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Novembre-Dicembre/2011 - Articoli e Inchieste
L’iniziativa
Susanna Camusso: «Il nostro senso di difendere il lavoro è cambiato»
di Marta Gara

La segretaria generale della Cgil ripercorre
i punti salienti della campagna contro l’economia
illegale, dalla lotta alle mafie al lavoro nero, senza dimenticare
l’importanza delle parole e dei concetti che dietro a loro si nascondono


Nel dritto della medaglia si legge che i mafiosi arrestati durante il governo Berlusconi sono stati 9237, di cui 32 latitanti di massima pericolosità, +88% rispetto alla legislatura precedente e 489 latitanti totali, +22%, con 839 operazioni di Polizia giudiziaria, +14% (dati Ministero Interno, settembre 2011). Dal 13 ottobre è inoltre in vigore un codice antimafia che ha dotato gli inquirenti di un testo unico che riunisce le leggi dal ’56 in avanti. Nel rovescio della medaglia si ritrova il monito, sulla stesse legge antimafia, del Procuratore nazionale Piero Grasso che ha detto: «Il governo ha bloccato fin dall’inizio qualsiasi attività innovativa. Mancano norme sull’antiriciclaggio e il voto di scambio, attualmente disciplinato nella sola ipotesi di scambio di denaro per i voti». Nell’ultimo anno sono ascesi alle cronache giudiziarie i tesori della mafia al Nord, creati grazie a solide infiltrazioni nel mercato regolare; i regolamenti di conti tra bande organizzate sono tornati alle porte di Roma, tanto da far supporre legami mai sciolti tra ‘ndrangheta e la banda della Magliana; dall’estate poi si susseguono atti vandalici su immobili o aziende confiscate alla criminalità organizzata in tutta Italia, coordinate da Libera terra. Solo alcuni esempi, di una medaglia che per certi versi sfugge ai parametri di valore tradizionali. La crisi dell’economia reale del Paese ha rafforzato la presenza di una mafia che non spara, ma sottrae ricchezza; approfittando del bisogno dei lavoratori e della caduta sociale ed etica che l’impoverimento trascina con se. Per questo la Cgil, proprio da quest’estate, ha scelto di porre l’accento sull’occupazione e la crescita secondo le regole. «Il nostro senso di difendere il lavoro è cambiato», ha esordito la segretaria generale Susanna Camusso alla conferenza di presentazione della campagna Legalità economica: l’unica risposta per il lavoro e il futuro.
«È più facile essere netti nel dire ‘lavoro di qualità’, ‘lavoro trasparente’ in una condizione di crescita - ha spiegato la Camusso - : diventa complicatissimo in una condizione di crisi. Pensiamo a quando difendevamo le fabbriche inquinanti perché comunque erano posti di lavoro. Oggi non lo facciamo più e non vuol dire che il lavoro non rappresenta il bene supremo per le persone, il loro tratto identitario. È che se vogliamo immaginare il lavoro come risposta positiva per chi verrà e per chi c’è abbiamo bisogno che quel lavoro sia un lavoro libero, un lavoro legale. Perciò la qualità dell’impresa, il modo in cui si decentrano le funzioni pubbliche, come si costruiscono le catene degli appalti nei grandi investimenti o nei nuovi settori, sono per noi, oggi, temi d’interesse. Ogni tanto è faticoso. Non è stato semplice quando ci siamo trovati a dire, rispetto a un’impresa che doveva essere reindustrializzata, che alcuni degli interlocutori che presentavano dei piani industriali non ci convincevano. Perché poi bisogna andare da quei lavoratori che stanno aspettando una prospettiva per dirgli che ad alcune proposte anche il sindacato ha detto di no. In un caso la magistratura ci ha risolto il problema procedendo a degli arresti e la questione si è risolta direttamente, ma intanto un atteggiamento è cambiato.
In ogni passaggio di posizione abbiamo inoltre sempre bisogno di costruire le convenienze. Abbiamo ad esempio superato l’idea che bisognava difendere le fabbriche inquinanti solo nel momento in cui eravamo in grado di unire il giudizio di quello che poteva succedere sul territorio dal punto di vista ambientale a quello che poteva accadere ai lavoratori, in termini di sicurezza e prospettive di un futuro sano. Abbiamo bisogno di fare con il lavoro pulito in genere la stessa operazione. Anche se è uno dei terreni più difficili sul fronte della legalità. Non solo perché spesso non riusciamo ad avere la contemporaneità delle risposte che ci vogliono per costruire le convenienze. Ma perché poi, appunto, la criminalità organizzata si presenta con ben altri volti e risorse. E non si muove solo su quei confini su cui il giudizio etico delle persone rappresenta di per se il crinale, si muove sulle attività economiche che noi quotidianamente possiamo incrociare. E allora credo che per questo, quando affrontiamo questo tema, dobbiamo coinvolgere la nostra attività contrattuale, il rapporto con Confindustria e le altre realtà d’impresa. Perché a noi piacerebbe che le scelte fatte da Confindustria in materia di legalità interna diventassero radicate anche in tutte le altre associazioni d’impresa. Penso ad esempio al lavoro nero e all’agricoltura: lì servirebbe un nuovo e straordinario impegno delle associazioni di impresa oltre che delle associazioni sindacali e del territorio». Come finora è stato fatto, dalla Fillea e Flai Cgil, con una campagna che ha fatto sì che il “caporalato” divenisse reato penale.

Dal permesso di soggiorno al lavoro
«Costruire le convenienze ha un’altra difficoltà - ha proseguito la Camusso -. Nel modello di rottura delle solidarietà, che è il modello che sta governando da tempo questo Paese e quindi dell’idea della soluzione dell’ognuno per sé, non ci dobbiamo dimenticare che anche dove lavorano i migranti quella è una situazione in cui può entrare la criminalità. Un mondo in cui è ancora più facile ricattare un lavoratore: si collega la costrizione al permesso di soggiorno, al documento che sta in mano a chi non dovrebbe averlo (visto che i documenti dovrebbero essere per definizione personali). Ma qui abbiamo un doppio problema. Oltre al dover far rispettare il contratto c’è quello di riuscire a convincere tutti i nostri iscritti e militanti, lavoratrici e lavoratori, che non c’è contrapposizione tra la difesa del loro lavoro e di quello dei migranti. Questa difficoltà ulteriore nasce perché c’è una corrosione dei valori di solidarietà che procede nella crisi. Più questa si appesantisce dal punto di vista della disoccupazione e più è facile che la risposta dei lavoratori diventi un’uscita non progressiva e di solidarietà, ma un’uscita a destra. In una richiesta di ‘ordine’ e risoluzione dei problemi attraverso l’allontanamento da sé di tutto ciò che viene vissuto come diverso e incompatibile. Noi siamo dentro questa contingenza, con questi rischi. È per questo che abbiamo pensato alla campagna per la legalità». Una campagna che, come si dice nell’intestazione del documento che l’accompagna, mira alla «tenuta democratica del Paese».
«Abbiamo pure bisogno di ripensare alle parole che usiamo - ha ripreso la Camusso -. Un discorso, questo, che ci mette in guardia su un’altra faccia del rischio di uscita a destra dalla crisi: quando altri si appropriano delle stesse parole e gli danno una simbologia diversa. Ad esempio ho sentito dire che il partito del governo Berlusconi sarebbe diventato il primo vero partito degli onesti, mentre tutti i giornali erano pieni di inchieste. Ma noi possiamo venir continuamente espropriati delle nostre parole? O forse dobbiamo porci il tema della riappropriazione delle nostre parole? Io per esempio non vorrei rinunciare alla parola ‘legalità’, perché mi riconduce alle regole condivise in partenza. Come penso che il sindacato ha bisogno che una serie di parole vengano riappropriate. La prima delle quali è il lavoro. Non perché non venga pronunciata, ma perché ha perso il suo valore sociale e il suo tratto identitario. Dovremmo anche riappropriarci del significato di condivisione, perché è stata turbata e violata dall’idea che fosse complicità, che è assolutamente differente. Nella nostra vita ci deve essere anche la parola responsabilità, espropriata in Parlamento in modo insopportabile dall’esistenza di un gruppo di irresponsabili che si sono dimenticati di mettere la ‘i’ e la ‘r’ davanti. Ma noi abbiamo bisogno della parola responsabilità per chiamare a responsabilità chi responsabilità non ha e per indicare la nostra responsabilità. Ne abbiamo un bisogno straordinario.
Tra le tante preoccupazioni che ho una si chiama ‘taglio agli enti locali’ e quindi condizioni e servizi per le persone. Questo è un tema che attraversa tutto il Paese, ma ce n’è una parte per cui che vuol dire un ritorno indietro di dimensioni straordinarie. Perché ci troveremmo di fronte all’impossibilità di risposta delle amministrazioni pubbliche in una cultura che ha già conosciuto l’idea dei diritti come favori e come clientela. Un’idea che ricondurrebbe le persone a chiedere non che venga agito un loro diritto ma che venga loro riconosciuto un favore, un piacere, una concessione. Che è la modalità in cui si riconducono le persone a essere sudditi e non cittadini con dei diritti. In quella cultura si perde anche il senso del dovere. Perciò dobbiamo rivendicare anche la responsabilità come punto di sintesi di diritti e doveri. Perché più si degrada il clima e più gli interessi vengono cancellati nella loro dimensione collettiva, più crescono le corporazioni. E se mi permettete c’è stato un esempio clamoroso di questa tendenza proprio ieri (il 13 luglio, durante la discussione di conversione in legge in Senato del decreto legge per la stabilizzazione finanziaria del 6 luglio 2011 ndr). Dentro la manovra c’è una norma che è un’ennesima attacco ai diritti dei lavoratori ed è quella che prevede che le cause di lavoro non siano più esercitate se non attraverso il pagamento di certe quote. Noi abbiamo fatto un conto che per un licenziamento, cioè per la condizione più difficile, siamo intorno ai 233 euro. C’è una diatriba sulle somme tra i nostri uffici vertenze, ma comunque da qui in su. Io penso che chiunque sieda in Parlamento dovrebbe sapere che un lavoratore che è stato licenziato e prova a fare una causa si trova nel momento in cui è portato a spendere il meno possibile, perché non sa cosa l’aspetta. Noi sappiamo tutti che il nostro Parlamento è pieno di avvocati. Ci saremmo immaginati che così come hanno reagito le organizzazioni sindacali (tutte hanno reagito molto male a questa norma), anche la loro rappresentanza (perché essere in tanti in Parlamento è una forma di rappresentanza) avrebbe posto il problema che bisognava togliere quella norma. Ebbene no. Hanno fatto una bella raccolta firme dicendo che se qualcuno toccava l’ordine professionale degli avvocati loro non avrebbero votato la manovra ma non gli è passato per l’anticamera del cervello di manifestare in quel luogo che loro hanno una funzione, non solo un diritto, di ordine professionale. E quindi anche il dovere di difendere i cittadini che a loro si rivolgono e che li pagano per il mestiere che fanno. Avremmo voluto vedere che usassero lo stesso tono di non approvazione della manovra per dire che fossero sparite quelle norme che limitano i diritti dei cittadini. Non l’abbiamo visto. Questo ci dice quanta strada dobbiamo ancora fare perché l’ordine corporativo non torni a essere il metro di misura del nostro Parlamento e poi di tutto il Paese».

Legalità economica
Dopo il pressing estivo e la stagione di scioperi che ha visto la segretaria generale in prima fila per difendere i lavoratori dagli attacchi dalle manovre di stabilità targate Berlusconi, il connubio tra economia e legalità portato avanti dalla Cgil non si è arrestato. A fine ottobre si è tenuto il primo di una serie di appuntamenti di formazione per la contrattazione della legalità economica, affrontando tre temi fondamentali per l’azione sindacale: gli appalti, la gestione dei beni confiscati e la sicurezza sul territorio. Mentre per il 16 dicembre la Confederazione sindacale promuove a Reggio Calabria il convegno “Il contrasto alle mafie alla luce del nuovo codice antimafia”, organizzato insieme a Magistratura Democratica. L’iniziativa, che fa parte proprio della campagna nazionale per la legalità economica, è finalizzata all’elaborazione di strumenti concreti di contrasto all’illegalità nell’economia e nel mondo del lavoro, andando a ragionare in profondità sull’amministrazione e sulla destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Un percorso a cui parteciperanno illustri esponenti del mondo della magistratura (Caselli, Pignatone, Morisini, Menditto e Maruccia tra gli altri), rappresentanti del mondo sindacale (Claudio Giardullo, Salvatore Lo Balbo, Ivana Galli, Serena Sorrentino), istituzioni locali, l’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati, parlamentari e associazioni per il contrasto alle mafie come Libera, Arci, Centro Studi Pio La Torre e Avviso pubblico.
Come si evince dalle parole della stessa Camusso sulla campagna nazionale, l’impegno della Cgil per la legalità economica passa anche attraverso valori di condivisione e la ricostruzione di un modello di solidarietà sociale. Per questo uno dei primi appelli alzatisi dalla Confederazione al neo-governo Monti, in una temperie di crisi finanziaria e occupazionale affatto placata, è stato proprio quello di aprire un tavolo di concertazione sul tema dei diritti per gli immigrati, prime vittime della precarietà. E di ridare fiato al lavoro dei giovani, alle loro speranze, ricomponendo la frattura generazionale creata dalla crisi. Sulla stessa direttrice anche la richiesta di attenzione al problema dei terreni confiscati alla mafia, già bacino di entusiasmo per i giovani e grande risorsa occupazionale. I dati ufficiali dicono che i beni confiscati in Italia sono oltre 11 mila, di cui più di 1.400 sono aziende. Quelli assegnati sono quasi 5 mila e valgono circa 900 milioni di euro. Ci si chiede allora: a quanto ammonta il totale dei beni non ancora assegnati insieme alla liquidità sequestrata? Questo è solo un esempio di come dal recupero di legalità si possa ricavare benessere sociale e ricchezza per il Paese. Di qui la proposta della Cgil al nuovo governo Monti di dar vita ad un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali e le associazioni di impresa in modo da dare organicità e sostegno all’importante prospettiva di riutilizzo dei beni e delle aziende confiscate alla mafia.
L’aggiornamento statistico dà infatti continue conferme sulla stretta connessione tra illegalità e flessione economica. Da uno degli ultimi rilevamenti ripresi, il rapporto Sos Impresa della Confesercenti, si apprende che dal 2008 a oggi sono state circa 190 mila le imprese che hanno chiuso i battenti per indebitamento e usura, vista l’inasprirsi della crisi. Mentre il contraltare delle organizzazioni criminali dispone di grandissime risorse liquide da poter immettere nell’economia legale, proprio grazie al riciclaggio di quel denaro sporco. Un fenomeno quest’ultimo che ha visto una crescita esponenziale nell’ultimo decennio. Se nel 2000 - secondo lo stesso rapporto - erano 25 mila gli usurai in attività, oggi sono aumentati di 15 mila unità, toccando la cifra record di 40 mila. In ogni comune del Belpaese ci sono mediamente cinque usurai pronti a lucrare sulla crisi economica con un impatto devastante non solo sulle imprese in difficoltà e sui livelli occupazionali ma anche sul bilancio dello Stato, alimentando un circuito economico sommerso di circa 15 miliardi di euro.

La spirale è senza fine?
Secondo la Cgil si può fare molto, a partire dal miglioramento della legislazione. Sintomatico è il fatto che solo la metà dei procedimenti a carico degli usurai arriva all’ultimo grado di giudizio e spesso è difficile dimostrare il legame con la malavita organizzata, il che accorcia di molto i termini della prescrizione. Tutto ciò scoraggia l’atto di denuncia da parte delle vittime, spesso impaurite e non tutelate da nessuno. Nell’ultimo anno ad esempio sono state appena 228, a fronte di migliaia di segnalazioni alle associazioni antiracket e usura che tramite gli sportelli di assistenza ricevono ogni giorno decine di segnalazioni. Vittime ultime di questo triste fenomeno sono i lavoratori e le lavoratrici delle aziende fallite. A loro probabilmente nessuno darà un risarcimento o un sostegno, visto che nell’ultima legge di stabilità del governo Berlusconi è stato approvato il taglio di circa 10 milioni di euro al fondo di solidarietà per le vittime delle mafie, dei fenomeni estorsivi e dell’usura; si passa dai 12 milioni di quest’anno ai 2 del 2012. Se si conta che le vittime dell’usura che hanno una posizione debitoria aperta sono 600 mila, vuol dire che a ognuno di questi spetterebbe un risarcimento ipotetico di 3,30 euro. In sostanza un altro regalo alle mafie.
Non l’ultimo se si considera che secondo stime della Cgil l’ammontare complessivo del “furto” perpetrato dall’illegalità economica allo Stato e ai cittadini ammonta a circa 330 miliardi l’anno, tra fatturato della criminalità organizzata, corruzione, lavoro nero ed evasione fiscale. Mai come in questo momento, mentre il governo Monti si appresta a varare il suo primo, rigidissimo, intervento fiscale, i valori “perduti” fanno rabbrividire. Ma legalità, come ha più volte ripetuto la Camusso, significa prima di tutto rispetto per il lavoro. «Equità da una parte e patrimoniale e risorse dall’altra - ha detto chiaramente la segretaria generale della Cgil lo scorso 15 novembre, immediatamente dopo il primo colloquio dell’allora presidente incaricato Mario Monti con le parti sociali -. Abbiamo chiesto un nuovo patto di cittadinanza, in cui la crescita parta dal lavoro: dalla riduzione della precarietà e dalle politiche industriali». Non solo dunque “un’altra manovra è possibile”, come si è dichiarato al momento del lancio della campagna sulla legalità economica in riferimento all’impatto degli introiti dell’illegalità che andrebbero recuperati, ma nell’urgenza della crisi la stabilità non può essere riconquistata sulla pelle dei lavoratori. Un tema caldissimo visto che il piano delle pensioni è all’ordine del giorno. «Il Governo deve sapere che 40 è un numero magico e intoccabile e mi pare che questo sia esaustivo della discussione», ha tuonato la Camusso dopo l’ipotesi di una riforma pensionistica modellata su una logica di abbattimento della via di uscita per la sola via contributiva a 40 anni. Secondo la formula della cosiddetta “quota 100 bloccata” non si potrebbe infatti andare in pensione prima dei 60 anni, arrivando ad accumulare pure a 41-43 anni contributivi. «Credo sia arrivato il momento – ha chiosato la Camusso – che il Governo convochi le parti sociali e ponga il tema di quale scelte intende e come intende discuterne». Insomma il più grande sindacato italiano è vigile: di fronte alla crisi insostenibile legalità e azioni concrete sono improrogabili.

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