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Novembre-Dicembre/2011 - Articoli e Inchieste
Formazione
Addestramento e sicurezza... due facce della stessa medaglia
di L. B.

La più grande crisi economica e finanziaria
degli ultimi anni ha colpito duramente anche l’Italia
e la Polizia di Stato. Gli scontri degli studenti
lo scorso dicembre a Roma, la primavera in Val di Susa
e il continuo lavoro a Lampedusa ci preannunciano
un sempre maggiore intervento delle Forze di polizia. Requisito
fondamentale per mantenere l’ordine è la preparazione. L’addestramento
però non è solo un elemento cardine per gestire
l’ordine pubblico, è anche necessario per avvicinare
gli operatori di polizia alla persone. Il cittadino non deve e non dovrà mai
dubitare della preparazione di chi è deputato
a proteggerlo, la sua fiducia e la sua disponibilità sono essenziali



«La Polizia di Stato vicino alla bancarotta, manca di tutto. In Sardegna tagliati anche i proiettili per l’addestramento». Il 14 luglio un’emittente locale sarda diffonde questa notizia, quanto meno allarmante. La cura dimagrante della finanza pubblica si comincia a sentire. La lista di cose che mancano è impressionante: «auto di servizio, carburante, fondi per gli straordinari, per le divise e per gli affitti delle caserme». Per non parlare poi degli organici, perennemente all’osso. «Ultima tegola - continua il servizio - una nota ministeriale di giugno che limita per Sardegna, Lazio e Abruzzo l’approvvigionamento di cartucce destinate alle esercitazioni di tiro. Da 150 ad operatore a sole 40. Tradotto significa che gli agenti non potranno completare l’addestramento minimo obbligatorio, quindi meno sicurezza per loro e per i cittadini».
Apparentemente può sembrare un discorso sterile quello dei “conti”, in fondo si può obiettare che in tempo di crisi da qualche parte bisogna pure tagliare, ma forse è arrivato il momento per il nostro Paese di instaurare politiche lungimiranti e non solo emergenziali.

Una nuova “formazione” per non ripetere gli errori del passato
Senza scomodare degli scontri in Val di Susa, e magari le rivolte nello stile di Londra, sarebbe il caso d’imparare dal passato. Non esistono solo i “grandi eventi”, la Polizia è chiamata ad operare quotidianamente. Pensiamo ai Cie: lo scorso 29 luglio dopo un tentativo di fuga (il Reparto Mobile della Questura di Roma è riuscito a riprendere i fuggitivi) il centro di detenzione di Ponte Galeria a Roma è stato messo a ferro e fuoco per tre ore dagli immigrati. «Extracomunitari hanno dato fuoco a coperte e materassi e sono dovuti intervenire i vigili del fuoco per domare le fiamme». In quel caso ben otto poliziotti rimasero feriti. Per non parlare poi della guerriglia nel centro di accoglienza a Pozzallo, nel ragusano. «Circa cento immigrati hanno cercato di fuggire dalla struttura usando pezzi di ferro staccati dai letti a castello per spaccare i vetri delle porte d’ingresso dell’edificio. A fronteggiare la rivolta una quindicina di agenti». In tredici sono stati arrestati, con l’accusa di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale, e cinque agenti di polizia sono rimasti feriti negli incidenti e sono stati medicati al pronto soccorso dell’ospedale Maggiore di Modica.
Quest’anno poi ricorre il decennale del G8 di Genova, in quell’occasione i limiti di addestramento e di equipaggiamento furono lampanti. «Sotto un profilo tecnico - scriveva Andrea Nativi su Limes - a Genova le forze di polizia sono riuscite a raggiungere l’obiettivo primario, assicurare il regolare svolgimento dei lavori del G8 e la protezione e sicurezza delle (troppo) folte delegazioni e delle migliaia di giornalisti che hanno soggiornato nella “zona rossa”». Questo, però, non ha influenzato il giudizio dell’opinione pubblica nostrana e mondiale su come sia stato gestito nel complesso l’ordine pubblico. La strategia difensiva adottata si è rilevata quantomeno insufficiente. Tralasciando gli aspetti organizzativi e tattici ci concentreremo su quelli inerenti all’addestramento e all’equipaggiamento. «Tradizionalmente - continua Nativi - quando si parla di ordine pubblico si riteneva che più l’addestramento individuale contasse quello di reparto, a livello di squadra o plotone. Dato che fare ordine pubblico serve personale giovane e in forze, c’è stata - si riferisce sempre a Genova - la tendenza ad affidarsi alla “manovalanza a basso costo”, gli ausiliari di leva. Questo vale in particolare per i battaglioni mobili dei Carabinieri, ma anche per la Polizia di Stato e financo per la Finanza, che appena possibile hanno cercato di attingere a questi serbatoi. Ed è abbastanza ridicolo - e qui si centra un punto essenziale - che da un lato si accrediti con la solita retorica il “profilo” del tutore dell’ordine maturo, professionista, con solida base culturale e psicologica, ben addestrato, scelto con cura e dall’altro si finisca per affidare il delicatissimo compito dell’ordine pubblico a ragazzi di leva con qualche settimana di istruzione “generalista” alle spalle.
L’idea sarebbe quella di capovolgere il luogo comune per cui nei reparti utilizzati per l’ordine pubblico negli stadi e nelle manifestazioni (più o meno politiche) si adoperasse personale poco preparato, culturalmente e tecnicamente. Dovremmo immaginare, invece, reparti di élite, composti da personale preparato in <>, pronti ad affrontare situazioni “reali” e con «una specifica indennità>> economica. Bisogna ricordare, e qui ci vengono in aiuto le migliaia di testimonianze di agenti, che l’aspetto psicologico è fondamentale. Saper aspettare per 10-15 ore di fila - magari subendo insulti - è una vera e propria guerra di logoramento che metterebbe a dura prova la stabilità di tutti.
Nel caso specifico di Genova, la cultura dell’emergenza ha avuto come risultato quello di riuscire ad avere nuove attrezzature, ma non il tempo di imparare ad usarle in modo corretto. «Nel giro di qualche mese - continua Nativi su Limes - sono arrivate nuove tute da combattimento ignifughe, endoscheletri plastici protettivi che in qualche caso hanno salvato la vita ai tutori dell’ordine e che hanno consentito di limitare i danni in migliaia di episodi, bastoni, anche estensibili, da combattimento (tonfa e affini) moderni e più efficaci (molti però sono rimasti ai vecchi e inefficaci manganelli di gomma), caschi più leggeri e protettivi, nuovi lanciagranate e bombe lacrimogene/fumogene. Ma c’è stata la solita disomogeneità nelle scelte e nella distribuzione e spesso non c’è stato il tempo per imparare ad usare i nuovi materiali. È rimasto però un “buco” gravissimo nell’armamento: tra le armi da fuoco e il manganello, integrato talvolta dallo spray irritante, non c’era niente, l’unica arma stand-off che permettesse di colpire a distanza era il lanciagranate. Qualche reparto ha usato anche granate flash-bang stordenti e munizionamento in gomma per fucili riot calibro 12, ma sono stati casi isolati. È sì che sul mercato è disponibile da anni una vasta gamma di armi non letali (che all’estero le forze di polizia chiamano “meno che letali”, per indicare che comunque provocano danni) e prodotti nuovi o migliorati continuano ad essere sviluppati, anche perché l’interesse delle Forze armate per queste armi è in crescita (peacekeeping) e ciò garantisce un flusso di fondi per ricerca, sviluppo e sperimentazione». A distanza di dieci anni, che cosa è cambiato nell’equipaggiamento? In Val di Susa abbiamo potuto osservare solo cannoni ad acqua e un’infinità di lacrimogeni, oltretutto dannosi per gli stessi operatori. Dove sono le munizioni non letali capaci di disperdere assembramenti, colpire con precisione ma con forza adeguata singoli dimostranti? Dove sono i sistemi ad energia diretta alle schiume-colla, alle reti, ai pungoli elettrici? Forse solo nei film di fantascienza. Ma soprattutto dove sono i sistemi di comunicazione sicuri, «individuali, con “maglie” di reparto e reti integrate per i comandanti»? La maggior parte degli errori “di reparto” (collettivi) che sono stati fatti a Genova erano dovuti alla carenza - se non assenza - di comunicazione con le basi operative.
Specifici materiali ed attrezzature richiedono specifici addestramenti. «Per imparare ad usare a dovere l’equipaggiamento, l’armamento non letale e i mezzi da ordine pubblico serve una preparazione specifica, non si può improvvisare. Occorre quindi un corso basico realmente intenso e professionale, seguito dal perfezionamento e dal mantenimento, mentre i reparti devono essere “certificati” per la prontezza all’impiego attraverso esercitazioni realistiche e frequenti. Ovviamente se la truppa deve essere formata con cura - conclude Nativi -, un’attenzione molto maggiore deve essere riservata ai quadri, che andrebbero selezionati per una carriera specifica nel settore e non pescati un po‘ dove capita e con esperienze di ogni tipo alle spalle». Una scena come quella di cui è stato protagonista Alessandro Perugini, che colpì con un calcio in faccia un ragazzo a terra, non si dovrà mai più ripetere.
Per ottenere reparti di élite è indispensabile la creazione di centri di addestramento simili a quelli francesi, dove si possono sperimentare scenari urbani realistici e dove anche i quadri possono affinare le tecniche e le tattiche. Ovviamente ricordandosi sempre la giusta “attitudine mentale”, il poliziotto è un tutore dell’ordine e non un soldato sceso in campo per reprimere e soffocare una manifestazione.

Formazione continua
Anche gli agenti che ogni giorno scendono in strada dovrebbero essere continuamente addestrati; oggi la realtà è assai complicata. Basti pensare alla Regione Sardegna, Lazio e Abruzzo dove addirittura mancano i fondi anche solo per sparare al poligono. La norma dovrebbe essere rappresentata da scuole che preparino professionisti in grado di garantire la sicurezza della collettività e la tutela dei diritti dei cittadini. L’unica struttura in Italia è la già citata Scuola Superiore di Polizia, che ha «la strategica missione di formare, aggiornare e specializzare i funzionari della Polizia di Stato».
«Il processo di radicale trasformazione che ha investito l’Istituto in questi ultimi anni ha portato, nel 2006, all’attribuzione della nuova denominazione di “Scuola Superiore di Polizia”, che il decreto istitutivo (Dpr n. 256 del 2006) definisce formalmente come “istituzione di alta formazione e cultura”. Diretta dal Dirigente Generale di Ps Gerardo Cautilli, è un centro di eccellenza formativa, un moderno “Ateneo della sicurezza”.
Di grande valore è la continua collaborazione con l’università, «incentrata sull’approfondimento degli scenari nazionali ed internazionali, costituisce una delle esperienze più avanzate di sinergia tra autorità di sicurezza e mondo accademico. In tale ottica, sono state stipulate convenzioni con prestigiosi Atenei italiani come la Sapienza Università di Roma, l’Università degli Studi “Roma Tre”, l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, l’Università degli Studi di Catania, e numerosi rapporti di collaborazione con altri centri di studio e di ricerca». Lo scopo è creare una classe di funzionari «capaci di svolgere al meglio i propri compiti al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini. Da commissari a questori, i moderni “manager della sicurezza”, nel corso della loro carriera imparano a fronteggiare i problemi quotidiani di una società complessa». Certo il termine “manager della sicurezza” andrebbe rivisto, come la globale tendenza ad economicizzare qualsiasi aspetto della società. Per il resto la Scuola Superiore di Polizia sembra un ottimo inizio per avvicinare realmente il funzionario di Polizia al cittadino. Esistono poi diversi progetti finanziati dal ministero dell’Interno per «realizzare una formazione integrata tra operatori di sicurezza - a tutti i livelli - e altri soggetti che comunque operino nell’ambito della sicurezza». Sono cinque i progetti: il “Sisfor” (Sistema di formazione online delle Forze dell’ordine) assorbe un finanziamento di oltre 12 milioni di euro ed ha come ente beneficiario il ministero dell’Interno, il Dipartimento della Ps e la Direzione Centrale per gli Istituti di Istruzione. Il “Supporto progetti formativi Asse I”, invece, ha un baget di soli 22.464 euro. La “Formazione Superiore per il contrasto dei crimini ambientali in Campania” per la prefettura di Napoli può permettersi di spendere oltre i seicento mila euro (660.000). La “Prevenzione degli illeciti sul posto di lavoro”, nella Prefettura di Catania, potrà investire ben 855.950 euro, mentre le “Risorse umane per un sistema integrato e coordinamento di controllo del contesto ambientale”, nella Prefettura di Reggio Calabria, soli 129.476 euro.
Alcuni fatti di cronaca che riguardano agenti di Polizia, se letti con una lente diversa, possono far capire quanto sia necessaria una specifica formazione. Se ad esempio leggiamo la sentenza che ha condannato Luigi Spaccarotella, poliziotto all’epoca in servizio alla polizia stradale, non possiamo non farci qualche domanda sulla sua personale professionalità. L’uomo è stato condannato a sei anni di reclusione per l’omicidio colposo di Gabriele Sandri, il tifoso della Lazio ucciso l’11 novembre 2007 nell’area di servizio di Badia al Pino, sull’A1, da un colpo di pistola sparato dall’agente. Secondo la Corte di Arezzo, fu «un colpo volontario sparato per fermare l’auto» ad uccidere il ragazzo romano. L’agente mirò per colpire la parte bassa del mezzo, presumibilmente le ruote. «Appare quanto mai improbabile e del tutto irragionevole ipotizzare» che l’agente possa essere stato indotto «all’azione per un fine diverso da quello di fermare» la macchina. «L’ipotesi accusatoria di omicidio volontario nella forma del dolo eventuale non può essere ritenuta adeguatamente e sufficientemente provata», non risulta supportata «né sul piano logico e neppure su quello fattuale da elementi che siano univocamente indicativi», smentendo così quando affermato dal poliziotto che ai colleghi aveva detto di aver sparato anche la seconda volta in aria. I giudici, inoltre, sono convinti anche che Spaccarotella quando sparò avesse « un campo visivo ampio» che gli permetteva di vedere bene l’auto dei tifosi che si trovava al di là dell’autostrada, e risulta quindi difficile capire «cosa possa essere scattato nella mente dell’agente». Perché sparare «pur non trovandosi davanti a un crimine che imponesse interventi decisi», ma soltanto «a dei banalissimi tafferugli»? Credo che ha questa domanda si possa rispondere in modo fattuale solo con un rimpianto. Se l’agente fosse stato più addestrato, più lucido, più pronto psicologicamente e quindi forse più freddo questa tragedia si sarebbe potuta evitare. Per il semplice poliziotto spesso l’unico addestramento è quello sul campo. Sarebbe doveroso, sia per il poliziotto che per il cittadino, fornire all’operatore una formazione “tattica” e una corretta visione del “ruolo” attinente la sua professione. Dal punto di vista tecnico, basandosi “sull’Use of force” (“indice di azione”), le priorità dovrebbero essere il miglioramento e mantenimento di uno status fisico ottimale, qualificare il personale con tecniche di difesa personale “reali” che possano funzionare “in uniforme” e “sulla strada”.
Formare il personale alle “Tecniche operative” specifiche agli incarichi e alle “procedure standard” a cui adeguarsi per fornire un servizio ancor più autorevole.
Cosa fondamentale - e qui torniamo all’inizio dell’articolo - è fornire un’adeguata conoscenza dello strumento “arma da fuoco”. Non ci si dovrebbe limitare ad una sessione all’anno al poligono - anche questa a rischio - solo perché obbligatoria e prevista dalla legge. Infatti uno degli elementi più sconcertanti che emergono nell’analisi degli scontri a fuoco che vedono coinvolti gli operatori delle Forze di polizia è il numero decisamente troppo elevato di colpi che vanno fuori bersaglio. Nei Paesi dell’Unione Europea, si calcola che i colpi sparati dagli operatori dagli agenti delle vari polizie in un reale scontro a fuoco vadano a vuoto tra il 60% ed il 90% dei casi. Alcuni esperti sostengono che a causa di ciò ci sia lo scarso e a volte illogico e irrealistico addestramento. Ad esempio non ha assolutamente alcun senso che un operatore di polizia si addestri a sparare a 25 metri su un pezzo di carta statico se poi non riesce a colpire un bersaglio umano in movimento a 2 metri di distanza. Alcuni concetti connessi con il tiro accademico dovrebbero essere accantonati e chi fa il poliziotto dovrebbe farsi le seguenti domande: «quanto impiego ad estrarre l’arma ed a colpire un bersaglio? Con quale grado di precisione riuscirei a colpire un bersaglio mobile posto a 4 - 5 metri da me? Quante tecniche di tiro conosco? Possiedo la corretta conoscenza delle tecniche di tiro mirato e non mirato, o possiedo solo poche frammentarie informazioni (che non so mettere in pratica)?» Per rispondere a queste domande servirebbe, in modo obbligatorio, frequentare per un certo numero minimo di ore mensili il poligono più vicino, pena sanzioni disciplinari. Si potrebbe continuare a parlare per ore di aspetti tecnici ed operativi che si dovrebbero insegnare ai poliziotti (basti citare la “pianificazione preventiva” di uno scontro a fuoco), ma si può facilmente riassumere tutto in un’ultima considerazione. La speranza - che oggi sembra quasi utopia - è che nel campo dell’addestramento operativo, reale ed efficace, bisogna introdurre e un concetto nuovo: “formazione continua”.

Non è solo una questione di fondi
Cosa impedisce agli agenti di polizia di accompagnare la propria carriera con una “formazione continua”? Sicuramente il fattore economico influisce, ma è possibile che sia solo la mancanza di soldi a dettare le linee direttive di questo inizio di secolo? Possiamo appiattire la nostra mentalità su logiche economiche? Io credo sinceramente di no, spesso la realtà è più complessa di una sottrazione e di una somma. Spesso a dettare le regole sono scelte politiche che hanno poco a che vedere con i “conti”. Per concludere questo breve e incompleto viaggio nella formazione delle Forze di polizia italiane vorrei riproporre lo sfogo (purtroppo anonimo) di qualche operatore lasciato in forum specializzati. «Io dovrei pagare le tasse per comprare il nuovo materiale con scritto “Polizia di Roma Capitale”!». Può sembrare un esempio poco calzante, visto che la provenienza dei fondi è diversa, ma il cambio di look e nuovo nome per la Polizia Municipale di Roma, ora Polizia Roma Capitale, non è piaciuta a molti. «Qualcuno mi dice un motivo valido per cui è stato cambiato il nome sprecando soldi»? Questa la domanda più frequente e la conclusione più ovvia è: «Ecco dove vanno le nostre tasse»! La spiegazione più semplice, almeno per chi vi scrive, è che Roma è soprattutto un grande bacino di voti e dare maggiore potere alla polizia locale (municipale) equivale ad assicurarsi, parlo del sindaco, maggiore influenza. Questo spiegherebbe molte delle politiche, non solo capitoline, che vedono ormai quasi quotidianamente spogliare dei poteri le Forze di polizia nazionale a vantaggio di quelle locali. A sostegno di questa tesi non ci sono solo i soldi usati per le divise e le auto, ci sono anche i decreti. I poteri del Corpo di Polizia erano infatti già stati rafforzati con il decreto sulla sicurezza urbana, e il decreto legislativo del 17 dicembre 2010, n. 156, che l’aveva riconosciuta polizia del nuovo ente Roma Capitale. «Ora a sancire la trasformazione arriva anche una nuova identità visiva, che apparirà, in modo graduale, su uniformi e accessori in dotazione e su tutti i veicoli. Il nuovo corpo, inoltre, potrà contare su 639 nuovi mezzi, tra cui anche biciclette a pedalata assistita e motociclette». Attualmente il Corpo conta su 6.668 dipendenti, di questi 3.648 sono uomini e 3.020 donne, 29 i dirigenti, 2.533 i funzionari e 4.007 gli istruttori. «Dal 2009 il Corpo ha un suo Regolamento sull’armamento, deciso dall’Assemblea capitolina, che viene usato come legittima difesa ed ha avvicinato Roma alle altri grandi città italiane dove da anni è in vigore questo tipo di regolamento. Circa il 60 per cento del personale non ha chiesto l’esonero dall’assegnazione dell’arma d’ordinanza. Attualmente sono 1.683 i dipendenti armati, il restante personale è in attesa di svolgere i corsi preparatori».
«Sempre con l’obiettivo di garantire un nuovo rapporto con la Città - dichiara un comunicato Asaps -, il vicecomandante Diego Porta è stato nominato responsabile della Polizia Roma Capitale per i rapporti con i cittadini, con lo specifico ruolo di rispondere alle numerose richieste che vengono dal territorio e instaurare un dialogo quotidiano e proficuo con tutta la cittadinanza».
Tutti questi elementi hanno fatto presumere a molti che i “vecchi” vigili della Capitale si sono trasformati in nuovi “poliziotti” di Roma, la nomina di Porta a “responsabile della Polizia Roma Capitale” sembra confermarlo. Perché creare un nuovo “funzionario”? Non scarseggiavano i fondi per le munizioni?

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