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Novembre-Dicembre/2011 - Articoli e Inchieste
Caporalato
Una piaga sociale ed economica
di Marta Gara

Un dramma che sembra arrivare da un’Italia
agricola che non esiste più, un reato che non interessa
solo il Sud ma anche il ricco Nord. Il caporalato
deve interessare tutti, non solo i lavoratori
extracomunitari. Se vogliamo mangiare in modo “etico”
non possiamo scordarci degli “schiavi” delle nostre campagne



Da più di 40 anni non si ricordavano scioperi di braccianti in Italia. Almeno fino a quest’estate. Quando a incrociare le braccia e a posare a terra i cassoni di angurie e pomodori sono state centinaia di migranti africani, impegnati nelle campagne attorno a Nardò, in provincia di Lecce. Uno sciopero lungo 13 giorni. Con due rivendicazioni: l’innalzamento della paga per cassone agli standard contrattuali e l’introduzione del reato penale di caporalato, l’intermediazione illegale per il reclutamento di manodopera che asciuga i guadagni dei lavoratori e rende la loro vita infernale. È così che autonomamente un gruppo di africani, tutti alloggiati alla masseria Boncuri di Nardò, ha ridato voce a quei circa 800 mila lavoratori, italiani e stranieri, che secondo le stime della Cgil sono soggiogati a caporali, lavoro nero o dumping contrattuale in tutta la Penisola. Una piaga sociale ed economica che i sindacati di categoria Flai e Fillea Cgil denunciano dal gennaio scorso con la campagna “Stopcaporalato” e la richiesta ai capogruppo di Camera e Senato di farsi portavoce di una legge di modifica del codice di procedura penale per l’introduzione del reato specifico di intermediazione illecita di lavoro, con una pena dai 5 agli 8 anni e una multa di 2 mila euro per ciascun lavoratore reclutato. Attualmente, infatti, i caporali solo perseguibili solo per via amministrativa, come sfruttamento di manodopera irregolare, o penale nell’ambito dell’utilizzo di lavoro nero. Per cui (a parte in caso di coinvolgimento di minori) i responsabili sconterebbero pene lievi o una sanzione di 50 euro per ciascun lavoratore reclutato. Solo in caso sia riscontrata la riduzione in schiavitù il regime sanzionatorio si aggrava; ma in certi settori il sistema dell’intermediazione è tanto radicato che spesso viene a mancare la coercizione del lavoratore. A questa mobilitazione il governo ha risposto con l’articolo 12 del decreto legge dello scorso 13 agosto, la cosiddetta ‘manovra di Ferragosto’. Un testo stringato, che, con l’introduzione del reato 603 bis, mette a fuoco solo una parte delle ampie dinamiche di cui si nutre il caporalato. Il governo tralascia ad esempio sanzioni per le imprese che utilizzano lavoro reclutato dai caporali: un aspetto ribadito non solo dalla Cgil ma anche da un disegno di legge depositato in Senato lo scorso marzo da uno schieramento bipartisan. In entrambi i casi si vorrebbe, per i titolari d’impresa complici, la reclusione da tre a sei anni e una multa da 1000 a 2 mila euro per ogni lavoratore impiegato con l’intermediazione illegale.

Campagna “Stopcaporalato”
Va diretto al cuore della questione politica Walter Schiavella, segretario nazionale della Fillea-Cgil e firmatario della campagna “Stopcaporalato” insieme a Stefania Crogi della Flai: «Siamo contenti che dentro a una manovra inaccettabile sia stata almeno riconosciuta la validità di una nostra campagna. Ma c’è un ‘ma’ gigantesco, che ruota intorno alla parola coerenza. Quando a gennaio lanciammo infatti la campagna per l’inasprimento del reato di caporalato – spiega Schiavella -, l’ex ministro del lavoro Sacconi replicò che questo problema in Italia era superato perché esisteva già una sanzione penale. Vero, un’insufficiente ammenda di 50 euro. Poi, a quanto pare, ha dovuto riconoscere che avevamo ragione. In secondo luogo vorrei sottolineare come questo provvedimento sia poco credibile. Prima di tutto per un problema di merito: non c’è infatti un quadro adeguato di strumenti per un’applicazione sostanziale. Se nel dl non si parla di sanzioni per le imprese che utilizzano lavoro intermediato illegalmente, quali saranno, con i tagli agli enti locali e al comparto della sicurezza, le possibilità di intervento diretto su quello che ormai è un canale di reclutamento della manodopera sempre meno macroscopico, che utilizza piuttosto forme subdole e “grigie”, come società di cooperazione, nuovi strumenti informatici, imprese fittizie che gestiscono solo la manodopera? Questi sono terreni che hanno bisogno non solo di un potenziamento e affinamento delle risorse di chi fa attività repressiva, ma anche deterrenti per le aziende. Per colpire infine le infiltrazioni mafiose che gestiscono l’intermediazione illecita o la stessa produzione».
Una grande parte dei lavoratori nelle mani dei caporali sono immigrati irregolari. Per questo nella campagna di Fillea e Flai si propone di introdurre clausole di salvaguardia per coloro che vogliono denunciare gli sfruttatori; altrimenti non avrebbero interesse a farlo considerato il reato di clandestinità. Tuttavia nel disegno di governo non c’è ancora traccia di tutele in questo senso. «È così – riprende Schiavella - come dicevo prima, l’efficacia della norma si scontra con un quadro di strumenti incompleto. La persistenza del reato di clandestinità finisce per consegnare nelle mani dei caporali un bacino di lavoratori che si allarga con la crisi. Gli immigrati sono molto più degli italiani, proprio perché più facilmente ricattabili, destinati a un lavoro grigio o irregolare. Il provvedimento consegna così a questi schiavisti persone che nel momento in cui denunciano lo sfruttamento mettono a repentaglio perfino la loro presenza nel Paese, non solo il lavoro. Si tratta di una mancata applicazione di leggi europee secondo cui almeno chi denuncia questi fenomeni può inserirsi in un percorso di regolarizzazione. Qui tornano in causa le politiche migratorie che hanno caratterizzato il nostro Paese, condizionate da derive securitarie propagandistiche e xenofobe». Di qui l’insoddisfazione delle organizzazioni sindacali di settore di fronte alla posizione del governo. «La parzialità ed inefficacia del testo sul caporalato è una delle ragioni per cui la Fillea è scesa in piazza il 6 settembre – chiosa Schiavella -. Perché un provvedimento di contrasto all’intermediazione illegale non può essere dettato dalle opportunità dell’attualità (lo sciopero dei braccianti di Nardò ndr): per perseguire l’obiettivo c’è bisogno di una costruzione strategica. Per questo non fermiamo la campagna ‘Stopcaporalato’».

Caporalato e infiltrazioni mafiose
La figura del “caporale”, che la letteratura relega alla polvere delle campagne della prima metà del Novecento, è invece di stringente attualità. L’intermediazione illegale di manodopera è legata all’enorme peso economico che ha il lavoro nero in Italia, stimato intorno al 17% del Pil, contro una media europea del 14-15%. Il caporalato è un fenomeno che riguarda soprattutto l’edilizia, l’agro-industria e il settore della grande distribuzione e dei servizi. È un problema diffuso lungo tutta la Penisola, dalle zone di nuovo attecchimento, come nella raccolta delle mele in Trentino all’alta intensità di Sicilia, Campania, Calabria e Puglia. Passando per alcune grandi aziende di macellazione del modenese che esternalizzano a false cooperative di facchinaggio. E per la recente impennata degli “smorzi” nella Capitale, gli ingrossi per il materiale da costruzione; secondo le stime della Cgil Lazio, rari fino a pochi anni fa se ne contano oggi addirittura una quarantina, cresciuti sulla spinta di caporali che ogni mattina, prima delle 9, li usano come punti di riferimento per radunare lavoratori a giornata. Nei settori in cui il mercato del lavoro è più destrutturato è più facile l’infiltrazione della criminalità organizzata. La crisi è stata determinante in questo senso: la necessità di liquidità permette alle mafie di posizionare meglio le proprie imprese. Oppure le aziende, in un periodo di ristrettezza di finanziamenti, possono aver bisogno di “tagliare” i costi (e quindi i diritti) della manodopera. E le mafie possono assicurare queste condizioni. Le forme dell’intermediazione illecita non affondano più solo nel “nero”, ma si annidano in cooperative fittizie, caratterizzate da elusione fiscale e contributiva, dimezzamento dei salari a vantaggio dei “caporali” e totale assenza di diritti basilari del lavoratore. È la frontiera del “grigio”. Sulle cooperative di sfruttamento della manodopera ha eseguito un’inchiesta anche la direzione provinciale del lavoro di Milano, su avvio della Procura di Lodi. E da indagini depositate alla Procura di Milano si è evinto dell’uso delle cooperative da parte dei clan per riciclare denaro sporco, con false fatturazioni intestate a lavoratori stranieri e poi ritirate da prestanome. In Lombardia si registra un alta presenza di cooperative di facchinaggio irregolari destinate alla grande distribuzione. I cui “soci” non sono altro che dipendenti sfruttati, grazie agli spazi di mercato creato dall’outsourcing dei grandi marchi.

Un’economia “grigia”
È invece il segretario nazionale della Fillea-Cgil Walter Schiavella a descrivere il legame tra caporalato ed economia “grigia” nell’edilizia. «Si parta dal fatto che il lavoro edile è per sua natura temporaneo, legato all’attività di cantiere – spiega Schiavella –. Questo implica che l’organizzazione del lavoro per quanto industriali siano gli strumenti, non è mai ripetibile in maniera identica. In più si opera in un mercato governato dalla logica dei ribassi. Tutto ciò ha comportato una frammentazione delle imprese e, siccome non c’è una regolamentazione dell’accesso al mercato, ad una loro proliferazione: la produzione si realizza in una catena di subappalti, corrispondenti alle varie fasi della lavorazione. Nel privato, il 70% del mercato complessivo, ogni azienda gestisce in autonomia la divisione della produzione. Il che di per sé non sarebbe un problema, ma siccome la crisi morde e i controlli si riducono per la ristrettezza di risorse pubbliche, nascono società o cooperative di comodo. I lavoratori vengono cioè spinti a fare una loro impresa, che però non si occupa di alcuna mansione tecnica: porta solo manodopera e di fatto fa intermediazione. Per questo diciamo che ci sarebbe bisogno di colpire il ‘nero’ alla radice, con normative più stringenti negli appalti e per l’accesso all’impresa. Al contrario negli ultimi anni il settore è stato spinto verso la deregolamentazione». Secondo la Cgil le micro-imprese nell’edilizia italiana sono 828 mila, tra cui i muratori a partita Iva. Un esercito, di italiani e stranieri, tra cui è difficile, date le dimensioni, anche fare attività sindacale. Secondo molti il “peccato originale” continua a essere il massimo ribasso (fino al 60% sull’offerta di partenza). A quel punto se un lavoratore straniero nei mercati delle braccia qualche anno fa prendeva 50 euro al giorno, oggi arriva a 20-25 euro.

I numeri dello sfruttamento
I guadagni per il bracciante sono pressappoco gli stessi che in agricoltura, dove l’intermediazione illegale per il reclutamento di manodopera viene utilizzata prevalentemente per le raccolte stagionali. In cui i braccianti con un ingaggio regolare sono pochissimi. I prezzi per cassa di frutta o ortaggi variano a seconda del prodotto e dell’accordo con il caporale, che tiene per se fino al 50-60% del denaro pagato dall’azienda. Nella raccolta estiva del pomodoro, ad esempio, l’impresa paga intorno ai 10 euro a cassone per i pomodori grandi e 15 euro per il ciliegino. Ma i caporali possono lasciare al lavoratore anche solo 3,5 euro a cassa. In più, come ha più volte dichiarato Ivan Sagnet, giovane universitario al Politecnico di Torino e guida dei braccianti che hanno scioperato a Nardò, il caporale vuole 5 euro per il trasporto al campo, 3,5 euro per il panino del pranzo e 1,5 per un succo di frutta. È di fatto obbligatorio andare col pulmino e a comprare il cibo dagli intermediari, altrimenti non si lavora. Considerando allora che un bracciante può caricare in meda 6 o 7 cassoni di pomodoro al giorno e che parecchie volte si ferma a 4, il conto è fatto. Quello del trasporto è una parte integrante dell’azione e del potere dei caporali in agricoltura, vista la conformazione tipica delle azienda su poderi a volti distanti decine di chilometri. Per questo all’indomani dello sciopero alla masseria Boncuri organizzazioni sindacali e lavoratori hanno fatto pressione, purtroppo senza esito, che si facessero carico del trasporto le aziende. Inoltre durante la raccolta i braccianti sono costretti a subire anche angherie da parte dei caporali. Dopo le denunce di alcuni lavoratori di Nardò, la Dda di Lecce ha infatti aperto anche un’inchiesta sullo sfruttamento di migranti, con ipotesi di minacce ed estorsione. Per gli stranieri che lavorano nei campi scatta infine, ogni estate, l’emergenza dell’alloggio. Tanti i casi di accampamenti fatiscenti o l’occupazione spontanea di stabili abbandonati in cui cartoni o baracche improvvisate diventano l’unico giaciglio. Per una parte consistente dei migranti legati all’economia orto-frutticola del Sud questa condizione di vita dura fino a 9-10 mesi l’anno. Senza luce né acqua.
Insieme agli immigrati nelle mani dei caporali ci sono anche tantissime donne, il 40% dei lavoratori dell’agricoltura. A raccontarci di loro è Giuseppe De Leonardis, segretario regionale della Flai-Cgil Puglia: «Ora la maggior parte è impegnata nel Barese e nel Tarantino. A parte qualche presenza di rumene, sono per lo più italiane. Ne scendono ogni anno migliaia dalla zona di Brindisi e Lecce: arrivano in pullman e lavorano minimo 8-9 mesi all’anno. Perché tagliano, raccolgono e dispongono la frutta nelle cassette. Si tratta di un lavoro specializzato e dovrebbero prendere almeno 65 euro al giorno, ma se arrivano a 32-35 euro sono fortunate. A volte hanno un contratto, ma il sottosalario è ugualmente la regola e i datori di lavoro versano contributi per 20 giornate invece delle 70 lavorate, senza tutele». Anche qui il “grigio” e la fatica sono i colori prevalenti.
Eppure la Regione Puglia ha in gestazione, dal giugno scorso, un piano di incentivi da 350 milioni di euro destinato alla lotta al lavoro nero, controfirmato dalle organizzazioni datoriali e dei lavoratori. Il programma, condiviso dall’assessorato al lavoro, prevede agevolazioni per le aziende che stabilizzano l’occupazione e reimpiegano ex dipendenti e, quel ch’è più innovativo, regola l’introduzione sistematica delle liste di prenotazione negli uffici di collocamento per i braccianti. Una norma ad hoc per combattere il caporalato. In agricoltura infatti, una volta scomparse le graduatorie che un tempo regolavano il mercato del lavoro, non esistono più liste di disponibilità; al massimo richieste sulla base dello stato di disoccupazione. L’iniziativa pugliese potrebbe quindi essere un’utile novità. «Peccato che sia tutto ancora sulla carta – sottolinea De Leonardis -. Formalmente il provvedimento non è stato ancora preso. Ci si è limitati ad avviare una sperimentazione delle liste nel leccese all’indomani dello sciopero dei braccianti di Nardò». De Leonardis solleva anche un’altra questione: il controllo di legalità. «Mi duole ricordare che da gennaio ad agosto, nella regione, ci sono state solo 5 azioni ispettive nei campi – dichiara il sindacalista -. Anche i controlli fiscali latitano. Le aziende prendono incentivi europei, con sgravi fiscali fino al 38%, per colture come quella dell’anguria. Basta il riscontro di una denuncia falsa, per operaio comune invece che specializzato, perché scatti la sospensione. Eppure, in una tale situazione di illegalità, non ho mai visto un blocco dei finanziamenti. Stiamo cercando per questo di far almeno applicare la legge regionale 28 del 2006 che prevede l’introduzione degli indici di congruità nei controlli contributivi». La scarsità di controlli è stata denunciata anche dai lavoratori che hanno scioperato a Nardò. E a parlare del problema è stato il procuratore capo della Dda di Lecce, Cataldo Motta, in una recente intervista. «La scarsità di verifiche c’è sempre stata – ha dichiarato Motta a Bari Repubblica -, forse anche a causa dell’inadeguatezza del sistema generale di controlli preventivi e repressivi. Le nostre verifiche comunque ci sono state, perché le indagini sono partite anche indipendentemente dalle denunce». Dopo l’introduzione del reato penale di intermediazione illecita di lavoro sono stati arrestati, a fine agosto, due caporali nel Beneventano. Ma va da se che la necessità di verifiche ad ampio raggio rimane. Un esempio di sforzi congiunti tra Inps, Inail e forze dell’ordine è stato quello del «Piano straordinario di vigilanza per l’agricoltura e l’edilizia nelle regioni Sicilia, Calabria, Puglia, Campania» avviato nell’estate 2010 dal governo. Ma come hanno ricordato più volte i sindacalisti Crogi e Schiavella il programma aveva l’obiettivo di controllare un massimo di 10 mila aziende in territori dove solo di aziende agricole ce ne sono 600 mila: un po’ poco. Soprattutto di fronte ai risultati emersi alla fine dell’anno: irregolarità riscontrata in agricoltura per il 44% delle aziende ed il 49% dei lavoratori in nero; in edilizia irregolarità in oltre il 62% delle imprese e il 53% dei lavoratori in nero.

Conclusioni
A queste cifre, tradotte ogni giorno in criminalità, evasione e assenza di diritti, ha intanto risposto nell’estate appena conclusa un gruppo di lavoratori. I migranti della masseria Boncuri hanno preso in mano lo scoramento che aveva già destato i braccianti di Rosarno nel 2010 e ne hanno fatto lucida rivendicazione. Una determinazione che è costata loro minacce da parte dei caporali e rinunce a giornate di lavoro in una stagione per molti già povera (rispetto all’anno precedente il 50% circa delle angurie non sono state raccolte per effetto della concorrenza di Turchia e Grecia sul mercato europeo). Uno sciopero che ha mobilitato il prefetto di Lecce, la Provincia, le istituzioni regionali e le associazioni datoriali, fino al comune di Nardò che alla chiusura del campo prevista per il 31 agosto ha messo a disposizione 30 euro per ciascun lavoratore per affrontare le spese del trasferimento in un altra zona di raccolta o del rientro al Nord, dove molti dei migranti abitano. C’è da dire che quello alla masseria Boncuri è un terreno già votata alla sensibilizzazione ai diritti dei lavoratori. Fatto di tende e cresciuto attorno a una masseria, con l’attacco a luce e acqua e un presidio della Asl, lì da due anni si tiene il progetto “Ingaggiami contro il lavoro nero”, finanziato dal comune e mirato alla denuncia di sfruttamento e emersione dal ‘nero’. Impegnati ci sono l’associazione Finis Terrae e i volontari delle Brigate di solidarietà attiva (Bsa), organizzazione di intervento sociale nata in occasione dell’assistenza nelle tendopoli dell’Aquila. «Un paio di anni fa qui i veri ingaggi erano una decina su centinaia di lavoratori e riguardavano per lo più i caporali – racconta Oscar Monaco, attivista delle Bsa e militante del Prc -. Quest’estate invece siamo arrivati a oltre 200 ingaggi. Una vittoria. Almeno se ci sono irregolarità si può rintracciare l’azienda». «Ai migranti si deve una grande battaglia – ricorda il sindacalista Deleonardis -, ma non c’è solo Nardò. Penso al campo-ghetto di Rignano Garganico, dove in più di mille vivono in cartoni, con l’allaccio all’acqua garantito dalla Regione. Lì c’è un servizio di controllo sanitario di Emergency e un punto di formazione della Caritas. Grazie ai ragazzi di Nardò che sono venuti con noi, siamo riusciti a incontrare un centinaio di braccianti in assemblea, a cui ha partecipato anche l’assessore all’immigrazione. L’incontro è stato possibile». Da Rignano si sono mossi migranti anche per partecipare allo sciopero generale dello scorso 6 settembre. In attesa che le regole cambino dall’alto, l’esigenza di legalità forse si muove dal basso.

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