello che è previsto nel cosiddetto libro 4, che riguarda la Dia e il Consiglio generale per la lotta alla mafia, dove vengono copiate norme già esistenti. Le mafie ringraziano, noi protestiamo.
Con il tema della legalità non si lega molto, ma l’attualità ci impone una riflessione. Il governo sembra sottolineare, dopo i fatti del 15 ottobre, in modo crescente che nel nostro Paese c’è un nuovo “terrorismo urbano”.
Spostare l’attenzione sulla sicurezza è un modo per non far vedere al Paese i problemi economici e finanziari che lo affliggono. Non ci sono segnalazioni circostanziate del ritorno agli ‘anni di piombo’. Anche gli organismi specializzati affermano che non ci sono le condizioni economiche sociali che possano permettono il rifiorire di organizzazioni terroristiche.
Il vero rischio è la mistificazione dei giudizi. La violenza del ‘blocco nero’, durante la manifestazione di Roma, non dovrebbe trovare mai spazio, ma considerarla terrorismo e intervenire poi sulle forme di manifestazione del dissenso è un errore di valutazione molto grave. Si finisce per restringere gli spazi di democrazia di un Paese creando una condizione oggettiva che potrebbe spingere alcune fasce della società, pensiamo all’area antagonista, verso l’eversione vera e propria.
Chiedere i soldi per manifestare, inoltre, è come affermare che può manifestare solo chi ha già le condizioni per affermare la sua voce. Un Paese si può definire realmente democratico se dà agli ultimi, quelli senza risorse, il diritto di manifestare in modo pacifico. Il vero tasso di democrazia si misura su questo, ovvero quando gli studenti, precari, disoccupati e lavoratori possono far sentire la loro voce.
Di fronte a questa strategia di drammatizzazione forzata sembra esserci un’operazione utile a chiudere gli spazi di dissenso. Su questa strada si colloca il divieto del sindaco di Roma di manifestare in centro. Divieto che intanto è illegittimo perché nella nostra Costituzione la tutela della sicurezza pubblica spetta allo Stato. Alemanno, infatti, era stato nominato commissario delegato dal premier, senza per giunta modificare la Costituzione e la legge 121, sul problema della viabilità. Nel nostro sistema, inoltre, al sindaco è riconosciuta la facoltà di emanare le ordinanze restrittive in presenza di due condizioni, la necessità e l’urgenza. E il traffico non fa parte di nessuna delle due condizioni.
|