Un viaggio lungo un anno che mira ad innervare
la società dei lavoratori e delle lavoratrici di uno spirito
di coesione che sembra smarrito nel Paese. Una tavola rotonda
organizzata dalla Cgil che si è occupata di mafie, diritti, immigrazione
e solidarietà. Presenti il segretario generale Susanna Camusso, il segretario
confederale Serena Sorrentino, il magistrato Raffaele Cantone, il presidente
della rete di associazioni Libera, don Luigi Ciotti
e il presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello
«Esistono risorse nel nostro Paese che vengono dai proventi dell’economia illegale e da economie illecite che possono essere utilizzate per costruire un altra manovra economica, di segno opposto a quella del governo». È con questa convinzione che nell’estate rovente della crisi finanziaria e nell’urgenza della stabilizzazione nazionale la Cgil ha presentato la campagna per la legalità economica. «Legalità: l’unica risposta per il lavoro e il futuro» è la frase che campeggiava sui cartelloni pubblicitari dell’iniziativa. Non solo uno slogan ma la ponderata conclusione di un’analisi impietosa dell’economia sommersa e criminale italiana, che fattura 135 miliardi l’anno (Rapporto “Sos Impresa”). Alla luce di questi dati e di fronte a una stagione di crisi economica e sociale sempre più preoccupante, la Cgil ha elaborato un percorso di uscita dall’illecito e dal “brodo di coltura” dell’illegalità in ogni ambito della vita civile, con azioni di responsabilità e proposte normative. «Ci occuperemo dell’intero ciclo economico – ha affermato il segretario confederale Serena Sorrentino presentando la campagna -, aggredendo, attraverso la contrattazione aziendale, territoriale e anche nazionale, quei fronti in cui il controllo di legalità è più esposto e dove è più eversivo il processo di deregolamentazione portato avanti negli ultimi anni dal governo. Un processo che rende meno certi i diritti del lavoro e crea le ‘zone grigie’ in cui è più facile la penetrazione delle organizzazioni criminali nel mondo dell’economia legale. Rendendo i lavoratori meno liberi e i cittadini meno sicuri».
La prima tappa di questo percorso «di coerenza dei nostri comportamenti civili e sociali», come l’ha definito la Sorrentino, sarà la formazione specifica di un centinaio di delegati. In collaborazione con l’Istituto superiore di formazione della Cgil si creerà così un nucleo di esperti su norme, procedure e regolamentazioni in tema di legalità per avviare una prima ricognizione di tutta la contrattazione. È poi nelle intenzioni della confederazione provvedere tra un anno a fare il bilancio di quanto ottenuto. Tenendo conto che fin d’ora di alcuni capisaldi: il ripristino della legge 188/07 contro le cosiddette dimissioni in bianco; la cancellazione della legge 189/02, meglio nota come legge Bossi-Fini; la revisione di tutte le leggi e le norme che rendono il lavoro instabile, precario e meno sicuro; l’approvazione della proposta di legge della Cgil sul caporalato, promossa con la campagna ‘Stop caporalato’ di Flai Cgil e Fillea Cgil; una politica coordinata sul controllo di legalità in tutto il ciclo economico pubblico e privato in cui tracciabilità e prescrizione sulla regolarità dei procedimenti siano assunti come punti di forza nella lotta alle mafie; affrontare la riforma della giustizia con un processo condiviso dagli operatori e ripristinare il rispetto dell’azione della magistratura e dei lavoratori pubblici come valore condiviso di fiducia verso l’azione pubblica; infine abolire le leggi premianti dei comportamenti non virtuosi, dai condoni all’elusione.
Il richiamo alla legalità mira anche ad innervare la società dei lavoratori e delle lavoratrici di uno spirito di coesione che sembra smarrito nel Paese. «Dobbiamo unire le forze» è il primo appello che lancia la Cgil. Perché “La legalità rappresenta la condizione imprescindibile per garantire al Paese tenuta democratica, convivenza civile e sviluppo economico – recita il documento programmatico che accompagna l’iniziativa -. È quindi nostra intenzione dare a questo impegno un’impronta che sia al tempo stesso rigorosa ed unitaria. Vogliamo cioè guardare oltre i confini con i quali si definiscono tradizionalmente le diverse rappresentanze sociali ed economiche, le organizzazioni di diversa ispirazione culturale, religiosa e politica». Una dichiarazione di intenti che dà la misura della stagione politica inaugurata.
Legalità economica: dal territorio all’impresa, un’altra idea di sviluppo
La campagna per la legalità economica è stata presentata dalla confederazione sindacale con una tavola rotonda che si è tenuta a Roma nel luglio scorso, poche ore prima che al Senato fosse convertito in legge il primo dei due decreti di manovra finanziaria firmati da Tremonti durante l’estate. Una coincidenza non casuale, con cui il segretario generale Susanna Camusso ha voluto evidenziare la «relazione profonda tra l’idea che ci deve essere legalità e l’impegno che avremo nella manovra economica e le questioni più generali del lavoro e del Paese. La campagna per la legalità non è una parte a sé, è un pezzo della nostra idea delle possibilità di cambiamento e di avere la crescita. Perché la criminalità cresce dentro a un contesto di assenza di lavoro, in presenza di condizioni economiche negative e di condizioni sociali che diventano non la traduzione dei diritti delle persone ma la ricerca di un favore o di una risposta». È proprio questo il rischio a cui secondo il segretario è esposto il Paese di fronte alle scelte economiche del governo: «Scelte che intervengono sull’attuale situazione economica senza aprire nessuna strada di crescita e costruzione del lavoro. E così va avanti chi difende la propria impresa o le condizioni della propria famiglia rivolgendosi a un mercato parallelo a quello formale, un altro mercato del denaro, del lavoro e dal punto di vista di regole e leggi»: quello della criminalità.
Delle condizioni sociali e politiche in cui proliferano le attività economiche delle organizzazioni criminali hanno per lo più discusso gli ospiti della tavola rotonda di presentazione, dal titolo “Legalità economica: dal territorio all’impresa, un’altra idea di sviluppo”. Nell’ordine hanno portato il loro contributo personaggi rappresentativi del contrasto alle mafie, quali il magistrato Raffaele Cantone, il presidente della rete di associazioni Libera, nomi e numeri contro le mafie don Luigi Ciotti e il presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello.
Il sindacato e le mafie
«Quello che per l’antimafia può fare il sindacato, o i corpi intermedi, è molto di più di quanto possano fare cento indagini dell’attività giudiziaria o delle forze di polizia - a cui va il nostro ringraziamento per quello che fanno ogni giorno». Così ha esordito il Cantone. «L’antimafia deve essere prima di tutto antimafia culturale, uno sbarramento economico» ha sottolineato il magistrato, già pubblico ministero di punta della Dda napoletana e ora giudice del Massimario della Cassazione. «Ringrazio quindi tutta la Cgil per questo impegno assunto con la campagna – ha ripreso Cantone -. Un ruolo che, mi permetta il segretario Camusso, finalmente riscatta anche comportamenti del sindacato degli anni ‘80 che paradossalmente finivano involontariamente per favorire la mafia. Quante volte in Sicilia, tra gli anni ‘80 e inizio anni ’90 ci sono state manifestazioni per il lavoro che contrastavano sequestri o indagini che venivano effettuate nei confronti delle imprese. Vi era infatti un’idea, per fortuna oggi superata, che il lavoro andasse tutelato in quanto tale e non il lavoro che fosse frutto e prodotto dell’impresa pulita. Perciò questa è una rivoluzione copernicana, che rappresenta una grandissima speranza per il futuro. Perché la legalità, così come dice il documento della campagna Cgil, è la condizione imprescindibile per la tenuta democratica, la convivenza civile e lo sviluppo economico». È sul fronte del mercato, anche quello legale, che le organizzazioni criminali insidiano la stabilità democratica. Un ruolo sempre più importante sta assumendo in questa direzione quella che Cantone ha più volte definito la “borghesia mafiosa”. Il magistrato che fino al 2007 si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi ha infatti spiegato: «Negli ultimi anni, lo dicono gli esiti delle indagini giudiziarie, la mafia ha cambiato pelle, ha abbandonato la tradizionale mise di coppola e lupare. A cominciare dalla Sicilia del dopo stragi si è sempre più occupata di attività economica. Sparava meno, era molto meno visibile alle Forze dell’ordine e metteva al centro lo svolgimento dell’attività imprenditoriale. È perciò cambiato in modo nettissimo il rapporto tra mafia e imprese. In passato era diffusa l’immagine comoda, manichea, delle imprese buone vittime della mafia e dei mafiosi cattivi che andava a chiedere il pizzo. Era l’approccio più semplice e banale che permetteva di individuare nell’estorsore il cattivo della situazione. Oggi invece ci sono rapporti di interrelazione che spesso fanno sì che siano le imprese stesse che vanno a cercare i mafiosi. Oggi non è assurdo dire di un rapporto di “mafia service”, una mafia in grado di trovare soluzioni a 360 gradi agli imprenditori che vanno a investire al Sud e non solo. Le organizzazioni criminali possono garantire denaro semplice, pace sindacale nei cantieri e quote di penetrazione nei marcati, certezza che nei cantieri non verranno fatti furti o danneggiamenti e assicurare l’introduzione nei sistemi istituzionali che permettono di superare le barriere. Non si tratta solo di edilizia, ma soprattutto del terziario e della grande distribuzione. Questa mafia ha cambiato ambito e si è imborghesita. È rappresentata da nuovi volti, dai cosiddetti “uomini cerniera”. Ricordo l’episodio ultimo di Napoli solo a titolo di esempio. Siamo incappati in un rappresentante imprenditoriale, titolare di una catena di ristoranti che frequentava gli ambienti della Napoli che conta e quando è stato arrestato era a Miami con un campione del mondo del calcio. Si tratta di un uomo che riesce a interloquire con tutti i settori. Ma dalle intercettazioni si comprende che è il principale investitore di un gruppo mafioso. E c’è una caratteristica che è la vera novità di quest’indagine: si capisce che è un investimento che dal piano della remunerabilità comporta un bassissimo vantaggio. La camorra ottiene non più del 4% annuo, una percentuale ridicola. Le mafie hanno infatti capito che esistono settori come la ristorazione e i servizi in cui è assolutamente facile fare grossi guadagni con pochissimi rischi, soprattutto utilizzando questi uomini cerniera, capaci di legare mondi diversi. Sono uomini vicini a esponenti delle Istituzioni integerrimi e della lotta alla mafia, calciatori, soggetti che utilizzano la parola della legalità ogni giorno. Questa borghesia mafiosa che nel breve periodo non fa danni all’economia ma anzi appare un vero e proprio moltiplicatore economico del sistema delle relazioni economiche, nel lungo periodo però cambia tutto. Le mafie operano con la logica della trimestrale di cassa. I mafiosi sanno che non hanno futuro e lavorano nell’ottica del guadagno immediato. Per questo anche se volessimo essere cinici e dire che gli investimenti mafiosi portano ricchezza, non sarebbe vero. Per la semplice ragione che i mafiosi non guardano al futuro: un sistema che alla lunga rischia di essere dannosissimo per le relazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali.
Fatta questa premessa la reazione delle Forze dell’ordine e della magistratura avviene quando il reato è commesso, con i tempi della giustizia italiana che sono notoriamente tempi lunghi e la difficoltà di dover individuare spesso ipotesi di reato in questi comportamenti il cui colore è grigio, non è né nero né bianco. È qui che possono svolgere un ruolo fondamentale i corpi intermedi, attraverso ad esempio il meccanismo di stigmatizzazione delle mafie, della valutazione sociale in termini negativi di chi svolge questa attività, ma anche la richiesta forte di regole preventive. Esiste la necessità assoluta di intervenire prima. Attraverso quelle strutture sociali intermedie che possono fare tantissimo. Il riferimento è ad esempio agli ordini professionali. Ma quanti architetti, avvocati, ingegneri, medici condannati per mafia o che hanno avuto rapporti incestuosi con la mafia o che hanno fatto parte di cricche continuano a stare al loro posto, a volte anche con cariche rilevanti? Pensiamo al riguardo quel che può fare anche un meccanismo di stigmatizzazione formale come quello di Confindustria Sicilia. È un risultato importante, che segna una volontà di cambiare».
Confindustria, codice etico e lotta alla mafia
Dal gennaio 2010 Confindustria ha adottato per le associazioni del Mezzogiorno norme speciali di attuazione del codice etico che prevedono l’obbligatorietà della denuncia per quegli associati che subiscono estorsione o siano vittime di altri delitti che direttamente o indirettamente limitano la loro attività economica a vantaggio di aziende o persone riconducibili ad organizzazioni criminali. Si arriva inoltre a prevedere l’espulsione dalla confederazione per i titolari d’impresa condannati e passati in giudicato per associazione di tipo mafioso o favoreggiamento delle attività di organizzazioni criminali e i cui beni siano stati confiscati in via definitiva. In caso invece di avvio di misure di prevenzione, cautelari e processi penali per gli stessi delitti gli associati vengono sospesi. La delibera del 2010, promossa dalla commissione Mezzogiorno della confederazione, ha rappresentato un significativo cambiamento nell’impegno formale contro la mafia da parte degli industriali.
Fino a poco più di un anno prima infatti, il codice etico si limitava a vietare solo l’accesso alle cariche agli associati condannati in secondo grado per reati lesivi dell’immagine della confederazione, tra cui la partecipazione ad attività malavitose. L’accelerazione al contrasto dell’illegalità a cui si è assistito negli ultimi anni, attraverso la corresponsabilità dei soci, è invece partita proprio da Confindustria Sicilia, di cui Lo Bello è da anni mente vivace e dal 2009 presidente. Interrogato alla tavola rotonda della Cgil sulla validità dei codici etici associativi, Lo Bello ha precisato: «I codici etici sono un pezzo della risposta alla lotta alla mafia. L’autoregolamentazione interna, con sanzioni e stimoli ha effetti sul nostro mondo ma da solo non è risolutivo delle problematiche della lotta alla mafia. Diciamo che è stato un ottimo inizio che ha determinato un cambio significativo: ha bisogno di essere affiancato da altre questioni. Nel vostro documento, voi avete toccato tre questioni: garantire al Paese tenuta democratica, sviluppo economico e convivenza civile. Ecco mi sembrano tre questioni fondamentali che rappresentano un pezzo che va oltre il codice etico o altre forme di autoregolamentazione. Perché noi non dobbiamo fare l’errore di pensare che la mafia si autoriproduce a prescindere dalle condizioni economiche e sociali. Ridurre la mafia a un problema culturale e antropologico è riduttivo e consolatorio. Invece la dimensione culturale nel Mezzogiorno convive con precise condizioni economiche e sociali. E se guardiamo alle politiche economiche e sociali degli ultimi anni, dalla fine degli anni ‘50 a oggi, dopo la breve stagione del secondo dopoguerra, il modello prevalente è stato assistenziale e clientelare. Non che puntasse sulla crescita. Dentro questo modello, che ha annullato tutti i valori che generano ricchezza (cultura del lavoro, la responsabilità, l’interesse generale), sta gran parte della forza che ha avuto la mafia fino a oggi. Ed è con questo che si deve misurare la società.
È vero che abbiamo acquisito in questi ultimi anni una qualità investigativa e repressiva di contrasto alla mafia molto forte. È stata seguita in parte da un pezzo di società, ma in piccola parte da un pezzo di politica. Non ha trovato cioè ancora quelle fortissime alleanze sociali e politiche che possono poi portare a un contrasto più forte del sistema economico. Quando noi di Confindustria abbiamo varato il nostro impegno abbiamo detto essenzialmente che vogliamo essere responsabili, perché si deve lavorare sul mutamento delle condizioni economiche e sociali. Questa è infatti una responsabilità che non si può assumere la magistratura o le Forze dell’ordine. Dovrebbe farlo la società e la politica e invece la politica meridionale è in enorme ritardo. Non voglio generalizzare: ruoli importanti di governo, dove vengono prese decisioni strategiche per i territori, sono in grande ritardo. Non solo rispetto all’azione dello stato ma anche rispetto a un risveglio delle realtà sociali.
È che su questo tema dobbiamo misurarci anche con la categoria delle convenienze. Convenienza non significa abdicare a un dovere civile o non avere passione civile. I grandi cambiamenti si fanno quando si incontrano passione civile, senso dell’etica pubblica e anche convenienze economiche. La nostra svolta, e il numero di imprese che abbiamo convinto a seguirla, è dipesa ovviamente dal recupero della dimensione civile ma anche dal fatto che le imprese si sono rese conto che per stare sul mercato e per crescere diventava intollerabile stare in un sistema parassitario fatte da mille e piccole intermediazioni, che ne comprimeva il funzionamento. C’è stato un mutamento strutturale di scenario: quel sistema assistenziale e clientelare oggi non è più sostenibile economicamente. Ha funzionato finché ci sono stati i soldi. Da oltre un decennio invece le risorse sono sempre di meno e non aver cambiato quel modello in presenza di risorse più scarse ha portato a un degrado più grave nelle regioni meridionali». Di qui la convenienza ad aderire a un modello di legalità.
«Dopo la questione economica e sociale c’è quella democratica – ha ripreso Lo Bello -. Non si può nascondere un’evidenza che è sotto lo sguardo di tutti nel Mezzogiorno e oggi purtroppo anche in alcune parti del Paese: nel Meridione una quota importante di popolazione che nell’esercizio del suo massimo diritto politico, quello di voto, lo scambia sistematicamente con un pezzo della classe politica. E siccome un pezzo della società meridionale vede come una presenza forte quello della mafia per il consenso che riesce a generare, si crea un vulnus democratico fortissimo, ancora più pericoloso delle condizioni economiche e sociali. Qui andiamo appunto a discutere della tenuta democratica del Paese, o di una democrazia sostanziale di un Paese che prescinde dalle regole formali e dai diritti. Questo purtroppo è responsabilità di una parte della classe politica: sono decine nel Mezzogiorno gli indagati per voto di scambio, favoreggiamento alla mafia in concorso esterno. Sul voto di scambio bisogna fare oggi una riflessione più ampia, come le parti sociali fanno da tempo. In un Paese sfibrato moralmente e civilmente una riflessione di questo genere dovrebbe essere fondamentale e deve interessare l’intera classe politica. Perché lì siamo in un’area in cui non ci sono principi negoziabili. Perché il voto di scambio clientelare esalta due elementi negativi: la sfiducia nelle Istituzioni; perché questo è comportamento moralmente riprovevole nel quale il cittadino che non avendo davanti un’istituzione in grado di difendere l’interesse collettivo cerca di scambiare quella risorsa elettorale per tutelare il suo interesse particolare. E questo fa deflagrare le società meridionali. Il degrado civile e morale di molte realtà nasce dalla perdita complessiva della visione dell’interesse generale che si spezzetta in una miriade di piccoli interessi particolari, in un mercato folle dell’interesse particolare, mediato spesso dall’interesse politico e in molte realtà dalla mafia.
Io credo infine che ci sia una complessiva debolezza morale del Paese. Perché una penetrazione della mafia così forte nel Nord del Paese, il luogo che produce gran parte della nostra ricchezza nazionale, non può che trovare una spiegazione nella fragilità morale e civile. Quando società ricche, opulente, con una fortissima economia di mercato, consentono la penetrazione delle organizzazioni criminali, lì credo che ci sia un pezzo del mondo politico che ha raschiato il fondo dei valori possibili ed è alimentato da una sorta di cinismo a breve termine, senza visione e con una debolezza morale che rappresenta il vero problema del Paese, al di là della questione mafiosa e dei singoli esponenti. Io credo che su questo possiamo fare moltissimo noi come Confindustria e mondo del lavoro. Perché siamo due realtà che hanno nel loro Dna storico e nelle loro capacità l’idea di un Paese che cresce, che riscopre una forte etica pubblica, che sa produrre ricchezza ed è in grado di ridistribuirla. Lo possiamo fare unicamente combattendo la mafia e ripristinando le condizioni di legalità. Questa responsabilità ce la siamo assunta entrambi e credo che dobbiamo rafforzare questa alleanza».
Don Ciotti e l’esperienza di Libera
Serena Sorrentino ha infine interpellato tra gli ospiti don Ciotti, richiamando uno dei suoi ultimi interventi davanti agli studenti: «Lei ha parlato dell’inganno delle parole, di chi parla di legalità e poi fanno leggi ad persona, che calpestano ogni regola per tutelare la propria illegalità e che rendono legale ciò che è illegale. C’è anche un altro passaggio del suo intervento che ci sta particolarmente a cuore – ha proseguito la Sorrentino -, quello del precariato come precariato dei diritti, una nuova povertà a cui non eravamo né abituati né preparati in termini culturali. La cancellazione strisciante dell’uguaglianza, ha detto ancora, non è legata solo a un fatto economico ma è una ragione ideologica. Quindi inganno della parola e destrutturazione ideologica dei diritti rappresentano un disegno politico e sono ovviamente un brodo di coltura della mafia. Libera tuttavia in questi anni ha fatto molto per l’antimafia sociale. Il lavoro sulle terre confiscate alla mafia e il riuso sociale dei beni hanno dato un valore concreto alla parola legalità, ripristinato diritti nel lavoro, ridato dignità a chi lavora. Ma come insieme antimafia sociale, sistema delle imprese e corpi intermedi possono ridare senso alle parole e ricostruire un altro sistema di diritti?».
«Signori dalla mafia non se ne uscirà mai, mai, se non si uniscono forze ed energie – ha esordito con vibrante veemenza don Ciotti -. E soprattutto se non si investe nelle politiche sociali, nel sostegno alla famiglia e alla scuola, per creare un fermento sociale sul territorio. Questo è punto centrale, la dimensione educativa e sociale; e lo dico con il grande senso di gratitudine a quella parte attenta della magistratura e delle forze di polizia. Tanto è vero che noi l’abbiamo visto sui territori, rispetto ai ‘figli della mafia’. Perché la mafia è una madre puntuale e attenta per molti ragazzi in molti territori: la mafia, le organizzazioni criminali, diventano quella realtà che dà identità e senso di appartenenza, che dà occupazione apparentemente. E i ‘figli della mafia’ sono quegli oltre duemila fascicoli presso i tribunali dei minorenni in Italia, di ragazzi coinvolti in quei circuiti. La storia di questi anni ci ha insegnato che quando in quei territori si è investito in politiche sociali i fascicoli dei tribunali per i minorenni sono diminuiti. Ora sono di nuovo aumentati. Allora è il segno che lì si deve investire.
Libera che cosa ha fatto in questi 16 anni? Solo il suo dovere, quello di mettere insieme pezzi della società civile e soprattutto della società responsabile. Perché una di quelle parole abusate oggi è essere ‘civile’. Certo che si è civili nelle parole, ma la società è vera se è responsabile. Non si è civili se non ci si assume la propria quota di responsabilità. Ecco Libera ha messo insieme tante forze: 1600 gruppi nazionali. Quindi una grande realtà da mondi diversi. Dall’Agesci all’Arci, dai sindacati alla chiesa valdese, dai sindacati di polizia ad altre realtà. E la grande sfida per noi, per quello che ci appartiene di una società civile e responsabile, è moltiplicarsi nei vari territori, per fare lì la propria parte: riattivare i gruppi presenti nel fermento sociale, culturale e politico del territorio. La chiarezza dell’obiettivo, si veda, è emersa in quel milione di firme raccolte nel 1996 per avere una legge che è il frutto di quel noi, una legge per confiscare i beni ai mafiosi, il sogno di Pio La Torre, con l’aggiunta dell’uso sociale dei beni. È molto importante l’uso sociale perché è la restituzione alla collettività. Significa far sentire ai cittadini che quel maltolto con l’uso della forza, della violenza e spesso anche della morte, ritorna a essere loro. E in questo senso è cosa nostra, cosa di tutti noi. Ebbene quella legge è stata importante. Mentre alcune modifiche che sono state inserite proprio negli ultimi tempi hanno permesso una maggiore agilità e una maggiore efficacia.
Però abbiamo i beni che sono in gran parte bloccati, nel nostro Paese. Solo la metà sono consegnati di quegli 11 mila beni. E oltre il 45% dei beni confiscati e destinati non possono essere utilizzati: sono sotto ipoteca bancaria. Ora parole no, fatti: la politica deve sbloccare questo nodo. L’abbiamo posto alla Banca d’Italia, l’abbiamo posto in tutte le sedi nell’arco di questi anni. Nel frattempo i terreni deperiscono, vengono distrutti. E’ un segno culturale che va dalla parte dei criminali mafiosi e anche di chi dice: ‘Ma guardate, prima quel bene era ben tutelato e ora abbandonato, in parte distrutto’. Allora bisogna unire quello che mafie, illegalità e corruzione dividono: saldare le parole ai fatti.
E molte parole sono tanto sbandierate nel nostro Paese. Non solo: vengono svuotate del loro valore e significato. Una di queste è la legalità. Io vi prego usiamola il meno possibile. Cerchiamo di parlare molto più di responsabilità, che sta molto prima della legalità. Nelle scuole dobbiamo portare progetti che aiutano a essere responsabili. La legalità non è un valore in se stesso, non può essere neppure un fine: l’obiettivo resta la giustizia. Gli strumenti certo sono la legalità, il rispetto delle regole e la solidarietà. Ecco allora saldare le parole ai fatti, le speranze ai progetti, la memoria all’impegno, i diritti alle opportunità, la conoscenza alla responsabilità. Il grande nodo, di nuovo, è la responsabilità. Il valore etimologico di responsabile è ‘chi risponde’. Responsabilità vuol dire rispondere. C’è una risposta che ci chiama in gioco come singole persone, individuale. Ma c’è anche una corresponsabilità per il nostro Paese. E quindi, ancora, unire quel che le mafie dividono. Noi oggi siamo bombardati da parole che sovente offendono, dividono, etichettano. Dobbiamo cominciare a recuperare già nei nostri linguaggi parole che uniscono, che fanno emergere le positività, parole di dignità e di attenzione per tutte le persone. C’è una società che deve interrogarsi. Si devono fare il loro esame di coscienza i magistrati come se lo deve fare la Chiesa, la scuola, alcuni imprenditori. Ma devono interrogarsi anche i nostri gruppi e le nostre associazioni, anche quella cosiddetta società civile che deve farsi più responsabile. Perché nel nostro Paese i peggiori nemici della lotta alla mafia sono le società antimafia. Può sembrare un paradosso che ve lo dico io ma lo faccio con estrema sincerità e verità. Perché la ricerca dell’etichetta e dell’apparire, di cavalcare il tema della legalità e della lotta ai contrasti rischia di diventare una trappola mortale. Abbiamo bisogno di sobrietà, di essenzialità, di meno parole. Vorrei dire anche di meno convegni nel nostro Paese che su questo problema ne vengono proposti una settantina al giorno. Ci vogliono invece un prima, un durante, un dopo e un percorso: un lavoro come nella campagna della Cgil viene fortemente proposto. Solo allora il convegno ha un significato.
Voglio anche dire che è necessario ricucire lo strappo tra economia dei beni e l’economia del bene e della vita. Voi del sindacato siete i primi grandi testimoni che il primo presupposto è l’uguaglianza. Se tutte le persone non sono riconosciute nei loro diritti e nella loro dignità la legalità può diventare uno strumento di esclusione, discriminazione, di oppressione. Con i migranti è successo questo. In nome della sicurezza, una struttura denominata legalità, si è arrivati al punto di individuare un reato di clandestinità che grazie a Dio l’Europa ha stoppato. Ma si pensi anche alla maggiorazione di pena per i migranti che commettevano i reati: sostanzialmente due codici penali nel nostra Paese. Senza diritti e uguaglianza anche il benessere è a tempo determinato. La storia ce l’ha insegnato: è quello che è successo negli ultimi tempi. Senza diritti lo sviluppo economico non sarà mai progresso sociale. Mai. È un’altra cosa.
Un’altra di quelle bandiere che sento celebrare ovunque è l’etica. La rimettiamo al posto giusto. Perché l’etica è la ricerca di ciò che ci rende autentici. E l’etica chiama in gioco soprattutto noi adulti. Il problema del nostro tempo non sono i ragazzi ma il mondo degli adulti, quelli che fanno le politiche per la scuola, la famiglia, la società. Dobbiamo agire su questo mondo degli adulti con la stessa forza e dignità con cui agiamo nel costruire percorsi per i ragazzi. Bisogna creare una nuova forza generatrice tra i piccoli e i grandi, perché se agiamo solo da una parte non ne usciremo mai fuori. Io credo tuttavia che il progetto per la legalità della Cgil sia un progetto che trasforma il disorientamento, la fatica, le contraddizioni in speranze. La speranza ha bisogno di impegno. Questo è un progetto che ha una forte dimensione etica e di speranza: dobbiamo farcene carico insieme. Noi ci siamo. Ci sono anche i 4 mila ragazzi che sono partiti per i campi di volontariato sui bene confiscati (se avessimo avuto più campi sarebbero stati 12-15 mila). Segno che i ragazzi hanno voglia di sporcarsi le mani, di cose vere, di fatti. Questo per noi di Libera è una disponibilità che semina speranza. È dura, è difficile, è un momento particolare: i beni confiscati sono sotto assedio della mafia. In Calabria ci hanno incendiato 7 ettari di ulivi secolari, in Sicilia sono spariti 35 ettari di grano. Stanno indagando. In provincia di Caserta altri segnali inquietanti, come ne sono venuti anche da altri campi nel Nord del Paese. Ma dall’altra parte c’è la meraviglia di questi ragazzi che si mettono in gioco. La meraviglia di questi percorsi che qui stiamo spingendo perché seminano dignità e speranza. Lo so che non cambia il mondo ma anche di questo c’è bisogno».
FOTO: Raffaele Cantone, magistrato
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