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Settembre-Ottobre/2011 - Interviste
L’intervista
«Occorre dire la verità se si chiedono sacrifici»
di a cura di Barbara Notaro Dietrich

Sergio Chiamparino, sindaco di Torino
per due mandati consecutivi, è convinto
che ci sia una maggioranza di italiani che è ancora
disposta a tirare la cinghia ma crede che occorra
delineare un quadro in cui la fatica di oggi sarà
la crescita di domani e che occorra
ritrovare credibilità politica e morale

Fino a pochi mesi fa è stato il sindaco di Torino per due mandati consecutivi. E’ stato l’artefice e il traghettatore di un difficilissimo passaggio sociale ed economico della città sotto la Mole, vincendo una scommessa niente affatto facile. Ancora amatissimo dai suoi concittadini, ha un profilo politico di carattere nazionale, nonostante il suo impegno sia stato evidentemente più locale.
Oggi Sergio Chiamparino dichiara di voler fare il nonno e il pensionato. Al cittadino Chiamparino, oltre che al politico, abbiamo posto una serie di domande sui suoi connazionali e non solo.

In questo momento è difficile capire dove vada l’Italia. Secondo lei dove vorrebbero andare gli italiani?
È difficile rispondere. Son convinto che ci sia una maggioranza di italiani che non è più disposta a far finta di nulla davanti alle bugie. Credo che abbia percepito che se si vuole continuare a godere di una situazioni diversa e comunque a livelli di benessere di cui abbiano goduto sinora, con tutto il contorno anche di miglior distribuzione del reddito che si è verificato dal dopoguerra ad oggi, bisogna fare dei sacrifici per poi tornare a crescere con la maggior giustizia sociale possibile.
Il problema è che non c’è nessuno che abbia la credibilità politica e morale per dirlo, salvo il Presidente della Repubblica e però quello non è il suo compito e quindi son convinto che se c’è qualcuno che dice questa verità, trova una maggioranza.

Lei non crede però che la richiesta di sacrifici a chi già ne ha fatti molti e forse li ha visti vanificati, sia recepita con fastidio e riluttanza?
È ovvio che nessuno ha voglia di fare sacrifici. Pesa il fatto che non si è detta la verità. Ogni volta che si chiedeva sacrifici si diceva poi che non erano bastati. E quindi la gente giustamente si chiede se servano davvero o servano a far fronte ai capricci di chi governa. Se si dice la verità, ripeto, dicendo anche a che cosa sono finalizzati, è possibile delineare un quadro molto semplice in cui, la fatica di oggi sarà la crescita di domani.

Lei non crede che molti italiani non abbiano voluto vedere come stavano le cose e che forse il grande benessere finanziario era un bluff?
Noi siamo cresciuti moltissimo nell’immediato dopoguerra e fino agli anni ’70. Con quella crescita abbiamo accumulato un patrimonio. Se l’80 per cento degli italiani è proprietaria di alloggio, questo vuol dire qualcosa. Poi è arrivata la famigerata globalizzazione. Il problema non è che la finanza di per sé è foriera di sprechi, malversazioni o crescita distorta, il problema è che noi abbiamo smesso di crescere, mentre son cresciuti altri Paesi che hanno qualche miliardo di persone che giustamente vogliono vivere come viviamo noi. Non si capisce perché un cinese non debba ambire ad avere il frigorifero, la televisione o l’automobile. È ovvio che queste risorse si son spostate da altre parti; noi ci siamo indebitati a livello pubblico e privato e la finanza è quella che gestisce questo debito.
Le colpe della finanza sono un derivato del fatto che i Paesi più industrializzati a un certo punto si sono illusi di poter mantenere il tenore di vita che avevano con il debito. Questo è il punto che va capito. Le due aree economiche le cui monete son quelle di riferimento a livello economico, cioè il dollaro e l’euro, hanno il debito pubblico posseduto in maggioranza dalla Cina. È un paradosso che ci dice che forse bisogna operare qualche riequilibrio a livello internazionale. Nessun paese da solo, solo tenendo in ordine i propri conti, se non c’è un riaggiustamento a livello internazionale, ce la fa.

Qualcuno tra gli italiani ha addirittura auspicato il default…
Lì ci sono alcuni che un tempo si sarebbero chiamati cattivi maestri. Alcuni economisti teorizzano ciò che oltre a non senso economico è anche una falsità sociale. Non che uno Stato non possa fallire. È già successo. Basta che ci sia qualcuno che rileva i debiti e li paga esattamente come nel privato. Altrimenti il fallimento di uno Stato diventa tragedia sociale.
Nessuno che si dice di sinistra può teorizzare il default perché chi ci rimetterebbe è chi non ha la scarpe non certo chi ha i piedi al caldo… Credo si tratti di forme di esasperazione che sono figlie, nella migliore delle ipotesi, di grandissime ingenuità.

Secondo lei quali sono le doti degli italiani?
Anche se si rischia di dire banalità, sicuramente è un popolo che ha grande inventiva e capacità di arrangiarsi, in senso positivo. È anche un popolo però che non ha grande attitudine al rispetto delle regole… Guardiamo alle cose piccole, si va dalle cicche per terrà al divieto di sosta in doppia fila… è un popolo che vive questa contraddizione.

Ha indicato quindi così anche i principali difetti…
Esatto, la mancanza di rispetto di regole. Leggevo (essendo pensionato ho tempo per leggere) il saggio di uno storico, Peter Hiter, sulla fine dell’Impero Romano. A un certo punto si cita Sant’Agostino e la teoria della città di Dio, elaborata proprio nel tempo del sacco di Roma, e si capisce benissimo che dal pensiero filosofico di elaborazione cristiana, nasce una teoria per cui le città sono una dei tanti Stati che possono essere la città di Dio e una, e una sola, è quella che viene dopo.
E allora è chiaro che questo ha avuto non poche ripercussioni nel sentire comune rispetto alla non identificazione del cristiano nello Stato che è diverso se si passa la linea della riforma protestante.
Quando si parla dei vizi degli italiani, si può anche ridere vedendo i film di Alberto Sordi ma poi alla fine dietro c’è un accumulato di cultura che non è banale che porti a quelle cose. Basta andarsi a rivedere quello straordinario film di Monicelli che è “La grande guerra” e si trovano i vizi e le virtù degli italiani. La cultura di derivazione cattolico-cristiana ha dei riflessi non banali nell’atteggiamento che ogni singolo ha nei confronti dello Stato e quindi di conseguenza nella politica. La politica è quello che la somma dei singoli chiede di essere.
È inutile che pensiamo che ci sia una società virtuosa e una politica viziosa. Avere la traccia del potere temporale della Chiesa all’interno del Paese Italia non è stato privo di conseguenze. Bisogna tenerne conto. Ed è inutile avere atteggiamenti laicisti per cui si pensa che basta avere la spada di Alessandro Magno e si taglia il nodo gordiano dicendo no al concordato. Perché a monte c’è una cultura che ha permeato di sé una grande parte dell’Italia. E nemmeno deve essere un alibi per non far nulla. Occorre insomma tener conto che la religione ha avuto e ha influenze importanti sul comportamento sociale.

Lei che ha vissuto da sindaco in maniera così forte (Torino è ancora piena di tricolori) i 150 anni dell’Italia, quale pensa sia lo spirito autentico di questa ricorrenza?
Per Torino credo ci sia stato anche lo scatto d’orgoglio di essere stata la prima capitale e forse di essere una delle città in Italia che ha maggiore il senso dello Stato inteso come senso di appartenenza a una comunità nazionale. Sul piano generale credo che il valore principale che un po’ si è anche visto, anche se non in maniera sufficiente, sia stato riflettere su cosa siamo stati e cosa siamo stati capaci di fare in questi 150 anni e qui il discorso si lega al punto da cui siamo partiti.
Noi abbiamo davanti delle sfide in larga parte inedite e avere chiarezza su cosa siamo secondo me è importante. Inoltre purtroppo Torino non è che sia un’isola felice, ma certo andando spesso a Roma dal punto di vista esteriore, c’è una notevole differenza. Però credo che questo sia dovuto al fatto che non era nemmeno scontato che si facesse la festa dei 150 anni.
Abbiamo sentito esponenti importanti del governo ma anche della cosiddetta società civile, la Marcegaglia per dirne una, che a fronte di una data che aveva un valore simbolico, aveva anteposto questioni che poi, come si è visto benissimo, non erano così dirimenti per come è cambiata in due giorni la manovra economica e mi riferisco appunto alla data della festa. La freddezza che ci può essere in altre città che non hanno avuto il ruolo di Torino dal punto di vista risorgimentale, è comprensibile anche alla luce del clima che c’era.

Si sono sentiti rimpianti verso la Prima Repubblica...
Sono sempre diffidente verso le periodizzazioni… Al di là di ciò, la Prima Repubblica è stata comunque quella in cui l’Italia ha conosciuto il periodo di maggiore crescita sia del benessere che della cultura, con tutte le contraddizioni e problemi che pure c’erano.
La Seconda Repubblica è stata largamente al di sotto delle aspettative. Non si è stati capaci di uscire da un avvitamento su se stessi. Il teatrino della politica ha prevalso certo, sui problemi da affrontare perché per chi ha memoria, è impressionante che nel 2011, cancellando i riferimenti temporali, non ci vorrebbe molto a immaginarsi nel ’94…
Forse l’abbaglio è stato pensare che la politica sarebbe stata gestita meglio da non politici…
Può darsi. Ci son sempre state fasi in cui persone che non hanno mai fatto politica si affacciano a questo mestiere.
La politica si impara. Non credo sia un problema di scuola ma di apprendimento… Non mi sembra il filone principale. Non è vero che non ci siano persone che hanno competenze politiche. È che c’è stato, in tutti questi anni, un rifiuto di guardare la verità in faccia.
Non è un problema di singoli preparati, è che si è preferito raccontare che il problema principale era come togliere l’Ici. Poi che ci sia un’esigenza di valorizzare chi ha esperienza, è tutto vero, ma è la seconda che deriva dalla prima.

Non crede che abbattere i costi della politica (anche nell’ipotesi che non serva a molto economicamente) sarebbe però un segnale per i cittadini?
Non c’è dubbio. I tagli della politica hanno due aspetti. Uno di natura prevalentemente simbolica: quando si chiedono sacrifici il primo segnale da dare è che intanto li faccio io. L’altro invece, che avrebbe valore materiale, sarebbe ridurre i costi e la farraginosità delle decisioni, riducendo gli addetti, e che richiederebbe una riforma istituzionale e amministrativa che non si può solo ridurre al taglio delle Province.
Per me non bisogna avere più di due Enti elettivi a livello locale perché sennò si rischia di avere una macchina infernale. A questo occorre arrivare gradualmente con una riforma del pubblico impiego, più a livello centrale che non periferico.
Poi non ha nessun senso che gli Enti locali continuino ad avere quote di controllo del cento per cento nelle municipalizzate. Se si vuol controllare una società, qualsiasi privato lo può fare con il trenta e anche meno.

Che ne pensa del federalismo?
Purtroppo è nato ed è vissuto come una battaglia di parte a cui altri si sono accodati spesso criticamente. Anziché fare del federalismo l’occasione per la riforma di cui si accennava prima, parlando di costi della politica, si sta mettendo in piedi un marchingegno che rischia di rendere ancora più complessa e costosa la macchina pubblica.
Ma non si potrebbe dire che con la riforma dell’articolo quinto c’è già il federalismo?
In effetti l’embrione del federalismo è lì. Ma poi c’è la parte attuativa che non è meno rilevante. Capire la distribuzione delle funzioni e delle risorse, che è il tema di oggi e che è quello su cui si sta aggrovigliando tutta la vicenda politica italiana, con rischio di creare l’esatto opposto di ciò che si auspicava. Senza il federalismo fiscale e la distribuzione dei poteri, non c’è federalismo.

Ammesso che questa classe politica sia anziana, o anagraficamente o mentalmente, in che cosa i giovani politici dovrebbero differenziarsi?
È difficile dire che cosa devono essere gli altri. Per dirla in una battuta credo occorrerebbe diffidare un po’ di più, guardare con distacco critico la mediatizzazione della politica, sennò si rischia che gli uomini e le donne che hanno responsabilità politiche finiscano per assomigliare tutti, quando va bene a giornalisti televisivi, quando va male a show man o a comici.
L’unica cosa che mi sento di dire è che c’è da guardare ai politici di un tempo che andavano pochissimo in televisione e per lasciare un messaggio.

Se fosse Presidente del Consiglio oggi che cosa farebbe?
Imposterei una manovra economica rispettosa. Direi chiaramente che ci siamo illusi di poter vivere a debito. Questo non è più possibile e non perché la Bce sia brutta o cattiva, ma perché ci sono alcuni miliardi di persone che vogliono star meglio.
Occorre una riforma fiscale. Una patrimoniale straordinaria da destinare subito alla riduzione del debito, una ordinaria, ben spalmata che insieme con un meccanismo serio di contrasto dell’evasione fiscale, serva per ridurre drasticamente il fisco che imprese e lavoratori pagano. Poi farei un abbattimento dei costi della politica, per dare un segnale e poi impostare un piano di riordino generale dell’assetto istituzionale.

Quali sono i vantaggi di stare in Europa?
Quello che noi paghiamo oggi sotto forma di risanamento della finanza pubblica, lo avremmo pagato, raddoppiato, in termini di inflazione. Abbiamo la memoria corta e nessuno tiene a mente che se fossimo stati fuori dall’Unione Europea, la lira si sarebbe svalutata.
Questo avrebbe in parte aiutato l’economia tenendo però conto che oggi abbiamo romeni, bulgari, cinesi, indiani che esportano a cifre più basse di quelle che avremmo usato noi in caso di svalutazione. La svalutazione riduce il debito, ma anche gli stipendi. Oltre al fatto che star dentro questo progetto europeo, è l’unica chiave che ha un senso per stare nella globalizzazione.

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