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Novembre-Dicembre/2011 - Articoli e Inchieste
Focus sulla campagna per la legalità
di

I temi trattati dalla Cgil sono tanti e tutti
importanti. Tra i più attuali ci sono l’economia
mafiosa, le irregolarità negli appalti, il lavoro
sommerso, l’evasione fiscale, il controllo
della legalità, la sicurezza e la sua percezione e la giustizia



Che cosa fare per la legalità? Come accrescere il rispetto delle regole in Italia? La Cgil lo scrive dettagliatamente nel documento che getta le basi per la campagna dal titolo “Legalità economica: l’unica risposta per il lavoro e il futuro”. Un pamphlet ricco di analisi e proposte utili alla contrattazione territorale, aziendale e nazionale mirato al contrasto dell’illegalità economica e destrutturazione dei diritti di cittadini e lavoratori. Nella convinzione dell’organizzazione sindacale che solo per questa via si possa ridare slancio all’economia del Paese, garantendo la tenuta democratica e la convivenza civile. A introdurre il documento programmatico della Cgil è infatti un contributo di Stefano Palmieri, del Dipartimento di politiche di coesione sociale e del mezzogiorno, che descrive la struttura portante di una vera e propria «Mafia Spa». «Grazie ad uno studio recentemente pubblicato dall'Università Bocconi, scrive Palmieri, è possibile individuare il “peso tradizionale” dell’economia criminale a quota 10,9 per cento rispetto al Pil. Se a tale quota si aggiunge poi il “sommerso fiscale”, stimato intorno al 16,5 per cento, il sommerso totale raggiunge una quota pari al 27,4 per cento del Pil. Sulla Sulla base dell’ultimo Rapporto SOS Impresa è stato stimato che il fatturato complessivo delle mafie ha raggiunto la cifra di 135 miliardi di euro, con un utile che raggiunge i 70 miliardi di euro al netto di investimenti ed accantonamenti». La prima componente sono i traffici illeciti, ricorda Palmieri. La voce più importante è quella del narcotraffico, seguita dal traffico di armi, dal contrabbando e dalla tratta degli esseri umani. Una seconda componente tradizionalmente importante per la Mafia Spa è rappresentata da quella che è definita delle “tasse mafiose”, con racket e usura. Il “pizzo”, sottolinea Palmieri, si è assistito a un salto di qualità, tanto da far parlare di “picciotti-taglieggiatori con la partita Iva”. Il “pizzo” si maschera così attraverso la fornitura di beni e servizi legali forniti a prezzi eccessivamente costosi. Con la crisi invece, secondo il Rapporto Sos Impresa, l’estorsione ha colpito nel solo 2009 oltre 200 mila commercianti sono stati colpiti con un giro di affari intorno ai 20 miliardi di euro. C’è poi l’altra componente consueta dell’attività predatoria, ma la seconda per ordine di importanza è rappresentata dall’infiltrazione nelle economie legali attraverso l’attività imprenditoriale. Una voce, questa, che ha perfino superato l’entità dei proventi derivanti da usura e racket, dato che si attesta, oramai, nell’ordine di 25 miliardi di euro.
Dall’analisi conoscitiva all’impegno, è così scaturito il cuore del documento per la legalità. La Cgil propone una serie di azione da promuovere attraverso la contrattazione sindacale in tutti i campi della vita economica e civile, passando per la sicurezza del territorio e dell’ambiente minacciata dalle ecomafie, fino alle politiche di welfare e dell’amministrazione pubblica. Di seguito proponiamo una sintesi di alcuni temi portati avanti dalla campagna.

Sistema degli appalti
La Banca d’Italia ha recentemente pubblicato uno studio sui forti rischi del sistema degli appalti pubblici in Italia: «di collusione, corruzione e rinegoziazioni successive con gli aggiudicatari dei contratti». L’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ha dal canto suo sottolineato che le principali criticità sono lo scarso livello concorrenziale, l’eccessiva litigiosità dei soggetti coinvolti, la sproporzionata durata dell’esecuzione dei contratti e un frequente ed immotivato ricorso a varianti che provocano un sensibile aumento dei costi contrattuali. Di fronte a queste constatazioni, dato l’interesse delle mafie per gli appalti pubblici confermato dal quadro emerso da recenti azioni repressive di forze dell’ordine e magistratura e data la portata del giro d’affari, attestato sul 6.6% del Pil, la Cgil consiglia: 1) l’evoluzione dei protocolli di legalità in protocolli quadro nazionali che prevedano obbligatoriamente una certificazione antimafia sotto soglia, la trasparenza finanziaria completa, il rispetto della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, sanzioni economiche garantite da fideiussioni bancarie in caso di violazione delle norme pattizie, la definizione di precisi impegni da parte dei sottoscrittori in modo tale che siano chiari tempi, modalità e responsabilità di ciascun soggetto e il monitoraggio dei flussi di manodopera. 2) Una riduzione dei tempi di pagamento da parte delle stazioni appaltanti. 3) Il contrasto ai ribassi eccessivi su base d’asta e il divieto che la società assegnataria subappalti ad aziende partecipanti alla gara. 4) Una formazione ad hoc dei funzionari e dirigenti che si occupano di gare d’appalto. 5) L’istituzione di stazioni uniche appaltanti. 6) La verifica della responsabilità dell’appaltatore sul subappaltatore in materia di regolarità del lavoro dipendente. 7) La ricerca di maggior trasparenza rendendo più stringenti le indicazioni del Codice dei contratti pubblici relativo a lavori, forniture e servizi. 8) L’introduzione di norme legislative più stringenti sul fronte della prevenzione vagliando una preselezione delle aziende vincolata a legalità e trasparenza per le assegnazioni senza gara di appalto pubblico. Magari attraverso white list e black list.

Lavoro sommerso
Secondo un censimento Istat del 2007 l’economia irregolare si attestava a quota 17% del Pil e riguarda il 12-14% dell’occupazione. Dopo la campagna del 2006, la Cgil aggiorna le proprie rivendicazioni in questo senso: intensificare l’attività di vigilanza a tutti i livelli territoriali e applicare in tutte le province il protocollo d’intesa per lo scambio dei dati in materia d’ispezione; costituire in tutte le regioni e province commissioni per le irregolarità contributive; porre maggior attenzione agli appalti per distacchi illeciti, in particolare in quelli pubblici, finalizzati a dumping contrattuale e dei diritti e contrastare il cosiddetto “lavoro grigio”, orientando il controllo verso aziende che usano contratti ‘precari’ e verso la falsa cooperazione.

Fiscalità, elusione ed evasione
Dal lavoro, con problematiche strettamente inerenti come il caporalato, si passa poi nel documento ad osservare le prassi dell’attività finanziaria e creditizia del Paese e il sistema fiscale, pietra d’angolo dell’uguaglianza economica e sociale che dovrebbe essere alla base della democrazia. Secondo il rapporto Cgil, dal confronto tra il sistema fiscale italiano e quello di altre realtà internazionali con simile struttura, si evince il peso eccessivo dell’Irpef sui redditi fissi, un’evasione di maggiore portata e la minore tassazione sulle rendite finanziarie. Ne risulta un sistema “sbilanciato”, ai primi posti in Europa per pressione fiscale sul lavoro, secondo Eurostat 2007 e ai primi posti nella classifica della disuguaglianza interna ai Paesi più sviluppati stilata sulla base dell’indice della concentrazione del reddito. L’evasione in Italia, secondo l’Istat produce circa 130 miliardi di euro di mancato gettito ogni anno, quasi il doppio di quella che si registra in Francia, Germania e Regno Unito, e quasi quattro volte quella presente in Austria, Irlanda e Olanda. L’Italia è seconda solo alla Grecia come presenza di economia sommersa. Inoltre la recente direttiva della Direzione dell'Agenzia dell'entrate, che riduce del 20% il target degli accertamenti nei confronti di imprese di piccole dimensioni e professionisti, non va nel segno di un potenziamento del controllo preventivo. Tenuto conto che l'attività di accertamento e lotta all'evasione nel 2010 aveva recuperato allo Stato 10,6 miliardi non appare sufficiente per «mantenere l'obiettivo monetario assegnato» come si vorrebbe. Visto che ci saranno, presumibilmente, 45 mila controlli in meno. Con ricadute sull'organizzazione del lavoro e sul controllo di legalità. Per ristabilire la legalità fiscale la Cgil propone i seguenti interventi: ampliamento del contrasto di interessi per invitare i cittadini a denunciare l’illecito; un potenziamento del ruolo degli enti locali e loro coinvolgimento nella strategia del contrasto all’evasione e, sempre in questo senso, un pieno utilizzo di tutte le banche dati in possesso della Pubblica amministrazione. Servirebbe inoltre approntare strumenti di controllo in grado di bilanciare il legittimo interesse dei contribuenti alla semplificazione degli adempimenti cui sono tenuti. Ad esempio rilanciando il meccanismo del “minimo imponibile”.

Controllo di legalità
In ogni ambito, per promuovere i comportamenti virtuosi e la loro forza esemplare, non si può ad ogni modo prescindere dal cosiddetto “controllo di legalità”. Secondo il sindacato per conseguire il rispetto della legalità si può partire dal rafforzamento del ruolo della Magistratura e del suo controllo di legalità fondato sulla obbligatorietà dell’azione penale. In linea con i dettami costituzionali bisognerebbe inoltre tutelare l’indipendenza della magistratura e, dunque, la separazione dei poteri dello Stato. Va ripristinata una azione di autotutela dello Stato attraverso strutture di lotta alla corruzione terze ed indipendenti rispetto all’amministrazione; mentre oggi esse sono diventate interne alla Pubblica amministrazione. È necessario approvare anche una legge contro la corruzione, mentre il decalogo di autoregolamentazione antimafia proposta dalla Commissione Antimafia va finalmente sottoscritto e adottato da tutti i partiti. Dopo l’evidente abbassamento, negli ultimi anni, dei livelli di legalità nel nostro Paese, i due versanti centrali per il controllo di legalità, quello giudiziario e delle forze di polizia, hanno bisogno di rapidi interventi di natura infrastrutturale e strategica. Con la salvaguardia delle intercettazioni come uno dei principali strumenti investigativi a disposizione della polizia giudiziaria e dei pubblici ministeri.

Sicurezza
Nel nostro Paese, si legge dal documento della Cgil, è cresciuto il senso di insicurezza dei cittadini. Lo dicono le indagini condotte sul tema da importanti istituti di ricerca socio-economica ma anche l’aumento della spesa degli italiani per la sicurezza privata. Tra le cause di questa crescita vi sono, sicuramente, fattori strutturali comuni a tutte le società occidentali, ma secondo la Cgil decisive, per l’Italia, sono state le scelte di governo di questi ultimi anni. Il tema della sicurezza è stato infatti trasformato in un efficace tema di campagna elettorale e di rafforzamento del consenso politico. Mentre alle parole non seguiti fatti. Non solo non è stato perseguito alcun programma di rafforzamento del sistema di sicurezza ma, in tre anni, con le manovre finanziarie del 2008 e del 2010 sono stati tagliati oltre 1 miliardo e 650 milioni di euro ai fondi delle forze di polizia. Tagli lineari, incapaci di distinguere tra sprechi e attività produttive, che hanno provocato la contrazione della capacità operativa del sistema, nonostante l’impegno, indiscusso, degli operatori. Emblematiche sono le maggiori difficoltà nel controllo del territorio, a causa della riduzione delle volanti in città come Roma e Palermo, ad alto rischio anche se per motivi diversi; a causa della chiusura dei presidi di polizia per mancanza di personale; dell’assenza di copertura radio per mancanza di fondi per le riparazioni degli impianti in aree a forte presenza mafiosa; persino per la mancanza, frequente, di fondi per la manutenzione dei mezzi. Una condizione condivisa anche dal settore delle investigazioni, dove l’inadeguatezza dei fondi per l’utilizzo degli strumenti tecnici d’investigazione, per lo straordinario e le missioni, condiziona pesantemente lo svolgimento delle indagini, anche sui reati più gravi. È in una condizione di minore capacità di prevenzione e repressione nel territorio che sono cresciuti i livelli di violenza urbana, specie nei confronti delle donne. Ed è nella stessa condizione di contrazione del sistema di contrasto alla criminalità organizzata che si sono rafforzate le mafie anche nelle regioni del Nord del Paese. Per questo secondo la Cgil si dovrebbe mettere in campo una nuova politica per la sicurezza, con un programma di investimenti per le forze di polizia. Puntando alla copertura delle vacanze di organico e alla redistribuzione del personale secondo indici aggiornati alla nuova mappa economica, sociale e criminale del Paese. Formazione e innovazione tecnologica dovrebbero essere i primi interessi di questo programma. Un più elevato livello di coordinamento delle forze di polizia resta la direttrice fondamentale di un modello, quello introdotto dalla legge n.121/1981, che garantisce ancora un alto grado di efficacia del sistema sicurezza. Va sostenuta l'iniziativa sindacale che il Silp promuove sulle politiche di riorganizzazione del comparto sicurezza, di una sua valorizzazione nelle attività di prevenzione e controllo piuttosto che di mero contenimento e repressione.

Giustizia
La Banca d’Italia ha recentemente evidenziato che «il problema della efficienza della giustizia civile andrebbe assunto come priorità in quanto le sue inefficienze si stima possano costare fino un punto di Pil l'anno; la durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni e colloca l'Italia al 157esimo posto su 183 paesi nelle graduatorie stilate dalla Banca mondiale; l'incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell'economia, oltre che di ingiustizia». Per questo la Cgil propone che si operino riforme del settore che vadano verso una maggiore efficienza ed efficacia del sistema, ma si receda dalle modifiche dell’ordinamento giurisdizionale fin qui avanzate. Perché intaccano l’autonomia della magistratura dall’esecutivo, con modifiche peraltro rinviate a leggi ordinarie e quindi soggette al volere del governo di turno. Stessa tendenza negativa si riscontra sul piano del lavoratori. Il contratto integrativo, non sottoscritto dalla Cgil, bensì dalla minoranza delle organizzazioni sindacali e dall’Amministrazione comporta una diminuzione del 60% delle figure di cancelliere e ufficiale giudiziario, con mortificazione delle professionalità ed evidenti danni all’utenza. I cittadini italiani hanno diritto ad ottenere decisioni certe ed efficaci, in tempi ragionevoli. I tagli del governo alle spese di giustizia e alle dotazioni organiche aggravano una situazione già drammatica. La riforma del processo civile, con la semplificazione dei riti ed il processo civile telematico dovrebbero essere punti nodali da cui partire. Sarebbe altrettanto importante una revisione delle circoscrizioni giudiziarie con la soppressione degli uffici giudiziari minori.
Questi ed altri ambiti possono essere approfonditi grazie al rapporto sulla legalità in Italia scaricabile al link: http://www.cgil.it/Archivio/LegalitaSicurezza/Documento_campagna_legalita_economica.pdf

Focus codice etico

Il codice etico o di condotta è un documento elaborato su base volontaria che esprime gli impegni che un’azienda assume nei confronti di tutti gli stakeholder, cioè tutti coloro che hanno un interesse nell’attività dell’impresa. È un mezzo a disposizione delle imprese per prevenire comportamenti irresponsabili o illeciti da parte di chi opera in nome e per conto dell’azienda, perché introduce una definizione chiara ed esplicita delle responsabilità etiche e sociali dei propri dirigenti, quadri, dipendenti e, spesso, anche fornitori verso i diversi gruppi di stakeholder. Un buon codice etico deve individuare, seppur con modalità differenti, la mission dell’organizzazione, i principi etici da seguire per l’attuazione della stessa, le norme di base per la messa a regime delle relazioni tra l’azienda e i propri stakeholders, gli standard etici di comportamento o “casi critici” per cui vengono suggerite soluzioni opportune e infine le sanzioni da applicare in caso di violazione dei principi etici enunciati.
Il codice etico è solo una delle pratiche socialmente responsabili che un’azienda può mettere in campo nell’ambito di una strategia di sviluppo e profitto sostenibile. Secondo il Libro verde della Commissione europea (luglio 2001), documento capitale per l’avvio di un vero e proprio dibattito all’interno dell’Unione, per responsabilità sociale si intende «l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate». Si individua così il campo di applicazione della responsabilità sociale tanto dal punto di vista della dimensione «interna» - gestione delle risorse umane, tutela di salute e sicurezza, adattamento alle trasformazioni nelle ristrutturazioni aziendali e gestione degli effetti sull’ambiente - quanto di quella «esterna» - rapporti con le comunità locali, costruzione di partnership commerciali, rapporti con fornitori e consumatori, rispetto dei diritti umani nella catena di fornitura e preoccupazioni ambientali. Non a caso secondo la più avanzata prassi internazionale gli stakeholder di riferimento, per la compilazione di un codice etico, sono: risorse umane; soci o azionisti; clienti; fornitori; partner finanziari; Stato, enti locali e pubblica amministrazione; comunità; ambiente.
Questo modello di Csr (corporate social responsability), oggi assunto in modo prevalente dagli standard internazionali, ha tuttavia una caratterizzazione europea. E non è l’unico. Secondo uno studio del ministero del lavoro e delle politiche sociali e del Fondo sociale europeo, per comprendere appieno dove e perché la Csr si sia diffusa e quali forme abbia assunto a seconda del modello economico-sociale di riferimento, occorre differenziare i diversi modelli di capitalismo in Europa e in America, a partire dagli anni ’80. È possibile distinguere tre ‘idealtipi’: market driver, renano e autoritario. Nel modello ‘market driver’, diffuso negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, dove grande è l’autonomia delle imprese e l’attenzione ai diritti degli stakeholder, la Csr è stata concepita come prassi volontaria volta a bilanciare a favore degli stakeholder le condizioni di mercato. Nel modello ‘renano’, adottato in Germania, Austria, Svizzera, Olanda e nei Paesi scandinavi, le imprese, sottoposte all’azione di controllo sulla sostenibilità sociale delle loro decisioni e sulla tutela dei diritti dei lavoratori da parte dei sindacati, devono farsi carico di rapporti privilegiati con lo stakeholder lavoratore, avvertendo in misura minore la necessità di affermare prassi di Csr. Il modello del capitalismo autoritario invece tipico delle economie orientali, è ancora lontano da un’attuazione diffusa del concetto di Csr. Tra questi modelli storici si è posizionato quello promosso dalla Commissione europea dalla fine degli anni ’90 e seguito dall’Italia negli ultimi dieci anni. Gli strumenti della responsabilità sociale così intesa sono il codice etico, il bilancio sociale (che in Italia, a differenza di altri Paesi europei, non è obbligatorio) e il cause related marketing, l’uso dell’azienda di stringere partnership con organizzazioni no profit o di impegnarsi per cause di utilità sociale. All’estero è molto diffuso anche il volontariato d’azienda, legame tra l’impresa e il terzo settore.
Importante è ad ogni modo capire che non tutti i codici etici o di comportamento sono uguali. Le forme, e l’incisività, variano a seconda di alcuni fattori. Innanzitutto la modalità di adozione: per singole imprese o interi settori. Nel secondo caso si tutela una platea di stakeholder più ampio, che fa riferimento a più aziende. I codici etici di settore sono particolarmente diffusi nella produzione di beni di consumo, dove i portatori d'interesse finale, i consumatori o clienti, hanno un peso numerico importante nella richiesta di garanzie omogenee. È il caso dei codici etici di categoria o stipulati da consorzi di produttori dello stesso bene. Si veda il codice etico di Confindustria, a cui molte delle federazioni e imprese associate si sono conformate. In Italia si tratta di una best practise: molte altre associazioni di categoria infatti non hanno un codice di condotta. E questa mancanza si riflette su più larga scala per le pmi e imprese artigianali. Eccezione fatta per le imprese legate a grandi cooperative o ai consorzi alimentari, interessati ad accreditare la loro affidabilità tutelando compatti l’interesse alla salute del cliente.
I codici etici si differenziano anche per l’ambito coperto. Si può andare dalla tutela dei diritti umani e lavorativi, all’ambiente, alle garanzie per gli azionisti fino alla prevenzione della corruzione. I principi Ocse sulla responsabilità dei consigli di amministrazione, ad esempio, indicano di applicare alti standard etici, che tengano conto di tutti gli stakeholder. In Italia, il codice di autodisciplina Preda per le società quotate in borsa, ideato nel ’99 e aggiornato nel 2002 e nel 2006, riflette ancora solo il focus tradizionale sugli azionisti e i rapporti con gli investitori. Mentre in Inghilterra, il Turnbull report, per l’attuazione dei controlli interni previsti dalla legislazione locale, prevede che i consiglieri di amministrazione tengano conto anche di rischi ambientali e sociali. Un passo in più, per società a forte carattere finanziario, verso la convergenza d’interessi che sta alla base di uno sviluppo sostenibile.

Credibilità del codice
Come si ricorda nel volume “La responsabilità sociale d’Impresa”, curato nel 2003 dal Sole 24ore con la fondazione Sodalitas, affinché il codice sia credibile la Commissione europea raccomanda che:
- Si rispettino almeno gli standard dettati da autorevoli punti di riferimento come le Convenzioni fondamentali dell’Organizzazione internazionale del lavoro, le linee guida Ocse per le multinazionali o il Global Compact dell’Onu.
- I codici includano meccanismi adeguati per la valutazione e verifica dell'attuazione; oltre a un sistema di conformità, l'illustrazione cioè di quali norme, metodi o leggi si siano seguite nella composizione del codice.
- Si preveda il coinvolgimento degli stakeholder nell’elaborazione del testo, per la sua implementazione e per il monitoraggio. Un buon esempio di processo partecipato è la ‘Carta di Integrità di Unicredit’, nella cui formulazione è stato coinvolto il personale.

Responsabilità giuridica
A favorire la diffusione del codice di condotta in Italia è stata l'entrata in vigore, nel 2001, del decreto legislativo “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300". Le disposizioni si applicano agli «enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di di esseri umani e omicidio colposo» (dall’articolo 24 al 25 novies). Ma il decreto prevede anche che all’impresa basta avere un codice etico, seppur dai contenuti minimi, ma con riferimento ai comportamenti dei reati considerati, per essere esonerata dalle sanzioni amministrative derivate dalle responsabilità penali. Il codice etico è considerato infatti base sufficiente di un sistema di controllo preventivo; a condizione che rispetti standard di conformità e sia attuato correttamente. Da questo presupposto deriva il cosiddetto “Modello 231”, un modello di codice approvato dallo Stato. L’effetto di incentivo all’adozione del codice etico avuto dal decreto 231 ha avuto un precedente negli Stati Uniti, negli anni ’90. L’emanazione delle Federal Sentencing Guidelines in merito alla gestione e prevenzione di comportamenti non-etici a livello aziendale ha infatti fatto sì che alla fine del decennio il 93% delle maggiori aziende Usa si fosse dotato di un codice di condotta.

Salvaguardare le credibilità
Pur nascendo la responsabilità sociale da una riflessione prettamente economica negli anni ’20, quando i teorici iniziarono a interrogarsi sulla sostenibilità dello sviluppo, di fatto il filone etico di quella speculazione dialoga profondamente con i principi di legalità. Come si legge, tra gli altri, nel codice etico di Confindustria, il il codice non trascura la convenienza economica, perché i comportamenti etici servono a salvaguardare la reputazione e la credibilità dell’associazione di categoria, dei soci e della classe imprenditoriale. Ma la correttezza nelle relazioni e la trasparenza sono i presupposti etici per il rispetto delle regole civili. Qui sta la ricaduta positiva, sociale e ambientale, dei codici etici: nell’assimilazione quotidiana di principi di responsabilità. Per questo i documenti internazionali consigliano un’ampia partecipazione del personale dell’ente o azienda alla formulazione dei decaloghi, perché i contenuti siano più radicati possibili. Alla stessa finalità è mirata la formazione che dovrebbe accompagnare l’adozione del codice di condotta; in passato il Fondo sociale europeo vi ha destinato anche specifici filoni di investimento. Il processo di audit interno, invece, dovrebbe rafforzare le garanzie di stabilità e legittimità delle relazioni. Per questi teorici effetti benefici i codici etici sono stati adottati, anche in Italia, da pubblica amministrazione, enti locali e partiti; perché anche lì ci sono illeciti da evitare e una credibilità da salvaguardare, con vantaggi a tutti gli effetti economici.
Anche in tempi di crisi, dicono gli studiosi, quelle spese che le aziende destinano alla responsabilità non sono inutili. Perché lo stilare un dettagliato “contratto sociale” con gruppi d’interessi diretti e indiretti procura vantaggi in termini di fiducia. E quindi attrattività nei confronti di nuovi stakeholder. Oltre che garanzie di non incappare in costi dovuti a illeciti.
Naturalmente queste dinamiche virtuose funzionano solo laddove la trasparenza sia eletto a discrimine di autorevolezza e credibilità per ente o azienda che sia. Una variabile dal peso non indifferente in Italia. Motivo per cui forse ci si continua a chiedere se i codici etici siano sufficienti a destare il senso civile e la legalità. Se così non fosse il problema potrebbe essere all’esterno, in una società che tende a rifuggire valori di eticità e rispetto delle regole. Eppure se i codici non dovessero bastare a imprimere eticità (perché i vincoli di vigilanza interni non funzionano o ci sono fronde di resistenza all’applicazione) le prassi internazionali suggeriscono ulteriori baluardi di garanzia. Non solo un monitoraggio per settore, periodico e più stringente delle tendenze nazionali in materia di conformità agli standard minimi; il che potrebbe già aiutare a creare una sensibilità diffusa e la stigmatizzazione delle peggiori performance. Ma una serie di certificazioni internazionali di conformità, con validi controlli sull’attuazione dei requisiti per averli: la certificazione sociale Sa8000, il network Grid, lo Standard AA1000, la più nota Iso, la Societé generale de surveillance. Si tratta di piattaforme che richiedono strategie di sostenibilità integrate, promuovendo l’attuazione di più strumenti di responsabilità. La loro diffusione permetterebbe oltretutto di confrontarsi con l’estero su un piano di competitività comune e lo Stato, come stakeholder, potrebbe incentivarli. Non è l’unica praticabile per migliorare il senso etico del Paese, ma (a grandi linee) questa è una delle vie tracciata dalla teoria della responsabilità sociale.

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